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Post n°39 pubblicato il 03 Gennaio 2011 da pacatissima
Amavo giocare? Non saprei. Oggi mi piace. Amo giocare con le mie capacità. Mi piaceva scrivere. Di questo ne sono certa. Ancor prima di saperlo fare. Mi piaceva l’inchiostro che usciva dalla penna. Anche quello che macchiava le mani. I fogli scricchiolanti per la troppa pressione della scrittura. Volevo impossessarmene. La lettera G era un traguardo. Credo che facessero apposta a presentarcela in quel modo, tutta adornata dalle contorsioni dello stampatello. Al suo traguardo collegavo un’avvenuta crescita. Ed io l’ attendevo. Mi piaceva suonare. Anche di quella capacità avrei voluto impadronirmi ed ogni piccolo centimetro di avanzata nella tecnica veniva da me ripetuto con maestria sognata. Mi piaceva disegnare piante. Usando solo colori. Fasci arcuati di colori accesi, l’uno accanto all’altro. Infondevo a quei fasci un sentire potente e luminoso. Li guardavo, ma gli occhi non rintracciavano linee di contenimento che richiamassero la forma verosimile. Non sembravano piante ma ne avevano tutto il fulgore. Alle ripetute richieste degli altri che mi chiedevano cosa fossero, decisi che il disegno non era per me e lo lasciai perdere. Per riprenderlo molto più in là. Quando qualcosa si aprì. Scendevo in cortile a giocare con i bambini del palazzo in cui abitavo, ma c’erano troppi momenti morti in cui fare ciò che facevano gli altri non mi aggradava, anzi mi pungolava nervosamente l’animo. Giochi da maschio. Per forza, erano in maggioranza. Eppure mi scalmanavo. Rossa, sudata e insoddisfatta. Volevo comandare e questo perché me l’hanno riferito, non ricordo di essermene resa conto. Così, quando abbandonai il nostro club, dove non si sa bene cosa facessimo, all’infuori di versare una quota settimanale di cinque lire in una piccola cassaforte verde, mi recapitarono una lettera che mi informava della mia avvenuta nomina di capo pregandomi di tornare. Iniziammo a togliere lo stucco dalle finestre dei pianerottoli, quello stucco che l’amministratore e i nostri genitori davano come una crema alle suddette finestre, noi lo staccavamo facendone delle palle di simil pongo che adoperavamo come ci dettava la fantasia ed io ne custodivo il tesoro. Consapevoli di farla grossa, coloravamo col gusto del tragico i nostri giochi, aspettando i rimproveri che non tardavano a manifestarsi in tono drammatico, protetti però da una mancanza effettiva di prove di fronte alla quale l’amministratore esercitava comunque un eccesso di potere condannandoci per alcuni giorni agli arresti domiciliari. Mi piaceva andare a trovare Daniela, fare le attrici, progettare un film dell’orrore con tutti i crismi. Un film mai portato a temine perché ci impaurivamo sul serio all’atto pratico. Allora ci mettevamo a baciare il muro, passando così al film d’amore. Mi ritiravo con lei anche quando i nostri genitori si riunivano per le loro cene sontuose. Daniela all’improvviso scappava dalla sua camera. Io la seguivo e la vedevo alzarsi la gonna proprio davanti alle porte a vetro che ci separavano dai grandi. Fremevo e lei rideva per lo scandalo che in me provocava. Mi piaceva spremerle i brufoli sulla schiena mentre ascoltavamo sempre lo stesso 45 giri ed io cantavo. Allora lei si alzava e capovolgendo una sedia sulla sua testa la trasformava immediatamente in una macchina per le riprese televisive di fronte alla quale mi esibivo in un inglese gridato e inventato. E scrivere di poesia. A volte a pranzo, veniva a trovarci un amico omosessuale il cui più grande divertimento consisteva nello scrivere bigliettini d’amore con sopra il mio nome e gettarli dalla finestra ridendo, per stuzzicare la mia vergogna palese. Mio padre lo accompagnava nel riso. Cantavo senza posa. Mi specchiavo continuamente atteggiandomi. Non mi piaceva dormire nel pomeriggio. Mi piaceva andare all’Anfiteatro e cuocermi un uovo al tegamino, ma non me l’hanno mai concesso. Quando avevo una nuova amica questo desiderio mi incendiava. Mi sembrava la cosa più bella da fare. Mi chiedevano se fossi pazza. Non lo ero. Adoravo il registratore a nastro. L’ho usato in tutti i modi possibili. Piangevo. Quasi ogni giorno. Quando non trovavo pane per i miei denti.
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