27.03.2006
Prodi:«Berlusconi vendeva sogni, ora vende paura»
di Wanda Marra e Laura Matteucci (l'Unità)
«Se ci sarà una larga intesa per il Quirinale, saremo felici, se non ci sarà, si voterà a maggioranza». Così Romano Prodi, durante una videochat sul Corriere.it, moderata da Gianni Riotta, «implicitamente» risponde a distanza a Berlusconi. Ma rimanda tutto al dopo elezioni. Il Professore risponde ai lettori, in linea con la sua definizione di grinta («è essere coerenti»), mescolando pacatamente pubblico e privato. Tanto da confessare che se Berlusconi è un caimano, lui ha sempre avuto la passione per i gatti: «Stanno in giro, guardano, partecipano» e «graffiano solo se provocati...». Poi precisa: «ma non sono un gatto, sono un diesel».
Rintuzzando le accuse del centrodestra, ribadisce: «Non tasseremo Bot e Cc». E a proposito del precariato che riguarda oltre la metà dei giovani: «Stiamo distruggendo una generazione». Torna sulle coppie di fatto («Equiparare le unioni civili alla famiglia dell'articolo 29 della Costituzione è sbagliato, regolamentare le unioni civili è un dovere anche per i cattolici»), e parla di ritiro dall'Iraq «con i tempi e i modi necessari per salvaguardare la sicurezza dei cittadini». Riaffermando che in caso di vittoria si farà una nuova legge sul conflitto d'interessi, spiega che non è mai andato ospite in un programma di Mediaset in campagna elettorale perché aveva annunciato che avrebbe dosato molto la sua presenza in tv, ma critica i comportamenti recenti della rete. Ma è deluso anche dalla Rai. Se governerà, si tornerà al maggioritario, così come si cambieranno le leggi sull'immigrazioone e sulle droghe. Qual è il giornalista non in attività che preferisce? «Se consideriamo Enzo Biagi non in attività...».
Infine, su Berlusconi: il premier è un democratico? «Le regole lo obbligano a essere tale», ha risposto al vetriolo. E si mostra tranquillo sul prossimo duello tv («l'importante è essere se stessi»). Finita la chat, ai giornalisti dice: «Siccome la campagna per vendere sogni è fallita, adesso vendono paura e non rispettano più i fatti».
Dopo la chat, Prodi cambia musica: artisti e produttori lo incontrano al Rolling Stone, storica discoteca milanese. E lui, che si definisce «stonato e musicalmente onnivoro», risponde alle domande di Caterina Caselli, Eugenio Finardi, Dolcenera, Simone Cristicchi, <?xml:namespace prefix = st1 ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:smarttags" />La Crus, Beppe Carletti. Promette: «Mi prendo la responsabilità di fare una legge che regolamenti il mercato della musica e combatta la pirateria», ma avverte: «La legge è solo un'elemosina se non riusciamo a cambiare il clima culturale. Per questo vi chiedo un minimo di mobilitazione». La crisi della musica è enorme, classica, etnica, rock, jazz che sia, e dunque non si tratta solo di ridare fiato al Fondo Unico per lo spettacolo, perchè «i soldi ci vogliono ma non bastano».
L'aveva già accennato Finardi, parlando di «un clima culturale che non dà spazio alla musica che nasce col sudore e le lacrime», augurandosi «che si rifaccia la legge Gasparri, un abominio», così come «la legge Moratti, che tra l'altro ha completamente cancellato l'insegnamento della musica». Prodi è d'accordo, e pensa anche ad un «ccordinamento tra diversi ministeri per promuovere la musica italiana». Favorevole ad abbassare l'Iva «un atto di giustizia che equipara la musica ai libri» e avverte: «Non è che se portiamo l'Iva dal 20 al 15% avviene un miracolo sul mercato».
27.03.2006
Il governo lascia un buco miliardario
di Roberto Rossi (l'Unità)
A rischio tra Unione e Polo la tensione sui conti rimane alta. A nulla sono servite le rassicurazioni del ministero del Tesoro che ha fatto sapere che «le entrate vanno bene». L'ombra del buco resta e con lei quella di una manovra aggiuntiva. Una parola che ora nessuno vuol sentire neanche nominare. Un incubo che, secondo molti istituti di ricerca (il Ref di Milano, Prometeia di Bologna), citati dal quotidiano la Stampa, potrebbe presto diventare realtà. 10 - 18 miliardi di euro di ammanco. Una cifra che presenta un margine di oscillazione ampio ma che potrebbe anche essere fatta al ribasso. Da far sudare freddo. Per questo diventa fondamentale avere fra le mani, prima della scadenza elettorale, la trimestrale di cassa. Il documento contabile annuale (si chiama usualmente trimestrale ma si tratta di una relazione sulla stima del fabbisogno di cassa e sull'indebitamento di competenza dell'anno in corso la cui emanazione è fissata per legge al 20 febbraio) darebbe la reale dimensione del buco. Buco che la destra nega. Renato Brunetta, consigliere economico di Palazzo Chigi, ieri spiegava in un'intervista di essere «convinto che se il documento fosse reso noto prima delle elezioni sarebbe il centrosinistra a subirne gli effetti». Naturalmente se il governo avesse potuto lo avrebbe già fatto. Solo che «i tempi sono dettati dalla Ragioneria dello Stato» oltre che dal ministero del Tesoro.
«Il dato di fatto - spiega il diessino Giorgio Benvenuto, presidente della commissione Finanze della Camera - è che loro non completano i conti del presente anno. Da questo nasce il sospetto che abbiano qualcosa da nascondere». «Approfittano del fatto - spiega ancora Benvenuto - che il Parlamento è chiuso e non siamo in grado di chiedere nulla. Loro ritardano perché i conti non tornano e, naturalmente se dovessero venir fuori dovrebbero dire che c'è bisogno di una manovra e tutta la loro propaganda finirebbe per saltare».
Più cauto invece sull'entita del possibile buco. «Non so che grado di precisione abbiano i dati forniti dai centri studi citati. So solo che sono attendibili, anche se sono solo previsioni». E le previsioni possono difettare non solo per eccesso ma anche per difetto. «Può anche essere possibile che dicano solo una parte della verità e che questa possa essere anche peggiore».
«Anche se il Tesoro li ha promessi prima che si concluda la campagna elettorale difficilmente vedremo saltare fuori i dati reali - ha commentato l'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco - . Tirarli fuori sarebbe come ammettere che tutte le promesse fatte per i primi cento giorni di governo sono irrealizzabili». «Loro non possono continuare a nascondere le cose - ha continuato Benvenuto - dopo aver raggirato gli italiani li prendono anche in giro».
«Giocano sull'equivoco della parola trimestrale - ha spiegato Visco -. I dati sui conti pubblici a fine anno secondo la legge vanno diffusi entro febbraio. Noi quando andammo al governo lo facemmo. Fu in quella trimestrale che cominciammo a tener conto del fatto che l'economia era in recessione. Riducemmo il tasso di crescita e aumentammo il disavanzo. La trasparenza dell'attuale governo è un fatto mitologico», ha commentato ancora l'ex ministro ulivista «il problema è vedere come si concilierebbero i conti veri e l'impegno preso con il patto di stabilità per un disavanzo 2006 al 3,5 per cento: tutto lascia pensare che siamo un punto sopra». Anche questo un dato non proprio rassicurante.
La realtà e la propaganda sul fisco
Bot dei poveri e bot dei ricchi
di Francesco Giavazzi (Corriere della Sera del 27 marzo 2006)
Una modifica del modo in cui sono tassati i rendimenti di azioni e obbligazioni è senza dubbio opportuna. D'altronde lo stesso Berlusconi aveva chiesto al Parlamento una delega (legge n. 80 del 2003) per «armonizzare l'imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria». L'attuale regime fiscale infatti favorisce i ricchi a scapito dei poveri e chi possiede per lo più titoli di Stato, rispetto alle imprese. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero l'1,2%. Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l'aliquota minima sui redditi da lavoro) e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano solo il 12,5%.
Quest'aliquota favorisce i titoli di Stato anche rispetto al reddito d'impresa che paga il 36% senza contare l'Irap. L'aliquota del 12,5% si applica anche alle stock options che in molte società costituiscono una quota sempre più rilevante del compenso dei dirigenti. Una banca che ha troppi dipendenti, ad esempio, fa benissimo a retribuire il suo capo del personale con stock options milionarie: se costui riesce a ridurre il numero dei dipendenti, le azioni della banca saliranno, e nulla funziona meglio di questi incentivi. Ciò che è iniquo è che il dipendente prepensionato paghi, sulla sua pensione, il 23%, mentre il dirigente che lo ha mandato a casa solo il 12,5%. La modifica del regime fiscale dovrebbe riguardare tutti i titoli, non solo quelli di nuova emissione.
Titoli identici ma con diversa tassazione segmenterebbero il mercato e ne ridurrebbero la liquidità, che è un fattore cruciale per la trasparenza dei prezzi. L'aumento dell'imposta sui titoli di Stato già posseduti ne ridurrebbe i rendimenti, ma non il prezzo: cioè una famiglia che possiede un Btp (direttamente o attraverso un fondo comune di investimento) riceverebbe una cedola un po' più bassa, ma il valore di mercato del titolo non cambierebbe. Infatti la gran parte dei titoli pubblici è detenuta da investitori istituzionali che non pagano la ritenuta: sono costoro a determinare i prezzi. Certo, la famiglia vedrebbe decurtate le sue cedole, una perdita in parte compensata dalla riduzione del prelievo sui conti correnti bancari.
Maria Cecilia Guerra (Il Sole 24 Ore, 24 marzo) ha calcolato l'effetto di un'aliquota unica al 20% per famiglie con diversi redditi netti. Una famiglia con un reddito netto di 20 mila euro l'anno subirebbe una perdita (minori interessi sui titoli, in parte compensati dal minor prelievo sui depositi) di 25 euro l'anno circa; l'effetto per una famiglia con un reddito netto di 79 mila euro è di 456 euro l'anno. I risparmiatori non devono quindi temere una modifica del regime di tassazione: gli effetti sul reddito sono modesti e quelli sul valore dei titoli di Stato pressoché nulli. Se mai dovremmo temere gli effetti — questi sì equivalenti a una patrimoniale — di un governo che non fosse capace di fermare la crescita del debito pubblico. I mercati e le agenzie di rating hanno dichiarato una tregua sino a giugno, quando il nuovo governo presenterà il suo primo Documento di programmazione economica (Dpef). Se non fosse convincente, il premio al rischio sui titoli italiani salirebbe, cioè il loro prezzo di mercato scenderebbe.
Chi ci può far pagare una patrimoniale è un governo che non riuscisse a fermare la crescita del debito, non un governo che rendesse meno inique le aliquote.
Dal 2001 finanziato solo il 7% dei lavori promessi dal governo
25 milioni in tre anni per commissari esterni. Pagati coi rincari di patenti e bolli
Stipendi d'oro, cantieri fermi
il flop delle Grandi Opere
di VLADIMIRO POLCHI (La Repubblica del 27 marzo 2006)
ROMA - Piccole opere e grandi sprechi. Altro che spot trionfalistici e inaugurazioni festose: quello della "Legge Obiettivo" è il bilancio di un fallimento. Stipendi d'oro, cantieri fermi, finanziamenti col contagocce. Grandi Opere, chi le ha viste? Nessuno. I progetti rimangono scritti sulla sabbia.
Tutto comincia nel 2001, quando il governo Berlusconi delibera un Programma di infrastrutture strategiche di 117 opere, per un investimento complessivo di 125,8 miliardi di euro. Che ne è stato? A leggere sul sito Internet di Forza Italia ci sarebbe da essere ottimisti: "Alla fine del 2005 risultano aperti cantieri per 51 miliardi di euro". Non solo. Il premier, commentando la delibera Cipe del 22 marzo scorso, ha annunciato: "Entro ottobre 2006 saranno aperti 106 cantieri, per una movimentazione complessiva di 71 miliardi, 671 milioni di euro". Sbagliato. I numeri infatti dicono altro. Come confermano fonti vicine al ministero delle Infrastrutture.
Intanto, a leggere con attenzione la delibera Cipe 121 del 2001, si scopre che l'attuale esecutivo ha ricevuto in dote dai precedenti governi ben 18 miliardi di euro. Per i finanziamenti successivi, bisogna invece guardare anno per anno il capitolo 7060 del bilancio dello Stato: "Fondo per infrastrutture strategiche". Ebbene dal 2002 al 2006 gli stanziamenti per le Grandi Opere sono stati in tutto 805 milioni di euro. Soldi con cui lo Stato ha via via contratto mutui con varie banche, indebitandosi per ben 15 anni. Lo stanziamento iniziale (una sorta di prima rata del mutuo) va infatti moltiplicato per 11 volte: il valore che il governo prevede di spendere per le Grandi Opere (4 rate se ne vanno nel pagamento degli interessi).
Si arriva così alla cifra di 8 miliardi e 855 milioni di euro di lavori finanziati (grazie a prestiti bancari): solo il 7% degli investimenti promessi nel 2001. E' la stessa Corte dei Conti, nel 2005, a stigmatizzare la situazione: con poche risorse si sono cantierate troppe opere, con il rischio della paralisi dei lavori.
Quali sono gli istituti che hanno concesso i mutui necessari alla realizzazione della "Legge Obiettivo"? Banca Opi (gruppo San Paolo IMI), Banca Intesa, Dexia-Crediop, Depfa Bank, Cassa depositi e prestiti. E Infrastrutture spa? La società, che nelle intenzioni del governo doveva fare la parte del leone, ha finanziato una sola opera: il passante di Mestre (delibera Cipe, 3 febbraio 2004).
E mentre i lavori procedono a rilento, i costi corrono. La "Legge Obiettivo" è infatti cara. Tra commissari speciali e strutture esterne al ministero, dal 2003 si sono spesi 25 milioni di euro in stipendi. Lo rivela il capitolo 1021 del bilancio dello Stato. Per i primi anni i soldi sono arrivati dalla Cassa depositi e prestiti. Nel 2006, invece, gli stipendi sono stati pagati con un aumento delle tariffe delle Motorizzazioni (patenti e revisioni).
Stipendi d'oro, a partire dall'assegno annuale che ricevono i 7 commissari speciali all'attuazione delle opere (all'origine erano 9): 500mila euro all'anno, più 280mila euro di rimborso spese. L'ultimo a essere nominato commissario straordinario per il Nord-Ovest è stato l'architetto Mario Virano, consigliere d'amministrazione di Anas e presidente dell'Osservatorio per la tratta Torino-Lione.
Non è tutto. Dietro ai numeri delle Grandi Opere, si intravede un Paese fermo. Nel capitolo di bilancio 7060, sono stati infatti stanziati 35 milioni di euro per le progettazioni preliminari. Un investimento intelligente, per creare anche in Italia un parco progettuale per il futuro. Ma purtroppo non si sono presentate imprese appaltanti. Da noi dunque o non si fanno progetti, o se ne fanno troppo pochi. I fondi non sono stati impegnati. Il recente decreto "Mille proroghe" ha ristanziato la stessa cifra per un altro anno ancora. Senza molte speranze, visto che c'è già chi prevede di destinare quei 35 milioni a rimpinguare le vuote casse dei lavori per le Grandi Opere.
Il Caimòna e il Mangano
di MARCO TRAVAGLIO ("l'Unità" del 24 marzo 2006)
Nell'associarci all'invito rivolto da Diego Della Valle (colonna marchigiana delle Br) ad amici e parenti di Bellachioma, perché gli stiano vicino in questo momento di stanchezza che dura da 12 anni, ci permettiamo di aggiungere un'esortazione:
chiunque incroci Bellachioma sulla sua strada, lo saluti con queste precise parole: «Viva Mangano». O anche soltanto con questa parola: «Mangano». Il ricordo dello stalliere di Arcore è sempre nel cuore del nostro premier. Eppure, inspiegabilmente, il solo evocarne il cognome provoca in lui reazioni inconsulte. E vero che finora chiunque abbia osato farlo non ne ha tratto un gran giovamento. Lo citò Paolo Borsellino nella sua ultima intervista a due giornalisti francesi, il 21 maggio 1992: 59 giorni dopo saltò in aria. Lo citarono Biagi, Santoro e Luttazzi nel 200l, poi il padrone di casa dello stalliere mafioso li eliminò seduta stante per «uso criminoso della tv pubblica». L'altroieri a Genova un passante ha visto Bellachioma e gli è venuto spontaneo salutarlo con un affettuoso « Viva Mangano!». Il premier è sceso dalla Berlusmobile, gli ha puntato il dito contro scambiandolo per Della Valle e l'ha apostrofato col tipico linguaggio istituzionale: «Lei non si deve permettere! Coglione!». Poi Bellachioma ha accusato la sinistra di «schierare gli squadristi contro di me» e di «tollerare la violenza nei miei confronti». Quali violenze abbia mai subito - a parte il famigerato treppiede di piazza Navona - non è dato sapere. Si sa invece che Mangano, quando lavorava ad Arcore, arrotondava lo stipendio col traffico di droga, i sequestri di persona, le estorsioni e qualche bomba (due attentati alla villa di Via Rovani furono attribuiti a lui dal Cavaliere e da Confalonieri), dopodichè fu condannato a 11 anni al maxiprocesso di Falcone e Borsellino, rimase in carcere fino al 1991 e quando uscì fu premiato per il suo prezioso silenzio con la promozione a boss della famiglia palermitana di Porta Nuova, quella di Pippo Calò. E tornò subito a frequentare l'amico Dell'Utri, andando a visitarlo due volte nel solo novembre del '93 a Milano, negli uffici di Publitalia, dove stava nascendo Forza Italia. Insomma, più che di cavalli, lo strano stalliere seguitava a occuparsi amorevolmente del Cavaliere. «Per me Berlusconi era proprio come un parente - dichiarò il 14 luglio 2000 - e la fiducia che aveva in me era pari a quella che io avevo in lui e nella sua famiglia. A Berlusconi ci voglio bene, fino ad oggi. È una persona onesta». Poi, nove giorni dopo, spirò. Era appena stato condannato in Assise a due ergastoli per omicidio, ma non ebbe la soddisfazione di vedere il suo pigmalione tornare a Palazzo Chigi. Almeno una corona di fiori della Presidenza del Consiglio l'avrebbe meritata. Invece, sulla sua tomba, Silvio e Marcello non lasciarono neppure un fiore.
Ora la storia si ripete: gli amici mafiosi della famiglia di Arcore hanno una spiccata tendenza a defungere alla vigilia delle elezioni. Se prima di quelle del 2001 morì Mangano, il 28 febbraio di quest'anno se n'è andato Gaetano Cinà per un infarto: condannato per mafia insieme a Dell'Utri dal Tribunale di Palermo, era celebre per la sua parentela con la famiglia di Stefano Bontate e Mimmo Teresi, per la sua affettuosa amicizia con Dell'Utri che lo ospitava spesso in casa sua e lo chiamava «Tanino», e per aver spedito a Berlusconi una cassata di 10 chili con lo stemma di Canale5 in zucchero caramellato per il Natale del 1986. Sabato 18 marzo ci ha lasciati anche Cosimo Cirfeta, il boss della Sacra Corona Unita imputato con Dell'Utri per un presunto complotto di falsi pentiti: gli è stata fatale, nella sua cella a Busto Arsizio, un'inalazione di gas dal fornello per il caffé: aveva appena annunciato ai giudici di Palermo di voler parlare. Nemmeno sulle tombe di Tanino e di Cosimo si troverà un mazzolin di fiori targato Arcore. La gratitudine non è di questo mondo.
Spetta dunque ai cittadini onesti rievocare la memoria di questi martiri della libertà, perseguitati fino alla tomba per aver servito fedelmente il Cavaliere e i suoi cari. Ecco perché è cosa buona e giusta salutare il Cavaliere con un cordiale «Mangano», o «Cinà», o «Cirfeta». Se lui poi risponde «coglione» o - a seconda del luogo dove si svolge il colloquio - «piciu», o «pirla», o «vammoriammazzato», o «ostia d'un mona», o «'sta minchia», o «soccmel», o «li mortacci tua» non è il caso di impressionarsi. Vuole solo dimostrarci come si commuove un moderato.
Inviato da: lottersh
il 25/03/2009 alle 09:04
Inviato da: lottersh
il 25/03/2009 alle 04:59
Inviato da: lottersh
il 25/03/2009 alle 04:57
Inviato da: volandfarm
il 25/03/2009 alle 03:14
Inviato da: lottergs
il 25/03/2009 alle 01:00