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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi di Luglio 2008

Ascari: i valorosi soldati italiani di colore

Post n°21 pubblicato il 31 Luglio 2008 da wrnzla

Ascari: i valorosi soldati italiani di colore

“Ascaro” viene usato spregiativamente nel lessico giornalistico contemporaneo, senza cognizione di causa e per giunta con l’errore di ortografia nella declinazione della parola (che è invariabile nel singolare e nel plurale: dunque “un ascari, due ascari”). L’uso che si fa di questo termine è ingiusto nei confronti dei soldati coloniali che combatterono per l’Italia dalla creazione delle unità di Ascari fino alla Seconda Guerra Mondiale, con una fedeltà ed un’efficienza ineguagliabili.
Quattro anni fa al Vittoriano si tenne una interessante mostra intitolata “L’Epopea degli Ascari Eritrei”, che mi aprì gli occhi su molte cose del nostro passato coloniale, e che rese giustizia a questi soldati dimenticati, di rinsaldò i legami tradizionali di amicizia tra Italia ed Eritrea, mostrò un altro aspetto, assolutamente preminente ma artatamente messo in sordina, del colonialismo italiano.
“Troppo spesso il colonialismo italiano viene ridotto all’iprite di Graziani e alle leggi razziali” mi disse Ascanio Guerriero, il curatore della mostra. “Ma noi iniziammo la nostra storia coloniale più di sessant’anni prima. La verità è che dagli anni ’70 in avanti è esistita la cosciente volontà denigratoria da parte di certi ambienti culturalmente influenti, e questo perché in quel periodo l’Unione Sovietica stava piazzando le sue pedine strategiche nelle ex colonie italiane, come Menghistu in Etiopia”.
Alla mostra potei vedere materiale fotografico in gran parte inedito, ed i cimeli dei battaglioni Ascari del Regio Corpo Truppe Coloniali, Medaglia d’Oro al Valor Militare, oltre alle riproduzioni di alcune fra le moltissime rappresentazioni iconografiche liberty e decò che presentavano al pubblico italiano della belle epoque questi soldati. Delle foto e dai disegni emergeva sempre un clima di grande cameratismo e di confidenza fra ascari e italiani, anche borghesi, e le ricostruzioni pittoriche per le copertine delle riviste illustrate dell’epoca mostrano sempre bianchi ed eritrei affiancati nella lotta, senza mai mettere in mostra i primi a discapito dei secondi.
“In molti altri paesi, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale è impossibile trovare rappresentazioni ufficiali delle truppe di colore. Durante la Guerra di Secessione Americana i reparti di negri erano disegnati coi volti bianchi”. Mi spiegava Ascanio Guerriero. “Da questa iconografia si comprende benissimo il rapporto di parità e di fratellanza che si era creato fra ascari ed ufficiali italiani, all’interno del Corpo e per l’opinione pubblica. Non esistevano protagonisti e comprimari: esistevano solo soldati italiani, bianchi o di colore”.
L’Eritrea, come entità nazionale, è stata creata dall’Italia: fra l’arrivo ad Assab della Compagnia Rubattino (la stessa che trasportò i Mille a Marsala) e la creazione della Colonia Eritrea (1890) le terre comprese tra la fascia litoranea dell’Altopiano Etiopico e la Dancalia erano abitate da nove etnie differenti, disunite, sottoposte da oriente alla pressione della pirateria yemenita, da occidente alle scorrerie dei dervisci sudanesi e da meridione all’oppressione sanguinaria di Ras Alula, feudatario negussita. L’Inghilterra, dopo il massacro di Gordon Pascià per mano dei fanatici mahdisti, e considerato il rischio di espansione francese in quella regione, esortò l’Italia a prendere l’iniziativa e a conquistare l’intera fascia costiera. Il governo egiziano, alla quale l’Eritrea apparteneva, cedette quasi senza colpoferire, mentre asperrime furono le battaglie contro dervisci e abissini.
Si può dire che l’Italia giocò allora, con ben altri successi, l’identico ruolo che oggi gioca nelle imprese di Afganistan ed Irak, in una guerra (che allora l’Occidente vinse) contro i primi rigurgiti di fanatismo islamico. Allora era il Mahdi, oggi al Qaeda. Il fatto che allora si vinse dovrebbe essere un’istruttiva lezione. Ma tant’è… limitiamo i commenti ai fatti del giorno…
La mania tutta italiana di rimarcare solo le sconfitte ha impresso nella memoria gli sfortunati episodi di Dogàli, Adua, ed Amba Alagi, mentre non meno significative furono le vittorie che le truppe italiane e coloniali colsero contro chi si opponeva alla nostra penetrazione; tant’è che alla fine fallì ogni tentativo, derviscio o abissino, di ributtarci in mare. Nomi come Agordàt, Halài e Coàtit sono poco noti al pubblico, ma rappresentano altrettanti punti fermi tanto nella storia militare d’Italia quanto della libertà eritrea.“L’Eritrea non esisteva prima dell’arrivo italiano”. continuava Guerriero. “Lo stesso nome venne inventato da noi, a partire dal nome greco del Mar Rosso – Mare Eritreo, appunto. Non è esagerato affermare che gli italiani giunsero in queste terre come liberatori, ed i rapporti eccellenti di amicizia tra il nostro paese e l’Eritrea di oggi lo dimostrano. Molta gente vive ancora nei tucul costruiti dall’Amministrazione Militare agli ascari, e passati in eredità alle loro famiglie. Quando mi recai in Eritrea per raccogliere una parte del materiale esposto, trovai una grandissima cordialità da parte del governo, ed un’accoglienza commovente della popolazione: molti venivano spontaneamente da me a portare le foto dei loro nonni o bisnonni, orgogliosissimi del loro avo ascari. Una cosa impensabile nelle altre ex colonie italiane”.
Un orgoglio che traspare da ogni rappresentazione, artistica o realistica, dell’ascari: fiero del suo essere guerriero, inarrestabile nell’assalto, fedele al suo comandante di battaglione fino alla morte, e all’Italia, l’ascari ha rappresentato anche l’ultimo soldato italiano combattente nel Corno d’Africa. Le bande irregolari italiane creati da Amedeo Guillet che per mesi diedero filo da torcere agli occupanti abissini ed inglesi erano composte da ascari. E gli ascari superstiti costituirono i nuclei dell’indipendentismo eritreo dopo che la colonia italiana fu assegnata all’impero di Hailè Selassiè nel 1941.
I combattenti eritrei del Regio Corpo Truppe Coloniali, la loro fedeltà e fierezza, il loro eroismo, il retaggio di fratellanza ed amicizia da essi lasciato fra i nostri due popoli rappresentano una splendida smentita della definizione falsa ed ingiusta di “colonialismo straccione” attribuita alla storia dell’Italia in Africa da qualche storico in vena di cilicio.

Tratto da: http://erodoto.wordpress.com/2008/05/30/

 
 
 

I FEDELISSIMI

Post n°18 pubblicato il 30 Luglio 2008 da wrnzla

I FEDELISSIMI

Tratto da www.assocarabinieri.it

Gli Ascari eritrei

Più volte questa rivista si è interessata alle nostre truppe coloniali ed in particolare a quegli ascari«speciali» che sono stati gli Zaptiè. Ma ciò è avvenuto in modo sporadico e, comunque, sommesso,quasi che non fosse politicamente corretto parlare di colonie e di truppe coloniali. Ciò è avvenuto in tutta la pubblicistica italiana di questi anni; infatti il tema delle truppe coloniali - tranne rarissime eccezioni - è stato trattato pressocché esclusivamente sul piano uniformologico ovvero inserito in saggi storici molto critici sia verso il «ventennio» che verso le mire espansionistiche e coloniali giolittiane.
In questo mese di novembre uscirà nelle librerie un bel volume della Vallecchi che è il catalogo di una interessantissima mostra dedicata agli ASCARI ERITREI, inaugurata nel 2004 all'Asmara e riproposta al Vittoriano a Roma, approdata successivamente a Bologna presso la sede della Fondazione della Cassa di Risparmio di Bologna, con l'obiettivo di trasformarsi, visto l'interesse suscitato, in mostra permanente.
Il pregio dell'iniziativa è stato quello di saper raccogliere materiale, fotografie, cimeli finora dispersi principalmente in collezioni private e in parte, sorprendentemente,messi a disposizione da cittadini eritrei, i quali evidentemente non hanno ritenuto che la militanza sotto la nostra Bandiera dei loro connazionali fosse una pagina nera da dimenticare.
Il catalogo rende bene il fascino della mostra, perché raccoglie in uno, gli interessi dello storico, quelli dell'uniformologo e del collezionista, con la policromia ed il fascino delle uniformi, dei gagliardetti, dei bouruns (mantelli dei Carabinieri e della Cavalleria Coloniale) degli alti fez rossi col fiocco con i colori distintivi del reparto, dei turbanti,in una girandola di tavole della Tribuna Illustrata e di cartoline dei reparti, opera dei più importanti disegnatori italianidell'epoca come BELTRAME, TAFURI, PISANI, FERRARI,etc. etc..
Particolarmente curiose poi - e anche in questo caso appare evidente quale fosse l'affetto degli italiani per questi fedeli soldati di colore - le locandine pubblicitarie o le copertine di periodici di ampia tiratura e i frontespizi dei quaderni di scuola, che hanno come soggetto un coloratissimo ascaro.
Per completezza e per chi non conosce l'argomento deve essere subito chiarito che l'Italia nei settant'anni di avventura coloniale, non ebbe solo volontari eritrei ma anche libici e somali, organizzati nel Regio Corpo Truppe Coloniali che comprendeva tutte le specialità di un moderno esercito(si pensi che in assoluto i primi paracadutisti dell'esercito italiano, furono i libici inquadrati nel «I Battaglione Fanti dell'Aria», costituito nel 1938 presso l'aereoporto di Castel Benito a Tripoli).
Nel 1939, poi, nel tentativo di realizzare una sorta di italianizzazione della Libia con l'invio, in quella regione, di circa20.000 coloni italiani, alla popolazione libica venne concessala cittadinanza italiana e gli ascari libici, muniti di stellette, divennero soldati libici.
Probabilmente se le esigenze politiche e le condizioni geografiche fossero state diverse (ad esempio l'utopia del«MARE NOSTRUM») l'onore delle stellette sarebbe dovuto toccare agli ascari eritrei, i primi e i più fedeli nostri volontari,i più «italiani» dei nostri soldati di colore.
Queste mie poche righe non hanno lo scopo di recensire il volume della VALLECCHI ma hanno la pretesa di rendere un mio omaggio personale a quanti eritrei, libici o somali hanno combattuto e sono morti sotto la nostra Bandiera con la convinzione di non dover essere considerati solo dei mercenari, come qualcuno nel tempo, talvolta,li ha definiti.
Infine vorrei precisare che il titolo «I Fedelissimi» è stato quasi un trucco per attirare l'attenzione di quanti leggendolo avranno pensato a una storia di bravi carabinieri. Ho detto quasi un trucco perché quell'aggettivo, con riferimento ai nostri ascari, è stato usato ben più autorevolmente da Alberto BECHI LUSERNA - ufficiale coloniale comandante di ascari, ufficiale paracadutista ad El Alamein eMOVM alla memoria nella guerra di liberazione - nel suo libro «NOI E LORO» scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Credit. www.assocarabinieri.it Sig. Giancarlo Mambor

 
 
 

Prove

Post n°17 pubblicato il 30 Luglio 2008 da wrnzla

Gli Ascari visti attraverso le opere pittoriche dell' artista  Paolo Caccia Dominioni

Mostra on-line di disegni e opere dell'eroe Paolo Caccia Dominioni in occasione del ventesimo anniversario della morte dell'eroe nervianese (1896-1992).

Courtesy of: Ecomuseo del Paesaggio. Comune di Parabiago (MI).

Visualizza tutte le immagini della Mostra on-line [....]

Visualizza programma delle celebrazioni - 12 Agosto 2012 [....]

 
 
 

 Gli ASCARI.

Post n°16 pubblicato il 30 Luglio 2008 da wrnzla
Foto di wrnzla

Gli ASCARI.

Gli ascari eritrei al servizio
dell’Italia nascono nel 1888 ad opera del generale Antonio Baldissera,
poi soprannominato dagli ascari ambesà (in lingua amarica leone; - il
leone è forse l’elemento più frequente nell’iconografia dei reparti
dell’A.O.I., rappresentato su cartoline e medaglie). Inizialmente
vengono arruolati soltanto 4 battaglioni, con forza media di circa 800
uomini, di cui 15 ufficiali italiani e 40 graduati indigeni. Il
battaglione è su quattro compagnie e la compagnia su 2 mezze compagnie
di 4 buluc ciascuna. Il buluc è un “plotone” di circa 25 uomini, unità
tattica minima. Sin dall’inizio si tende a conservare la terminologia
militare turca, retaggio del governo egiziano. I battaglioni sono per
breve periodo riuniti in reggimento; l’ordinamento reggimentale mal si
confà tuttavia alle truppe coloniali e si torna al battaglione come
massima unità base. Successivamente vengono arruolati altri quattro
battaglioni.
Gli ascari sono impegnati da subito nella difesa (e nel tempo
stesso nell’espansione) della colonia, in una serie di operazioni di
polizia e combattimenti di più vasta scala (campagne contro i Dervisci
nel 1890-1896, conquista del Tigrai, 1894-1896). Nei combattimenti gli
ascari, talora appoggiati dalle altre unità coloniali o da bande
irregolari, hanno quasi sempre ragione di avversari numericamente assai
superiori grazie alla disciplina, all’addestramento ed all’armamento.
Gli eventi precipitano nel 1894: l’attrito con gli Abissini per
il Tigrai porta il Negus Menelik, il cui potere era ormai consolidato
in tutta l'Etiopia, ad intraprendere un’offensiva generale contro la
colonia italiana, della quale vuole bloccare l’espansione. La campagna
culmina nei disastri dell’Amba Alagi e di Adua.
All’Amba Alagi, nel dicembre 1895, il maggiore Toselli dispone,
tra regolari (tra cui il IV battaglione al completo) e bande, di circa
1.800 uomini con 4 piccoli cannoni. Le sue forze sono decisamente
inferiori all’armata di ras Makonnen, ma gli sono stati annunciati
rinforzi: Il comando dispone successivamente il ripiegamento di Toselli
e lo spostamento dei rinforzi: inspiegabilmente, la modifica degli
ordini non gli giunge e Toselli si attesta a difesa. Attaccata all’alba
del 7 dicembre, la linea italiana cede verso il mezzogiorno; si tenta
di resistere con una retroguardia per permettere il deflusso dei
feriti, ma anche la retroguardia è travolta ed il maggiore è ucciso.
1.500 dei suoi uomini sono caduti, gli altri sono quasi tutti feriti ma
riescono ad arrivare al forte Macallé. Le perdite abissine sono stimate
intorno a 3000 uomini.
Ad Adua, il 1° marzo 1896, l’avanzata italiana, ordinata dal
governo per ragioni politiche di prestigio ed eseguita controvoglia dal
generale Baratieri che ha inizialmente optato per una strategia
difensiva di fronte a forze alquanto superiori, termina in un disastro
di proporzioni ancora maggiori. Manovrando in modo scoordinato a causa
della scarsa conoscenza del terreno, di false informazioni sul nemico e
di carte topografiche completamente errate, le brigate italiane sono
attaccate una dopo l’altra senza potersi vicendevolmente appoggiare e
vengono letteralmente sommerse dal numero dei nemici, una metà dei
quali si stima armata di fucili a retrocarica.
Le perdite sono di circa 6.300 caduti, circa 500 feriti e circa
1.900 prigionieri su una forza complessiva del corpo d’operazioni di
14.500 uomini, a fronte delle perdite abissine di circa 10.000 morti e
7.000 feriti su una forza complessiva effettivamente impiegata di circa
110.000 uomini (la forza totale a disposizione del Negus in seguito
alla chiamata alle armi è superiore). Gli ascari danno un pesante
tributo di sangue: circa 2.000 cadono sul campo; a circa 800 fatti
prigionieri il Negus vengono mozzate la mano destra ed il piede
sinistro, la punizione dei traditori. L’etnia dominante abissina
infatti considera l’Eritrea ed i suoi abitanti un proprio naturale
dominio: ancora un secolo dopo Adua gli Eritrei hanno dovuto combattere
una guerra sanguinosa per vedere riconosciuta dall’Etiopia
l’indipendenza del proprio paese.
Dopo la battaglia di Adua il generale Baldissera viene nuovamente
inviato in colonia per riorganizzare la difesa. Egli avanza con i
reparti a disposizione in attesa di rinforzi a ristabilire la frontiera
per intimidire il Negus e guadagnare tempo. Il Negus è tuttavia
preoccupato dal movimento italiano in quanto le scorte di viveri erano
già prossime all’esaurimento alla vigilia di Adua (ciò che gli Italiani
allora ignoravano) e le risorse delle terre occupate dal numeroso
esercito erano pure consumate. Come conseguenza vi furono morti per
carestia ed epidemie (problema frequente in guerra, ma non sempre
evidenziato nei testi storici; esempio ne sono diverse campagne
napoleoniche in Europa). I prigionieri italiani furono tuttavia sempre
nutriti in quanto possibile moneta di scambio. Con l’esercito ancora
numeroso (l’inviato italiano nel campo maggiore Salza stimava in base
al numero di tende la presenza di 70.000 guerrieri) ma affamato e
debilitato Menelik ed i ras non ritennero di poter fare fronte alle
truppe di Baldissera, che rinforzate, riequipaggiate, vettovagliate ed
ansiose di prendersi la rivincita avanzavano su Adigrat: gli Abissini,
che sull’onda dell’entusiasmo avevano intimato la resa ai presidi
italiani, si sottrassero dunque allo scontro. Infatti nella colonia
eritrea al 6 marzo l’esercito è forte di circa 26.000 uomini; al 4
maggio il totale è salito a 43.000 uomini, dei quali 4.900 ascari e
1200 armati delle bande.
Il disastro di Adua aveva provocato tuttavia la caduta del
governo Crispi: il nuovo governo Di Rudinì non volle correre rischi e
pertanto non approfittò della situazione favorevole per riprendere il
terreno perduto ed aprì trattative con il Negus, impedendo ulteriori
movimenti offensivi; Baldissera riferisce a Roma sulle trattative,
comportanti per un esito favorevole l’arretramento del confine della
colonia, ed evidenzia per contro la situazione favorevole alle armi
italiane. In un telegramma del 13 febbraio riporta che “vedesi viveri
dentro tende (del campo abissino) ma non abbondanti”; due settimane
dopo il Negus deve far eseguire le razzie sempre più lontano per
approvvigionarsi e deve promettere agli armati di spostare il campo in
un paese più ricco. Il governo firmò infine un trattato con Menelik
riconoscendo la piena indipendenza dell’Etiopia ed il vecchio confine
sulla linea Marem-Belesa. Il Negus rinunciava ad attaccare nuovamente
la Colonia, cosa che nel breve termine non gli era comunque possibile,
e di fatto aveva nella colonia una zona cuscinetto di fronte a
eventuali mire espansionistiche inglesi o francesi. Il generale
Baldissera, disilluso, lascerà per sempre l’Eritrea e con lui diversi
degli ufficiali che avevano contribuito alla creazione dei reparti
coloniali.
La campagna di Adua è un caso emblematico della controproducente
influenza politica sulla condotta di operazioni militari, una volta
iniziate le ostilità.
Il numero dei battaglioni eritrei aumentò negli anni successivi.
Nel 1910 in seguito a lotte intestine per il controllo dell’impero
etiopico 35.000 guerrieri abissini di ras Uoldeghirghis si avvicinarono
al confine. Fu ordinata la mobilitazione ma la colonia non fu
effettivamente minacciata.
Gli ascari furono impiegati in Africa settentrionale sino alla
fine degli anni ‘20 (sino ad 8 battaglioni contemporaneamente) nel
lungo periodo di conquista della Libia, che non potè dirsi completa
sino al 1931. La “ribellione” in Cirenaica fu in realtà l’ultimo
periodo di una continua resistenza delle tribù; dirà infatti un capo
senussita venuto a sottomettersi: “Non dire però che io ero ribelle
perché mai prima di oggi mi ero sottomesso al governo ed anzi l’ho
sempre combattuto”. I battaglioni eritrei ebbero tuttavia spesso una
parte non di primo piano in quanto il tipo di guerriglia presupponeva
l’impiego di reparti molto mobili.
I battaglioni eritrei presero parte all’invasione dell’Abissinia
per un totale di battaglioni inquadrati in due divisioni eritree.
La prima divisione eritrea si distinse nella battaglia dell’Ascianghi.
In seguito alla conquista dell’Etiopia furono arruolati altri
battaglioni, non solo tra gli eritrei ma anche tra le popolazioni delle
terre conquistate. Il problema principale nell’organizzazione dei nuovi
reparti fu l’ignoranza da parte di molti ufficiali italiani di lingua
ed usi degli uomini che venivano a comandare, e di quadri affidabili.
Pertanto come graduati (ed in minor misura come uomini di truppa)
furono spesso utilizzati in battaglioni galla e di altre etnie veterani
dei battaglioni eritrei.
La gerarchia dei battaglioni nella versione definitiva
comprendeva il uachil (appuntato), il muntaz (caporale), il buluc-basci
ed il buluc-basci capo (sergenti), lo scium-basci e lo scium-basci capo
(marescialli).
L’organizzazione definitiva dei battaglioni coloniali comprendeva:

- 1 compagnia comando, su un plotone comando, un plotone servizi ed un plotone salmerie

- 3 compagnie fucilieri, ciascuna su 2 mezze compagnie di 3 buluc

- 1 compagnia mitraglieri, su tre plotoni di tre squadre (9 mitragliatrici)

La forza complessiva teorica era di poco superiore ai 1000 uomini:
ma i battaglioni nella maggior parte dei casi non raggiungevano tale
forza.
Nel secondo conflitto mondiale gli ascari eritrei dettero prova
di grande abnegazione e resistenza. Abituati a combattere avversari
che, come loro, erano prevalentemente appiedati ed armati di fucili e
mitragliatrici, si trovarono in difficoltà di fronte a mezzi corazzati
e reparti meccanizzati, bombardamenti di artiglieria prolungati ed
attacchi aerei.
Di fronte al fuoco di armi leggere non esitavano ad avanzare allo
scoperto ed avvicinarsi per lo scontro all’arma bianca. Scrisse un alto
ufficiale in un rapporto dopo la conquista della Somalia britannica:
“Le forti perdite sono da attribuirsi alla deficienza di condotta.
(...) Quando si tratta di rischiare la pelle sono ammirevoli. Ma quando
si tratta di ragionare, sfruttare il terreno
Le diserzioni tuttavia furono complessivamente poche e si
verificarono alla fine della campagna, quando il crollo dell’Impero era
evidente e gli ascari si preoccupavano di raggiungere i propri villaggi
per difendere le famiglie dalle rappresaglie degli abissini. Dove gli
ascari potevano giovarsi del terreno ed affrontare gli inglesi fanteria
contro fanteria, come nella difesa di Cheren, contennero a lungo il
nemico eseguendo a fianco di granatieri, bersaglieri ed alpini numerosi
contrattacchi alla baionetta.
A titolo di esempio del comportamento degli ascari eritrei si
cita uno dei più vecchi battaglioni, il IV° “Toselli”, ricostituito
dopo il disastro dell’Amba Alagi.
Inquadrato nella prima divisione eritrea durante la battaglia dell’Ascianghi
Il battaglione nel 1940 faceva parte della brigata Lorenzini.
Durante la Battaglia di Agordat (), in assenza degli ufficiali
italiani, i sottufficiali eritrei organizzano un contrattacco, coronato
da successo, contro la per liberare una banda irregolare che, isolata,
stava per essere travolta. Il battaglione ripiegò su Cheren dove
costituì la riserva. La notte tra il la fanteria indiana riuscì a
sbucare nella piana di Cheren. Gli ascari del IV°, con la cavalleria
eritrea ed altri reparti, furono destinati al contrattacco. Secondo una
testimonianza gli ascari svolsero la fascia distintiva nera e la
avvolsero intorno ai fucili “per bagnarla del sangue dei nemici”. Il
contrattacco alla baionetta, coordinato con gli altri reparti, ebbe
pieno successo e prolungò la resistenza di Cheren.


 
 
 

L’ASCARO DEL CIMITERO D’ASMARA

Post n°15 pubblicato il 29 Luglio 2008 da wrnzla
Foto di wrnzla

L’ASCARO DEL CIMITERO D’ASMARA

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo, indossa con stile l’impermeabile macchiato che gli regalarono i soldati di sua maestà britannica tanti, troppi anni fa, mocassini assurdamente bianchi, il bastone sotto il braccio piegato ad angolo retto come usavano gli ufficiali di antichi imperi defunti. E’ davanti ad una tomba bassa, le sillabe di un nome incollate al lucido rosso, Orlando Lorenzini, con una data e un luogo, Cheren 1941.
Il vecchio ascaro scuote la sua stanchezza, il braccio ha un gesto secco quando la mano aperta corre alla fronte per un saluto eterno come un pugno di secondi. Tutti i giorni in questa città percorsa dai brividi di una prossima indipendenza dopo trent’anni di patimenti, Ghelssechidam viene qui, e ripete la sua anacronistica sfida contro il tempo. Percorre i piccoli viali incendiati dal viola delle jacaranda che la pietà ha riservato ai caduti di guerra italiani, sillaba nomi dimenticati ma che per lui significano militaresche solidarietà, passioni e paure cementate dal campo di battaglia. Alla fine si ferma davanti alla tomba dell’eroe di Cheren, ultima battaglia dell’impero italiano agonizzante, e ripete il suo gesto d’amore.
Ghelssechidam, un tenero vecchietto di 80 anni, come gli altri 1600 ascari di Eritrea, non è un bislacco relitto del passato. Invece è imbarazzante come un rimorso: il rimorso per tanta energia di passioni che non abbiamo saputo meritare. Il rimorso per le certezze del nostro terzomondismo esotico in cui la sua fedeltà stona come una bestemmia. La memoria del vecchio ascaro brucia i decenni. Il giorni in cui il duca d’Aosta passò in rivista il suo reggimento, per esempio.
"Era un uomo alto quasi due metri. Quando vide che avevo sulle maniche tre decorazioni chiese al mio comandante: "Come mai lui così piccolo è già così decorato?". Il colonnello gli raccontò che avevo salvato un ufficiale ferito e allora il duca disse: "Bravo!" e mi regalò 300 lire. Che festa quella sera".
Era buono il duca d’Aosta, non come Graziani che lo fece fermare per 3 giorni tra le rocce di una amba trafitta dal sole perché non era dignitoso che gli ascari entrassero in una città conquistata prima del futuro maresciallo.
Il 15 febbraio 1941, quando tra le acacie di uno sperduto campo di battaglia una fucilata fermò la sua storia di onesto mercenario innamorato, l’ascaro ferito era solo. "C’era sempre qualche "nazionale" che scappava. Avanti andavamo noi, i fessi".
Eppure il vero servizio di questo povero cincinnato eritreo che gli inglesi avevano spedito al villaggio con un aratro di legno, è cominciato allora. L’Italia era sparita, si avvicendavano nuovi padroni, inglesi ed etiopici. Ma lui, Ghelssechidam, continuava a venire qui, in questo cimitero degli uomini e della memoria, per ribadire la fedeltà di quel patto.
Tutta l’Italia era un libretto ingiallito percorso dalla calligrafia di un burocrate di una volta: il libretto di servizio che rendeva il pugno di birr (la moneta etiopica) della pensione. Gli occhi del vecchio ascaro sono stanchi, gli sfuggono cifre e timbri che su un quadernetto di scuola riportano i versamenti. L’ultima cifra è un 329, ma quando la leggo il vecchio ascaro si irrigidisce: "Io non mai preso una cifra così grande, mi hanno frigato": Dice proprio così, "frigato". Rimette via il libretto, non è dignitoso parlare di soldi. Tra pochi giorni il suo Paese diventerà indipendente. Sorride piano, e sussurra: "Se torna Italia, io sono un signore".

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: wrnzla
Data di creazione: 27/05/2005
 

 
   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA È LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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ASCARI A ROMA 1937

 

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