Creato da Le.Arabe.Felici il 03/11/2005
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Ancora una volta Diego Rex Tangentialis, incorniciandola con una serie impressionante di roboanti rutti, ci ha elargito una delle sue pagine sulle vicissitudini della sua infanzia, pagine che potrebbero farlo passare come un animo sensibile invece che come un cinico criminale oggi, e come un tenero fanciullo invece che come un teppista da riformatorio ai tempi della sua infanzia, pagine che egli scrive, ed è nostro dovere informarne le sprovvedute lettrici, esclusivamente allo scopo di agganciare fanciulle innocenti e farle oggetto della sua immonda concupiscenza.
Quando mia nonna morì, avevo sette anni. La percezione che ebbi dell’evento non fu traumatica, sia perché ero stato preparato da tempo alla possibilità che non l’avrei rivista, sia perché la notizia non mi fu comunicata, ma si preferì che ne acquisissi gradualmente consapevolezza. In realtà l’intento della mia famiglia di tenermi all’oscuro - che ad oggi non esiterei a definire criminale, benché in buona fede – fu parzialmente frustrato da un episodio di cui fui spettatore, che non solo mi diede modo di sospettare l’accaduto, ma ebbe, ed ha, una profonda influenza sul mio modo di concepire la società.
Era più o meno l’ora di cena, quando suonò il campanello, ed io vidi la signora della porta accanto parlare brevemente, in tono sommesso, con mia madre, ed infine porgerle una pentola di brodo.
A quel tempo, la mia vicina di casa era una donna sulla quarantina, di robuste origini contadine, la quale, come molti, negli anni ’60 aveva abbandonato le natie Marche per cercare una vita migliore a Roma, finendo poi a vivere in un pugno di metri quadrati con il marito e due figli. Non c’erano rapporti particolarmente stretti tra le due famiglie. I figli erano sporadicamente miei compagni di giochi, visto che eravamo quasi coetanei, ma le differenze nelle abitudini, negli orari e negli interessi facevano sì che i nostri genitori non scambiassero più che convenevoli e brevi conversazioni incontrandosi per le scale o nell’androne.
Malgrado ciò, apparve quella pentola di brodo. Che non nasceva da un’amicizia più o meno intensa, da un sentimento specifico e diretto, ma dalla percezione, non elaborata, che così dovesse essere fatto. Nasceva da secoli in cui, quali che fossero i rapporti, chi si trovava più vicino, nel senso strettamente geografico del termine, era naturalmente deputato a portare una cena leggera e calda ad una famiglia in lutto, nella quale era verosimile che nessuno si sentisse in grado di prepararla. Nasceva dalla terra, dal tempo, dalla nozione di genere umano e dal legame che, in virtù di tale comune appartenenza, si allaccia, che lo si voglia o meno, con chi occupa lo spicchio più prossimo di crosta terrestre. Nasceva dall’essenza stessa dell’uomo.
Negli anni che seguirono, libri di testo e professori cercarono variamente di illuminarmi sulla nascita di questo oscuro pianeta e delle specie che con indifferenza lo popolano. E benché fossi pronto ad apprendere ed accettare ogni teoria, rimasi sempre diffidente nei confronti del brodo primordiale, ben sapendo che l’unico vero brodo primordiale fu quello che vidi sulla soglia di casa mia in una sera di trent’anni fa, e che diede vita non ad organismi unicellulari, ma ad un’intera società, che forse vive solo nella mia mente, di uomini e donne consapevoli del proprio dovere di essere umani.
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