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A volte, quando si è un grande scrittore, le parole vengono così in fretta che non si fa in tempo a scriverle... A volte. (Snoopy)

 
 
 
 
 
 

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mostra evento di Costantino Giovine presso Il trittico - Roma Piazza dei satiri - inaugurazione sabato 26 febbraio alle 18.30

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Il presidente della giuria, Luigi Bernardi, ci comunica che

   The winner is Paolo Zaffaina

La motivazione:

Statale 61 è un bel racconto giocato su molteplici livelli, tutti resi con stile adeguato.
I continui cambi di prospettiva, fino allo scioglimento finale, ne fanno un testo godibile ed estremamente accattivante.
Un bel saggio di scrittura al servizio di un'ottima idea.

adesso rileggiamolo iniseme >>>clicca qui

Scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli (E. Salgari) 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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Lo scrigno

Post n°51 pubblicato il 17 Febbraio 2008 da tuttiscrittori
 

un racconto di Marittiello - Pensieroinespresso

Quando con un colpo di reni raggiunsi il cofanetto, il battito del cuore superò il livello di guardia.

Eravamo a non più di quattro metri di profondità con fondali sabbiosi e salmastri che rallentavano i movimenti del corpo e riducevano quasi a zero la visibilità.

Da dieci giorni stavamo esplorando il relitto, che era stato già spogliato di tutto da altri visitatori più esperti, più veloci e, sicuramente, più bravi di noi. Gavino, che conosceva quella costa palmo a palmo, ci aveva indicato, con sorprendente precisione, la zona dell’immersione. Guardando senza binocolo verso terra e fissando punti di riferimento che nessuno di noi riusciva a vedere, dopo quasi un’ora di mare, con una brusca virata, aveva puntato la prua verso il sole e gettato rapidamente l’àncora, senza dire nulla. “E’ qui?”, avevamo gridato in coro. Aveva annuito, ancora in silenzio. Ci eravamo preparati all’immersione un po’ scettici, ma con la voglia di saperne di più. Eravamo in quattro, oltre Gavino, ottimi nuotatori e buoni amici. “Andate giù! Che aspettate?” urlava, assicurandosi della tenuta dell’àncora. L’acqua era verde scuro e lasciava filtrare la luce per non più di due metri, mentre Gavino ci aveva detto che la profondità in quel punto era di circa quattro. Una piccola ferita in una secca che doveva essere lunga varie centinaia di metri. Dopo poche bracciate avevamo raggiunto la zona torbida fino ad arrivare a toccare la sabbia da cui emergevano, inquietanti, resti di fasciame e pezzi di albero conficcati ancora in profondità nel fondo marino. Freneticamente, con gesti convulsi, cercavamo di smuovere la sabbia che custodiva come uno scrigno, forse da secoli, il segreto di quella barca. Un’emozione fortissima durata i pochi minuti della riserva d’aria, ma destinata a ripetersi con la stessa intensità ogni qual volta, in quei dieci giorni, le nostre mani erano arrivate a sfiorare la superficie dello scrigno sabbioso. Ci immergevamo senza sosta, muovendoci su un’immaginaria linea orizzontale, cercando di sondare e smuovere la maggior quantità di sabbia, nella speranza di trovare…A dire il vero, non sapevamo neanche noi cosa sperassimo di trovare, ma eravamo certi che qualcosa sarebbe apparsa all’improvviso a dare un senso alla nostra immane fatica. E così fu. Durante una delle ultime risalite pomeridiane, mentre il corpo era ancora sul fondo in posizione orizzontale, prima di inarcarlo per puntare verso la luce, un colpo di pinna non era andato a vuoto, ma si era spezzato su qualcosa di duro che non era legno. Mi ero girato di scatto e avevo scorto, incastrato nel fasciame, un oggetto metallico che non ero riuscito a distinguere nettamente. Ero subito risalito senza compensare, per respirare a pieni polmoni e ritornare immediatamente giù, sperando di rivedere quello che avevo appena intravisto, mentre Gavino e gli altri dalla barca mi guardavano attoniti.

 

E così, quando con un colpo di reni raggiunsi il cofanetto, il battito del cuore superò il livello di guardia.

 

Dalla barca tutti mi tesero le mani per prendere l’oggetto che stringevo gelosamente sotto l’ascella destra, ma io lo tenni ben stretto e, con la spinta di un solo braccio, risalii a bordo stremato, lasciando cadere il cofanetto ai piedi degli amici. In realtà, vedemmo subito che non era un cofanetto, ma un bauletto metallico di colore indefinito, perché la ruggine e la salinità l’avevano rivestito nel tempo con una patina viscida di uno strano colore verdastro, che lo rendeva scivoloso come uno scoglio a pelo d’acqua coperto di piccole alghe. Cercammo inutilmente di aprirlo con le mani ma, non avendo ferri a disposizione in barca, non riuscimmo a spostare neanche di un millimetro il coperchio, che lasciava appena intravedere la fessura che lo separava dalla parte inferiore. Non vi erano feritoie per chiavi o anelli per lucchetti e dall’interno non proveniva alcun rumore. Sembrava pesantemente vuoto. Tornati in fretta a terra, Gavino si curò dell’apertura. Prese una lama tagliente e dura e con pazienza cominciò a disincrostare la fessura che separava il coperchio dalla piccola cassa. Un lavoro che durò quasi un’ora. Poi a colpi di martello riuscì ad entrare nella feritoia con due lame, facendo leva e, contemporaneamente, spingendole in senso orizzontale con un movimento ampio e risoluto dei polsi. Dopo un’altra ora circa il coperchio cedette.

Due dita di sabbia impastata d’acqua e nient’altro. Ci guardammo allibiti. Poi Gavino, col palmo aperto della mano, tastò il fondo della piccola cassa, filtrando la melma con le dita, come un cercatore d’oro fa col setaccio. Vedemmo il suo volto all’improvviso cambiare espressione. “C’è qualcosa”, urlò con gli occhi fissi nel buio impenetrabile del bauletto. “Sento qualcosa di ruvido”, aggiunse, questa volta a voce bassa, parlando a se stesso. “Dai, forza, tira fuori la mano”, gridai, roso da una curiosità ormai incontrollabile, che mi pareva superiore a quella degli altri che, invece, in sacro silenzio aspettavano la mano di Gavino, come si attende quella di un prestigiatore dal cappello a cilindro. Dal fondo melmoso della cassa, lentamente emersero, prima, due piccole stelle marine, poi il palmo della mano che le reggeva, come su un piatto, offrendole al nostro sguardo.

Erano intrecciate fra loro per un lembo, rigide e ruvide, ma ancora colorate, procurando in noi la stessa impressione che di certo provarono gli archeologi alla comparsa dei corpi avvinghiati di Ercolano.

La mattina dopo, con la prua rivolta al sole, Gavino le riconsegnò al mare.

Un raggio di luce le avvolse, accompagnandole delicatamente sul fondo, mentre in superficie due monete di sole con i lembi intrecciati segnarono, ancora per qualche istante, il loro passaggio.

 

 

 
 
 
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