Creato da Margherita281028 il 29/07/2008

ArteNet bacheca

Mostre, brevi viaggi d'arte, articoli, poesie, racconti, un po' di musica e qualche approfondimento

 

 

« AVERE GLI ALTRI DENTRO DI SE'MEDEA DI EURIPIDE (2/6) »

MEDEA DI EURIPIDE (1/6)

Post n°76 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

Eurìpide

Medèa


Tragedia rappresentata nel 431. La leggenda di Medea si riannoda al mito degli Argonauti cantato a lungo da poeti epici e lirici. Ma l'episodio vero e proprio di Medea, che, abbandonata da Giasone per una nuova sposa, si vendica di lui procurando la morte alla fanciulla e al padre di lei, e uccidendo di sua mano i suoi propri figli, che è il soggetto della tragedia di Euripide, è assai più recente, e l'uccisione dei figli è un elemento probabilmente aggiunto dalla tragedia attica, se non proprio da Euripide. Nel prologo, una vecchia schiava, la nutrice di Medea, espone la situazione iniziale del dramma. Medea, dopo avere per amore di Giasone mosso alla conquista del Vello d'oro e indotto le figlie di Pela a uccidere il loro padre, è stata costretta a fuggire, con Giasone e coi figli, a Corinto. Qui Giasone sta per abbandonarla e per legarsi in nuove nozze a Glauce, la figlia del re Creonte. Disperata, Medea passa dalle grida, dai lamenti, dai rimproveri, a un cupo mutismo e non vuol più rivedere i figli. La nutrice teme - presagio che si sente pesare sempre più urgente fino al compimento dell'atto - che Medea compia qualche tremenda azione. Essa conosce troppo bene l'anima della sua padrona. Così, quando giunge, accompagnando i figli di Medea, un vecchio schiavo, e informa la nutrice che essi saranno, per volontà di Creonte, banditi dalla città, essa, sentendo aggravarsi la minaccia, raccomanda al vecchio di tener lontano da Medea i suoi figli. Si sentono ora, dall'interno del palazzo, le grida dell'infelice che impreca alla sua sorte, alla sua casa, ai suoi figli. Si uniscono nel compiangerla e nell'esprimere oscuri timori la nutrice e il coro di donne corinzi ora sopraggiunto. Per consiglio del Coro la nutrice entra nel palazzo per condurne fuori Medea, semmai il vedere e parlare con persone amiche, le donne del coro, calmi il suo furore. E Medea esce e lamenta dinanzi al Coro il destino di tutte le donne, e soprattutto il suo destino. Privata di parenti, di amici, di patria, giunta al delitto per l'uomo amato, ora essa sta per perdere anche lui. Una sola cosa chiede Medea al Coro: il silenzio sul suo proposito di vendetta, sicuro anche se non fermo ancora nel modo. Giunge Creonte e intima a Medea di lasciare, nel giorno stesso, la città, coi suoi figli. Medea, fattasi calma e umile, domanda ragioni e supplica, ma il vecchio le dice chiaro che egli teme la sua presenza, per sua figlia e per Giasone e tanto più la teme quanto meglio essa sa, perfidamente, farsi umile e mansueta. Ma quando Medea gli chiede un giorno, un giorno solo di dilazione per prepararsi a partire, egli finisce col concederglielo, pur col presentimento di far male. Rimasta sola, Medea se ne rallegra sinistramente e invoca ogni sua forza d'animo e di magia per preparare a Glauce e Giasone "nozze amare". Si trovano ora faccia a faccia Medea e Giasone, venuto a tentar di calmare la sposa tradita con un tentativo di giustificazione. Non si potrebbe immaginare contrasto più significativo, opposizione più radicale di questa. Di fronte alla passionalità aspra e magnanima della donna che per amore ha tutto perduto e commesso delitti, quest'uomo mediocrissimo pretenderebbe di fare accettare il suo desiderio di nuove nozze come un tentativo di buona sistemazione per i figli, che avranno dalle sue nozze posizione regale, e per la stessa Medea, che, a sentir lui, avrebbe potuto vivere tranquilla e onorata in Corinto, se non fosse stata così violenta. Ma Medea non discute neppure queste insultanti considerazioni i motivi dell'abbandono o son falsi e coprono un amore che la rende pazza di gelosia, o sono spregevoli. Con i rimproveri più appassionati, con la rappresentazione della propria miseria e desolazione, Medea intreccia ironia sprezzante e minaccia. Il diverbio lascia a lei un'ultima parola in cui la sentiamo dominatrice sicura. La sorte la favorisce. (È stato rimproverato ma con poca ragione da critici antichi questo intervento della sorte. Noi sentiamo che di fronte a tale anima ogni occasione esteriore è elemento secondario). Giunge Egeo, re di Atene, che è stato a Delfi per interrogare Apollo, perché 'è afflitto dalla mancanza di prole, ed è ora diretto a Trezene. A lui Medea chiede ospitalità in Atene e la promessa che egli non la consegnerà mai ai suoi nemici. In cambio Medea, coi suoi filtri, gli darà la paternità. Egeo acconsente con giuramento e Medea, sicura ormai di avere un rifugio, può pensare risolutamente alla vendetta. Manderà alla sposa un peplo e una ghirlanda d'oro, avvelenati con un suo farmaco, che farà morire la fanciulla appena li avrà indossati e chiunque poi la toccherà. Poi ucciderà i figli in modo che Giasone sia colpito nell'unica cosa che ama. Nel compimento della vendetta le vale di strumento quella simulazione fredda e sicura che in lei si unisce alla violenza selvaggia, con apparente contrasto, in realtà traendo forza e tensione dalla chiusa passione. Ha mandato a chiamare Giasone, fingendosi pentita della sua violenza, lo prega di intercedere presso Creonte perché i suoi figli possano rimanere a Corinto. Li ha fatti venire perché salutino il padre. Vedendoli, sentendo le parole di Giasone auguranti a loro una vita felice, è vinta dalla tenerezza e piange, ma riesce a dominarsi e dà loro da portare il peplo e la corona per Glauce. La preghino essi, di lasciarli vivere a Corinto. Dopo il canto corale, tutto pieno del presagio dell'imminente sventura, torna sulla scena il pedagogo coi figli e racconta che i doni sono stati accettati. Si meraviglia però che Medea rimanga triste e piangente. Ella pensa all'atto che sta per compiere, mentre il pedagogo si appaga di credere che l'affligga il dolore della separazione imminente. Congedato il vecchio schiavo, Medea, in un monologo famoso e meraviglioso di verità e profondità, esprime il tormento del suo animo fluttuante tra il proposito e la tenerezza dei figli. Li chiama a sé piangendo e li bacia, poi li fa allontanare e li richiama ancora, più volte sentendo insostenibile l'atto meditato, ma sempre ritornandovi come a una ferrea legge del fato. La sua passione funesta prevale anche se ella sente e sa che per essa sarà distrutta la sua vita. Giunge, dopo il canto del Coro, un servo e annunzia a Medea che Glauce e suo padre sono morti, la fanciulla per avere indossato i doni di Medea, il padre per aver voluto abbracciarla morta. Medea si accinge ora a compiere l'atto più tremendo: entra nel palazzo vincendo ancora una volta il sentimento materno. Si sentono, dopo il canto del Coro deprecante la sciagura, le grida dei bambini che chiamano aiuto. Tutto è compiuto quando Giasone arriva per salvare i suoi figli, strumenti della morte di Creonte e di Glauce, dall'ira dei Corinzi. Lo informa il Coro. Furente egli si precipita sulla porta della casa e vorrebbe entrare a forza, ma lo ferma una apparizione prodigiosa: Medea appare sul fastigio della casa, su un carro alato, mandatole, essa dice, dal Sole, suo avo. Ha con sé i corpi dei piccoli figli. Giasone impreca contro di lei "non donna, ma leonessa", mostro come la "Tirrena Scilla". Medea ribatte, durissima, che lui solo è causa della sciagura e nega alle sue suppliche la grazia di vedere e toccare ancora i corpi dei figli. Con un'ultima invocazione di Giasone alla vendetta di Zeus ha termine il dramma. Questa tragedia, che è tra i grandi capolavori euripidei, ha nella figura sempre dominante della protagonista la sua unità. Non ci sono, tranne in qualche canto corale, momenti episodici e digressioni. Lo stesso sentenziare, comune in Euripide, ma qui meno frequente, sembra ora quasi sempre esprimere direttamente un sentimento. Euripide è riuscito a creare una figura mostruosa e umana insieme, violenta e tenera, lacerata dal più potente conflitto di passioni e dominatrice. Il suo interesse per le anime, e per le anime infelici, sempre dolorose e vinte anche quando si abbandonano al demone da cui sperano felicità e vittoria, questa che è la nota dominante della sua ispirazione, si è qui attuata compiutamente.

(segue)

 
 
 
Vai alla Home Page del blog

il SITO di Davide BONAZZI,

un giovane disegnatore

 

TAG

 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

CERCA IN QUESTO BLOG...

MOSTRE 

MUSICA 

FILM 

LIBRI

DI TUTTO UN PO' 

POESIE inserite in
AGOSTO 2009
I PARTE II PARTE

ALTRE POESIE
BRANI MUSICALI
inseriti in AGOSTO 2009

 
 

ULTIMI COMMENTI

Grazie!
Inviato da: petula
il 26/01/2014 alle 09:22
 
Grazie!
Inviato da: yves
il 26/01/2014 alle 09:22
 
Grazie!
Inviato da: karine
il 26/01/2014 alle 09:21
 
Grazie!
Inviato da: Tessa
il 26/01/2014 alle 09:21
 
Grazie!
Inviato da: roger
il 26/01/2014 alle 09:20
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963