aiuole

Come trascorre il tempo una donna che elude il tempo? Potando siepi e coltivando rose, senza dimenticare le cupole di gerani affinché si offrano allo sguardo come enti geometricamente ineccepibili. Ora, se è vero che ogni persona è il risultato degli dei che la abitano, io intorno ai quarant’anni ero nevroticamente malinconica a causa di Virginia Woolf, che mi aveva insegnato quanto possa essere ininfluente il successo se dentro hai qualcosa che ti lascia spiragli di serenità a patto di cancellare la tua vera identità. Un po’ come corteggiare la vita ma solo per farle torto.

Oggi è il ventisei aprile, quanto scritto sopra risale a un po’ di tempo fa. Scrivo zigzagando tra i ricordi per risalire all’evento che ha cambiato il corso della mia vita. Sono ancora una perditempo, i gerani godono di ottima salute, un po’ meno le rose.

accidentalmente

Non sarò mai felice, ma accidentalmente sono serena. E lo sono proprio quando tutto peggiora. Non mi arrabbio né impreco. Accetto. Proverbi e manuali di autoaiuto suggeriscono di vivere alla giornata. Ed è corretto, purché non si incorra nell’errore di suddividere il tempo per categorie, l’una a custodire il passato, l’altra speranzosa nel domani. Conta solo l’attimo che per convenzione chiamiamo presente. Sempre che, come da tradizione certificata, non si tratti di un sogno.

se non ti avessi incontrata

Al netto dell’ipocrisia che suggerisce di non confessarlo, sentirselo dire è bello. Riscalda il cuore. Se poi a parlare è una giovane donna di successo, è un attimo prendere in considerazione che ciò che si è fatto ha avuto un senso. Per dirla tutta, lei incarna quello che io non sono riuscita a diventare – per paura, pigrizia, scarsa consapevolezza del potenziale in fieri. E oggi, mentre mi raccontava dell’ennesima sfida professionale e poi ripetendo, prima di andare, di dovermi tanto, avrei voluto dirle, Tu sei l’altra parte di me che si è persa nel ventre della balena. Quella parte che, nonostante tutto, non mi rinfaccia niente.

geometrie sentimentali mal riuscite

Dicono sia prerogativa degli scrittori rifuggire le interiezioni sociali che banalizzano un individuo fino a farne, anzitempo, materia per vermi. Tuttavia ci sono persone che, lungi dal potersi dire maestre nell’arte del periodare, si dibattono istintivamente a salvaguardia della propria soggettività, consce che le influenze nocive sono centrifughe che presto o tardi le trasformeranno in qualcos’altro. Un qualcosa che, pur foriero di soddisfazioni, si configurerà comunque come oltraggio alla loro natura.

Nelle ore in cui non mi sono di conforto le geometrie sentimentali, ossia gli ologrammi ottenuti escludendo le digressioni che di norma mi accompagnano con maniacalità spettrale, contengo l’ansia escludendo la presenza umana. È così da sempre, fin da quando, bambina, mi rifugiavo nel sottoscala e, indifferente ai richiami di mia madre, ci restavo fino al momento in cui una nota di esasperazione nella sua voce mi convinceva ad abbandonare il cono d’ombra. In cui però sarei tornata più e più volte, pur sapendo di non essere ancora arbitro della mia vita.

auguri

La festa di paese si è appena conclusa. Non che io vi abbia partecipato – lo sai che sono sempre stata refrattaria alle esternazioni pacchiane di giubilo – ma. anche volendo, folla più banda sarebbe stato davvero eccessivo. Stamattina mi sono arrivati un po’ di messaggi per te. Tre per l’esattezza. Ora la domanda è: come si inoltrano i messaggi per l’aldilà?

Domani cancellerò questo post. Nel frattempo tu trova il modo di leggerlo.

une promesse de bonheur

Che farsene dei (col)lassi temporali che la gente normale dedica alla pennichella? Andare in spiaggia è escluso perché alla controra finirei con l’invocare nostalgicamente l’inverno. Quindi, meglio l’ombra casalinga e un libro del cui potere di suggestione non dubito mai. Ma prima una birra ghiacciata, please. In questo caso a gloria imperitura dell’ottimo Joël Dicker.

come back to me

Ho comprato un geranio rosso per dare più colore alla veranda. L’ho messo a dimora nella luce ferma del pomeriggio che, più della temperatura, dice dell’arroganza della bella stagione. Ti ho pensata perché i gerani ti piacevano tanto, e non solo a livello estetico ma anche, o forse soprattutto, per quel loro essere privi di pretese. Chiedono solo acqua e sole me l’hai ripetuto di anno in anno, quasi temessi che prima o poi me ne sarei dimenticata. Non avevi molta fiducia nelle mie capacità e di certo immaginavi, come poi è stato, che avrei comprato altre piante di cui non avrei saputo prendermi cura. A conti fatti dev’essere stata un’impresa rapportarsi a una figlia avara di parole e di slanci affettivi, una figlia che si dava per frammenti, e spesso per compiacere.

“Ma da chi hai preso?”, sbottavi a volte, esasperata.

“Non da te”, era la mia risposta piccata.

Il caldo afoso è di nuovo alle porte. Il geranio lo affronterà con baldanza, io meno. Non è un problema, me ne starò al riparo. Del resto, da quando non ci sei più, è tutto un sottrarre per sottrarsi. Solo alla rassegnazione non so assegnare il segno meno. È troppo presto per lasciarti andare definitivamente.

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Persino il disincanto più radicato è soggetto a crepe se sottoposto a scossoni emotivi. E non necessariamente pirotecnici.

Qualora si sia destinatarie di prose e rose che dicono di un’imprescindibile matrice virtuale, benché inopportuno un riserbo superbo, è consigliabile accogliere quel materiale con bonaria sufficienza. Chiarendo che l’intimità che potrebbe derivarne, direbbe solo della nostalgia di un’assenza.

Andrea e noi

Un’estate via l’altra come fossimo inseparabili. Poi la maggiore età e la possibilità di affrancarsi dall’obbligo di andare al mare con i genitori. In pullman, per giunta, ma almeno non era quello di linea. Era un pullman “esclusivo” e aveva come destinazione la spiaggia degli ufficiali. Eravamo un bel gruppetto di idioti, non di rado sguaiati, anche se non perdevamo occasione di darci un tono declinando lupus-lupi o infilando nello zaino qualche libro per preparare il temuto esame di riparazione. Adolescenti, né carne né pesce, ma con un pallino fisso: il sesso. Soprattutto d’estate. E a qualsiasi ora. All’epoca andava ancora il gioco della bottiglia. Ci chiudevamo col chiavistello nella cabina più grande che chissà perché non veniva occupata quasi mai, e ci baciavamo alla controra, satolli di un pranzo consumato su in mensa e che malgrado fosse abbondante non inficiava la nostra linea. Eravamo magri da fare paura. E felici, benché non mancassero le ore di struggimento profondo.

Andrea non si mostrò mai per com’era. Arrivava in spiaggia in bermuda e camicia bianca e si eclissava in cabina: ne usciva confidando nella solidarietà del lino informe che lo copriva fin quasi alle ginocchia. Obeso, molliccio e lentigginoso si vergognava a tal punto da rinunciare al bagno, e non lo si poteva biasimare. Così, in virtù di una colpa che tale non era, trascorreva luglio e agosto all’ombra di un pino. Oppure giocava a biliardino. Ovviamente, essendo l’unica attività praticata con assiduità giornaliera, a fine estate si portava a casa il trofeo di miglior giocatore. Lo persi di vista l’anno in cui mi sentii donna per la prima volta; ero pronta a lasciare la vecchia compagnia che aveva cominciato ad apparirmi ridicola. Ora avevo un ragazzo con la moto, la spiaggia la sceglievo io. In realtà non dimenticai gli amici con cui ero cresciuta; solo di Andrea non tenni traccia, in fondo non era mai stato uno di noi. Dai vent’anni in poi le estati divennero un’altra cosa. Frequentavo i lidi alla moda, compravo i bikini firmati, andavo in vacanza nei posti dove non c’era la massa. Il divertimento non era più lo stesso, era “da grandi”, ma diventava sempre più faticoso fare in modo che non si snaturasse.

Rividi Andrea per caso una sola volta in centro, di pomeriggio. Indossava i jeans e una polo blu. Era dimagrito, era come noi vent’anni prima, e si era fatto sorprendentemente bello, con gli zigomi alti non più soffocati dalle guance paffute e gli occhi verdi con una luce nuova, inedita e confidente. Strinsi la mano a uno sconosciuto.

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La vita è fatta anche di giornate anomale, direi randagie rispetto al fluire regolare delle ore che lentamente sgretolano le nostre esistenze. Quando arrivano portando in dono piccole gioie che i saggi trasfigurano in porte aperte sulla speranza, finiscono con l’essere assimilate a una sorta di clemenza del cielo, a una ricompensa per non si sa bene cosa. Per converso, le giornate perturbanti aggrovigliano i fili narrativi delle nostre agende, obbligandoci al confronto con l’imperturbabilità del destino. Che un tempo scrivevo con la maiuscola, come se l’ossequio sotteso nella lettera svettante sulle altre, avesse potuto risparmiarmi dall’amoralità del male.