Luglio 2018: Neil Young – AFTER THE GOLD RUSH (1970)

After the gold rush

 

Data di pubblicazione: 31 agosto 1970
Registrato a: Sunset Sound (Hollywood), Sound City (Los Angeles), Redwood Studios (Topanga)
Produttore: Neil Young, David Briggs & Kendall Pacios
Formazione: Neil Young (voce, chitarre, piano, armonica, vibrafono), Danny Whitten (chitarre, cori), Nils Lofgren (chitarre, piano, cori), Jack Nitzsche (piano), Billy Talbot (basso), Gregg Reeves (basso), Ralph Molina (batteria, cori), Stephen Stills (cori), Bill Peterson (filicorno)

 

 

Lato A

 

                        Tell me why
                        After the gold rush
                        Only love can break your heart
                        Suthern man
                        ‘Till the morning comes

 

Lato B

 

                        Oh, lonesome me
                        Don’t let it bring you down
                        Birds
                        When you dance I can really love
                        I believe in you
                        Cripple Creek Ferry

 

 

Certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei
(Luciano Ligabue, Certe notti)

 

Poco importa se sia di Ligabue, ma quel verso racconta una sacrosanta verità: Neil Young appartiene un po’ a tutti noi! La sua musica dolente, ma anche così elettricamente galoppante, ha marchiato a fuoco non solo la storia, ma anche la nostra stessa vita! In quella voce flebile, ma nello stesso tempo così carica di passione e ardore, in quei “quattro accordi e verità”, e quelle distorsioni, si ritrova sempre un pezzo di anima che brancola nel buio della propria esistenza, in cerca di luce, in cerca di verità, o forse anche per accarezzare quel lato oscuro che ci appartiene.
“Rock’n’roll can never die”, diceva lui nel 1979! E quella profonda verità continua ancora a rimbombare violentemente nelle nostre teste come un martello pneumatico, perché il rock non è un affare solo per ribelli: il rock è la vita stessa! E Neil Young ne è ancora oggi uno dei padri nobili, uno dei veri eroi buoni, un vagabondo solitario che cade, si rialza, sprofonda e rialza ancora, continuando a cercare, tra errori e lampi di genio, la verità! Proprio come ognuno di noi cerca di fare nella propria vita.
L’artista canadese ha molteplici vite artistiche, e ancora oggi si pregia di continuare una carriera, con ben oltre cinquant’anni di attività, con dei dischi ancora notevoli, alcuni sorprendentemente belli. Non esiste corrente artistica nel rock nella quale Neil Young non abbia dato il suo contributo, o della quale non sia stato in qualche modo antesignano: precursore del punk, per certi aspetti, proprio per la ricerca con i suoi Crazy Horse di quel suono grezzo, sporco; padrino del grunge, proprio per l’appropriazione della distorsione come personalità del suono della chitarra; personaggio determinante per l’evoluzione di generi più classicheggianti come il country, il folk o il rock in generale. Artista poliedrico e sempre curioso, di cui vanno perlomeno citate le sue collaborazioni assieme ai Buffalo Springfield o l’esperienza con David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash, e la formazione della sua particolare band, i Crazy Horse. Non è certo semplice scegliere uno dei suoi numerosissimi dischi che possa rappresentarlo, considerata la carriera lunghissima e la vite artistiche. Ci dirigiamo verso il terzo disco da solista, il primo con l’apporto dei Crazy Horse in una formazione allargata: After the gold rush, pur senza dimenticare la bellezza assoluta dei dischi della “trilogia del dolore”, nata da un profondo periodo di depressione, problemi personali, dipendenza dalle droghe, tra i quali va citato il meraviglioso On the beach del 1974, per tanti anni non ristampato, proprio perché Neil Young non voleva tornare su quei luoghi dolorosi.
After the gold rush, che segue di un anno il meraviglioso Everybody knows this is nowhere, nasce da una precisa idea di “provare a registrare quei dischi che abbiano la qualità dei dischi di fine anni ’50 e ’60, come le cose di Everly Brothers e di Roy Orbison, che venivano fatte in modo da avere una particolarità unica. Erano fatti in presa diretta, il cantante è proprio dietro la canzone, i musicisti suonano con il cantante e il tutto è una vera unità”, come dirà lo stesso autore ad un’intervista per Rolling Stone, e si manifesta come un disco complesso e stratificato, alternando semplici ballate acustiche, malinconiche canzoni pianistiche a incursioni elettriche, combinando assieme il country e il rock, in un’atmosfera ora di una dolcezza estrema, ora di un rabbia viscerale.
Il disco si apre con l’inquieto acquerello folk di Tell me why sull’inevitabilità delle cose, sulla “difficoltà di scendere a patti con sé stessi, quando sei abbastanza vecchio per pagare e abbastanza giovane per vendere”. Spiazzante e delicatissima la bellissima title-track, dove la fragilità di una voce ferita incrocia la bellezza dei corni e la dolcissima base pianistica. Il sublime romanticismo metafisico di Only love can break your heart, incrociando il country rock di scuola Robbie Robertson, conduce poi all’assalto dell’acida e chitarristica Southern man, facendosi portatrice di un feroce messaggio antirazzista, che tanto fece discutere e indignare, soprattutto nelle frange più oltranziste dei sudisti d’America. Chiude il primo lato la bucolica marcetta di ‘Til the  morning comes.
Il lato B si apre con l’unico pezzo in scaletta che non porta la firma del titolare, ma di Don Gibson, Oh, lonesome me, con la sua vena country ben esposta. Segue la bellissima melodia di Don’t let it bring you down, con un forte messaggio di speranza soprattutto di fronte alle tante realtà difficili che si vuole cambiare. Birds invece si sorregge su un delicata base pianistica e una voce che apre a struggenti melodie. L’elettricità corale di When you dance I can really love incrocia i Crazy Horse e Crosby, Stiils, Nash & Young. La ballata I believe in you, dolente e ironica, scava solchi profondi nel racconto del rapporto di coppia. Chiude il folk sgangherato di Cripple Creek Ferry.
Neil Young dimostra che la semplicità è qualcosa di complesso: incantare con poco è un lusso che non può permettersi chiunque, se non chi sa che solo “l’amore può aprire il tuo cuore”. Ma nello stesso tempo Neil Young dimostra che camminare e brancolare nel buio del dolore non è semplice retorica nichilista, ma richiede il coraggio di chi sa calcare i sentieri più impervi della vita e del rock. E se è vero che il rock non morirà mai, è anche altrettanto vero che questo rock brucerà per sempre! E che nonostante sia meglio “bruciare che spegnersi lentamente”, il suo fuoco non ha consumato in fretta passione e ardore, ma come fuoco di brace riscalda, ma con insano calore!

 

Neil Young è proprio questo vento. Un vento che vaga nelle terre del suono, un vento imprevedibile che carezza come una brezza da godere in veranda, o schiaffeggia quando è tempo di capire l’immagine più grande, che spesso ha cercato di fotografare, senza mai trarre conclusioni ideologicamente corrette, comode, o condivisibili in assoluto
(Davide Sapienza)

 

Luglio 2018: Neil Young – AFTER THE GOLD RUSH (1970)ultima modifica: 2018-07-02T15:49:04+02:00da pierrovox

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