Meraviglioso D’Avenia! Definitivo

Tahiti, 1897. Un uomo dipinge senza posa da un mese su un’immensa tela grezza, fatta di sacchi cuciti: è il suo testamento, poi si ammazzerà. Paul Gauguin, fuggito da una Francia falsamente viva, lascia la famiglia e va nel cuore del Pacifico, ma neanche in Polinesia trova il paradiso e l’innocenza in cui sperava. Cambia cielo non anima chi corre per mare: al suo inferno interiore si aggiunge la notizia della morte della figlia Aline, di 8 anni. Così prova a sconfiggere la tenebra con i colori e, come un condannato a morte, dipinge il suo ultimo desiderio, che intitola «Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?»: «Ai due angoli in alto, dipinti in giallo cromo, c’è il titolo a sinistra e la mia firma a destra, come un affresco, guasto agli angoli, applicato su un fondo oro». Era la fine e il fine della sua ricerca artistica ed esistenziale: «Ho trasmesso in questo quadro tutta la mia energia, una così dolorosa passione in circostanze così tremende che la vita ne sgorga fuori direttamente». Il dipinto ruota attorno a una donna che coglie un frutto, ma attorno a lei è rappresentato il tragico evolversi delle stagioni della vita verso la morte: la vita è una grande promessa non mantenuta. Il grandioso quadro non basta a ritrovare la speranza e Paul ingerisce il veleno, ma in quantità tale da vomitare, scampando alla morte che lo coglierà qualche anno dopo, per sifilide. Anche il suo amico Vincent Van Gogh aveva perso la speranza e, sette anni prima, mentre dipingeva nei campi di Auvers-sur-Oise, si era sparato un colpo di pistola. Due anime inquiete e parallele, alla ricerca di una irraggiungibile vita autentica.

Nel quadro di Paul la natura polinesiana resta uno scenario fantastico e l’oro, che esce dai finti angoli, è quello del fondo delle icone: un oltre eterno, ma qui celato e irraggiungibile. Quell’oro ha la stessa origine del giallo dei campi di grano ai quali Van Gogh dedicò i suoi ultimi sforzi: «Ho dipinto tre grandi tele: immense distese di grano sotto cieli tormentati e non ho avuto difficoltà a esprimere la mia tristezza e solitudine», come minaccia il nero volo dei corvi su quei campi. Entrambi cercarono il paradiso, ma non saltò fuori: il cielo restava chiuso e la felicità impossibile. Più costruiamo il paradiso con le nostre forze, più rimaniamo delusi. Quando nella storia l’uomo ha cercato di realizzare il paradiso in terra non ha prodotto che danni, dittature e stermini. La terra non chiede paradisi ma contadini la cui la libertà è l’aratro con cui aprire solchi o ferite nel «campo umano», che può diventare giardino o groviglio, raccolto o carestia, sta a noi scegliere. Come?

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Affido la risposta a una donna che amo: Caterina da Siena. A 31 anni dettò un capolavoro intitolato Dialogo della divina provvidenza (1378), un colloquio intimo con Dio Padre, in un passo del quale, la futura patrona d’Italia, lamentandosi con Lui perché uomini e donne (a partire da lei) sono così imperfetti e fragili, riceve questa risposta: «Ho elargito molti doni e beni, sia spirituali che corporali – dico corporali con riferimento a ciò che è necessario per la vita dell’uomo – distribuendoli tutti in modo così differente che a nessuno toccassero tutti, affinché voi uomini aveste necessariamente occasione di reciproco aiuto. Certo, avrei potuto dotare ogni uomo di tutto ciò che gli fosse necessario, sia per l’anima sia per il corpo, ma Io volli che gli uni avessero bisogno degli altri, e si facessero miei ministri col distribuire agli altri quelle grazie e quei doni che hanno ricevuto da me. Lo voglia o meno, l’uomo non può fare a meno di fare atti d’amore. Ciò mostra come nella mia casa via siano molti compiti attraverso i quali Io non mi aspetto altro che amore».

Trovo queste righe illuminanti per chiunque, credenti o meno. La terra non è un paradiso perduto o mancato, ma una casa in costruzione, in cui ciascuno ha un compito, di cui doni e limiti personali sono le istruzioni. La divina provvidenza non è in un Dio tappabuchi a cui il mondo è venuto male, ma siamo noi stessi, ricchi di doni e di limiti: sono io che decido se mettere al servizio degli altri i doni che ho, o farmi i fatti miei; sono io che decido di chiedere aiuto a chi ha doni che io non ho, senza vergognarmi dei miei limiti. Le relazioni sono generative quando decidiamo di prenderci la responsabilità del destino delle cose e delle persone. A volte qualcuno riesce a dare solo il suo dolore e la sua fragilità, ma anche questi sono doni che invitano a offrire cura. La storia così diventa uno scenario fatto per dare e ricevere, ciascuno nel suo ambito e come può. Per esempio nel mio questo significa mettere al primo posto alunni e colleghi, e scoprire che cosa ciascuno ha di unico da dare e che cosa invece ha bisogno di ricevere. Se non lo si fa le relazioni diventano degenerative, che non vuol dire faticose o difficili (è normale nelle relazioni vere) ma prive di vita, cioè le energie e la gioia si spengono, e arrivano nell’ordine: solitudine, stanchezza, disperazione e distruzione. Tutto sta a noi, ancora una volta.

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La sensibilità 1/2

Uno dei segni più impressionanti della marcia spietata della modernità attraverso i nostri cuori e le nostre menti, in nome di uno scientismo disumano e di un efficientismo fine a se stesso, è la progressiva scomparsa della sensibilità dal bagaglio spirituale delle persone.

Intendiamoci: la sensibilità è un dono, un dono raro; le persone che la possiedono, sono portatrici di un bene prezioso che non si acquisisce con lo studio, anche se lo si può affinare con l’esperienza: e, in questo senso, sono sempre esistite nel corso della storia e, forse, continueranno ad esistere, anche se alquanto ridotte di numero.

Tuttavia, mentre essa veniva apprezzata o, almeno, trovava spazio per manifestarsi in una società ancora a misura d’uomo, come era quella pre-industriale (pur con tutti i suoi limiti innegabili), si direbbe che, oggi, essa sia diventata superflua e che nessuno, o molti pochi, si dolgano della sua progressiva scomparsa, come il mondo potesse benissimo farne a meno.

Le virtù dell’animo che oggi vengono maggiormente apprezzate e lodate sono l’intelligenza pratica (anche se disgiunta da una valutazione complessiva dei problemi), la determinazione nel perseguire i propri obiettivi (senza farsi troppi scrupoli), la sicurezza di sé (indipendentemente dall’esatta valutazione del proprio valore), la flessibilità mentale (spinta fino ad accettare i peggiori compromessi), la disinvoltura in qualsiasi circostanza (fino alle forme più discutibili di esibizionismo e narcisismo).

La sensibilità è fra le doti non indispensabili. Che cosa se ne farebbe il cittadino del terzo millennio, tutto proteso a conquistarsi il proprio spazio sociale, a ritagliarsi la propria fettina di visibilità, di successo (anche economico), di gratificazione esteriore? In un mondo che si disinteressa di fini e di valori, ma che punta quasi esclusivamente alla soluzione di problemi pratici, a che cosa può servire la sensibilità, una dote non spendibile in termini quantitativi?

Si dimentica che la sensibilità è alla base sia della creazione artistica, sia dell’intuizione dei grandi problemi scientifici; e, soprattutto, che costituisce un fattore indispensabile per l’armoniosa convivenza degli individui all’interno della società: perché, una volta spogliato di essa, qualunque gruppo umano finisce per generare continuamente attriti e tensioni che, una volta instaurati, è difficilissimo controllare e disinnescare.

La sensibilità è quella dote che spinge l’amico a farsi avanti non appena intuisce l’esistenza di una difficoltà, prima che si trovi il coraggio di chiamarlo; che risolve amichevolmente i malintesi, prima che degenerino in astiosi e prolungati rancori; che mette gli altri a proprio agio, nelle situazioni in cui si sentono esposti e indifesi; che scioglie in un sorriso tensioni vecchie e nuove, portando una nota gentile di freschezza e leggerezza; che apre gli occhi avanti allo spettacolo incantevole del mondo e sa renderne partecipi anche i cuori più distratti.

La sensibilità è la mano soave di una donna che orna con un vaso di fiori una stanza nuda e spoglia, portandovi una nota di colore e di calore.

La sensibilità è, anche, la parola giusta pronunciata al momento giusto, così come il silenzio affettuoso e partecipe, quando non vi sono parole adeguate alla situazione.

La sensibilità è saper godere delle piccole cose, delle piccole gioie, e trasmetterne il segreto anche agli altri, addolcendone le asprezze e medicandone le ferite.

La sensibilità è l’atteggiamento di delicatezza e di profondo rispetto con cui l’io si rapporta al tu, vedendo sempre in esso un soggetto di pari dignità e mai un semplice mezzo.

La persona dotata di sensibilità possiede una ricchezza in più, che la mette in grado di cogliere aspetti del reale i quali sfuggono ad altri, alimentando così incessantemente la propria profonda umanità.

Al tempo stesso, è indubbio che la persona sensibile soffre più delle altre, perché si trova esposta a quegli strali che individui dalla pelle più spessa non avvertono neppure e perché vede con maggiore chiarezza la grande distanza che separa il reale dall’ideale.

Un bambino sensibile, ad esempio, soffrirà in modo più intenso e tormentoso della mancanza di affetto dei genitori, della cattiveria dei compagni o di una crudele malattia che ha colpito una persona a lui cara; tuttavia, anche le sue risorse sono in proporzione alla sua sensibilità, per cui difficilmente egli si troverà del tutto indifeso davanti ai colpi della vita.

Il fatto che la persona sensibile sia, per un certo aspetto, più esposta, non significa che la sensibilità sia un dono avvelenato per coloro che lo ricevono, perché le possibilità positive che essa conferisce superano immensamente gli svantaggi, al punto che non è nemmeno possibile istituire un raffronto tra questi e quelle.

Per quanto maggiormente esposta ad essere ferita da taluni circostanze della vita, la persona sensibile possiede, non di rado, una visione del reale così profonda e radicata, così matura e consapevole, da poter elaborare anche gli strumenti per riflettere sulla propria condizione e per apprestare nuove risposte alle sfide che le vengono incontro, spostandole, al tempo stesso, su di un livello sempre più alto e spirituale.

Nulla di quanto accade alla persona sensibile si perde nei rigagnoli e nella palude stagnante del tirare a campare; su tutto ella medita con profonda serietà, cercando in ogni cosa il significato riposto, l’occasione di una evoluzione e di una elevazione. È ricettiva nel miglior senso dell’espressione: tutto il suo essere è spalancato sul mistero della vita.

Ecco perché l’impressione di fragilità, che talvolta le persone sensibili possono dare ad uno sguardo un po’ superficiale, molte volte non corrisponde alla realtà dei fatti. È vero che, in certe situazioni, esse rimangono come disarmate, là dove altre persone non incontrano che lievi difficoltà o anche nessuna; ma è altrettanto vero che ciò vale specialmente per gli ostacoli di ordine inferiore, per quelli che coinvolgono l’essere solo superficialmente.

In moltissimi casi nei quali la posta in gioco è molto più alta; casi nei quali, ad esempio, non si tratta di normali contrattempi della vita, ma di grossi ostacoli e di grosse prove, ebbene le persone sensibili sanno tirare fuori, al momento opportuno, una grinta e una determinazione invidiabili, che gli altri non si sognano nemmeno di possedere. La loro è una forza che emerge nelle situazioni più ardue, là dove è in gioco l’anima stessa di una creatura umana.

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Semplicemente

L’unica differenza VERA tra tutte le persone è
tra Persone Belle (interiormente, ovviamente!)
e persone brutte.
Tutto il resto non conta (o al massimo può contare per gli stolti, gli sciocchi)
Quindi sono assolutamente fasulle le distinzioni di tipo economico, sociale, culturale, religioso, politico, di orientamento sessuale, eccetera eccetera…..
È cosa stupida e sbagliata dividere, distinguere le persone,
ad eccezione della differenza di cui ho parlato all’inizio.
Non ci sono persone diverse, sbagliate, anormali, così come non esistono persone nemiche,
ripeto,
esistono soltanto
Persone Belle
o
persone brutte .
Gius

ANGIOLINO

ANGIOLINO BONETTA 14 anni, Servo di Dio

Vivace e sportivo, allegrissimo, in seguito a “un male” alla gamba, si trova con una gamba sola. Una lunga “via crucis ” vissuta con Gesù. Cigole è un paese che si incontra uscendo da Brescia e inoltrandosi verso Cremona. Qui il 18 settembre 1948, da una buona famiglia di lavoratori, nasce Angelo Bonetta. In casa lo chiamano subito Angiolino.

Appena impara a camminare e ad aprir bocca, si rivela vivace con una grande voglia di correre, saltare, divertirsi, combinare marachelle. Già all’asilo è il capobanda dei bambini e le maestre sono impegnate assai a tenerlo a bada.

In terza elementare, durante l’intervallo, con i compagni, una mattina decide dei incollare le “caramelle” di gomma americana, ormai succhiate, sulla sedia dell’insegnate, il quale poi, senza accorgersi di nulla, vi si siede sopra. Le risate sono fragorose quando al maestro, alzandosi, rimane la sedia appiccicata…

Ha voglia di giocare a pallone, di fare dello sport, i compagni solo a sentire dire “C’è Angiolino” sono tutti attorno a lui per divertirsi, ed è uno spasso.

Ma c’è un fatto importante nella vita: il 14 aprile 1955 Angiolino riceve la prima Comunione. Gli nasce dentro qualcosa di diverso, pur continuando ad essere spensierato ed allegrissimo: Gesù Eucaristico lo attira sempre di più, fino a chiedere al parroco di poterlo ricevere tutti i giorni nella Comunione.

Impara a servire la Messa e lo fa con una grande gioia. Una volta al mese va a confessarsi. I genitori vedono che si fa più generoso, più buono. La marachelle spariscono ad una ad una. Angiolino diffonde attorno a sé bontà e gioia.

Dopo le elementari entra nel collegio Piamarta di Brescia, per continuare gli studi. Si fa subito tanti amici, ma dopo 15 giorni sente fitte al ginocchio destro e comincia a zoppicare.

All’ospedale i medici sentenziano che la gamba non sarebbe più guarita: tumore al ginocchio. Dopo un mese di cure inutili e dolorose, si comincia a parlare di amputazione della gamba. Angiolino è il primo a decidersi: “Così non sentirò più il dolore come sento ora”. Il 2 maggio 1961 si arriva al triste intervento.

Ha solo 12 anni, ma si comporta come un piccolo eroe. Chi gli è vicino comprende dove Angiolino attinge tanta luce e forza. Aveva letto la storia dei bambini di Fatima, che nel 1917 avevano visto la Madonna e che, per suo invito, offrivano le loro preghiere e i loro sacrifici per la conversione dei pecca-tori. Angiolino vuole imitare quei bambini e prega. “Signore, io ti ho offerto tutto per i peccatori, ma tu adesso aiutami”.

La mattina dopo l’intervento, offre un mazzo di rose rosse al chirurgo che lo ha operato: “Queste sono per lei – gli dice con un sorriso – in ringraziamento di quanto ha fatto per me”. Trascorre i giorni in ospedale, pregando e facendo del bene agli ammalati. Proprio in quei giorni conosce il “Centro diocesano Volontari della sofferenza” e capisce che un malato deve offrire i suoi dolori a Dio, per il bene degli altri, con gioia e coraggio.

Subito dopo l’amputazione, una suora gli chiede di pregare per un protestante, molto grave, che l’indomani deve essere operato. Angiolino, per ottenere la conversione di quell’uomo, appena sono spente le luci della camera, scende dal letto, e passa la notte sul pavimento, in preghiera. Il protestante si converte e muore nella fede cattolica, dopo aver ricevuto tutti i sacramenti.

Nella malattia Angiolino scopre la bellezza della preghiera e impara a ricorrere alla Madonna con il Rosario. Si attacca alla corona, prega e fa pregare.

Nell’ospedale c’è un giovane che si dimostra ateo convinto. Angiolino lo sfida a giocare a carte: “Se perdi – gli dice – vai a confessarti”. Il giovane ateo perde diverse partite e, conquistato dalla bontà del piccolo amico, decide di cambiare vita.

Quando torna a casa, organizza una festa con gli amici, diverte tutti con le sue barzellette: “Ora – dice ridendo – faccio prima a lavarmi i piedi e a tagliarmi le unghie”. Periodicamente deve tornare all’ospedale di Brescia per controlli e cure: “Vado – spiega – a far arrabbiare le suore con qualche scherzo terribile”.

Un giorno, all’ospedale, Angiolino, incontra Fausto Gei, già laureando in medicina, poi dal 1947 malato inguaribile. Ne nasce un’amicizia intensa. Il ragazzo gli confida: “Dicono che siamo dei poveri disgraziati, invece siamo i più ricchi del mondo”. Fausto risponde. “Amare, soffrire ed offrire è il nostro impegno quotidiano!”.

“Tutto per te, Gesù”

Nell’agosto del 1961, Angiolino va a fare gli esercizi spirituali nel Santuario di Re (Novara) con i “Volontari della sofferenza”. C’è anche Fausto Gei. Qui conosce Padre Aldo Giachi, sacerdote gesuita che era stato ordinato nel 1957, per speciale concessione di Papa Pio XII, sacerdote, sulla carrozzella. “Talvolta – ricorda P. Giachi – Angiolino suggeriva, nel recitare il Rosario, intenzioni di preghiera che commuovevano tutti”.

Diventava l’amico, l’esempio di vita per molti, sani e ammalati. Nonostante la mutilazione, si dimostrava disinvolto, con lo sguardo sereno e gli occhi di chi ha voglia di combinarne qualcuna. Alla stazione di Re, quando gli offrono un posto in aiuto, preferisce salirvi a piedi, reggendosi sulle sue stampelle. Ad una signora, stupita, risponde: “Non sa che ad ogni passo posso salvare un’anima?”.

Nel maggio del 1962 al raduno dei malati ad Offlaga (Brescia) si incontra con Mons. Novarese, il fondatore dei “Volontari della sofferenza”. Il sacerdote si accorge che il ragazzo è maturo e che la sua salute declina sempre più. Gli propone di entrare tra i “Silenziosi Operai della Croce”. Il 21 settembre del 1962, Angiolino offre a Dio i voti di castità, povertà e obbedienza, secondo lo spirito dei “Silenziosi Operai della Croce”: ha compiuto solo 14 anni!

Quel giorno è festa grande per lui che si offre tutto al Signore. “Ora davvero – scrive Angiolino – sono tutto tuo, o Gesù, tutto per te, per la tua Mamma, per la conversione dei peccatori, la vita, la sofferenza, la morte”.

Il suo unico progetto è ormai il messaggio della Madonna a Fatima: lavorare, pregare, soffrire, offrire tutto a Dio, perché, come diceva la Madonna. “molte anime vanno all’inferno perché non c’è chi preghi e si sacrifichi per loro”.

Torna a Cigole. La vita ormai è davvero “la via della croce”, tra l’ospedale di Brescia e la sua cameretta. Alle suore dell’ospedale continua – dice lui – a fare brutti scherzi, ma insieme le stupisce per le parole piene di fede che dice. Chi va a trovarlo ne esce consolato, sereno. Il 2 ottobre si mette a letto per non alzarsi più. Ottobre, novembre, dicembre, gennaio… quattro mesi lunghi di martirio, di preghiera, di offerta, di meriti per il Paradiso.

Una notte, Angiolino dice alla mamma: “Se io ti dicessi che presto morirò, tu che cosa faresti?”. La mamma risponde: “Compiremo insieme la volontà di Dio”. Da quel momento si fa più lieto, perché i suoi genitori accettano ciò che Dio sta permettendo per il loro figlio.

Ai primi del gennaio 1963, il male precipita verso la fine: sofferenze e dolori… Un uomo di Cigole, lontano da Dio, da anni, vedendo quel ragazzo soffrire così, comincia a pregare con lui, nella sua cameretta, poi va difilato a confessarsi. è uno degli ultimi miracoli che Angiolino compie su questa terra.

Ad alcune persone confida: “Ho fatto un patto con la Madonna: quando sarà ora, ella verrà a prendermi”. Il 27 gennaio viene il parroco, ascolta la sua ultima confessione, gli dà Gesù come viatico per la vita eterna, gli amministra l’unzione degli infermi. Al termine del rito, Angiolino dice: “Grazie!”.

Alla mamma spiega: “Te lo dico io quando morirò”. Guarda ad uno ad uno i presenti e comincia a contare sulle dita fino a quattro. Sono passate da poco le 22 e tutti comprendono che ha ancora quattro ore di vita. Fino a mezzanotte prega nominando le persone per cui intende offrire. Poi si assopisce.

Alle ore 2, nella notte gelida, gremita di stelle, del 28 gennaio 1963, apre gli occhi, guarda la mamma ed esclama: “Ecco la mia ora!”. Saluta tutti con uno sguardo, si volta verso la statuetta della Madonna e si spegne sereno. è in corso la causa di beatificazione. (Tratto da: “In braccio a Gesù” – Profili di ragazzi esemplari – Paolo Risso)

SENSO

“Ho sempre pensato che il sentimento più alto che un uomo possa provare sia quello della gratitudine.

Un uomo prova gratitudine quando chinandosi sulla propria storia riesce a vedere bellezza anche nelle pieghe e nelle ferite.

Prova gratitudine non perchè comprende tutto
ma perchè intuisce un senso altissimo della propria storia,
di cui il dolore e le contraddizioni sono solo battute di una sinfonia più grande”.