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Le poesie di B.Z.POESIE DI B.Z: n.1 PELLICANO 70
Pellicano 70
Cedro del Libano, polveroso, vetusto,
pieno di voci giovanili
acute, ribelli e docili;
antri oscuri e umidi,
mura di conventi, sconnessi
e dissacrati, urlate!
Avete visto. Amore scintillante,
come città sorta dinnanzi alla mente,
non di cielo, ma di terra.
Torri bianche splendenti nel deserto
Amore di minerale puro.
Pensiero assoluto e cristallino.
Non suono né ombra.
Solo le lancette dell’orologio
che segnano l’ora fissata.
E’ mezzogiorno. Ora, per sempre.
Le lancette si mossero assieme
segnando diritto, in alto.
Il sole sta immoto sul capo.
Amore inevitabile
dove in un punto interno
s’ode un battito, al centro segreto,
l’oggetto, l’elemento blu ghiaccio
che arde nella sua sabbia,
il meccanismo fremente, disposto
in attesa del nostro passo umano.
Penso lontani e possenti trasporti
infiammabili, mentre i lunghi acquedotti percorrono la campagna
e il ronzio delle macchine
sfrega contro l’asfalto la gomma
che calpesta di nuovo, ritorna.
Antichi fabbricati scossi dalle vibrazioni.
E’ il ritmo dell’amore, inarrestabile
che avanza; non nel mistero spurio
della stanza chiusa e dello
specchio debole, no, non là.
Amore non abbozzato, ma
prima d’ora mai immaginato.
Incontri, speranze, attese,
campagne opulente coperte, ovattate
e lei, scolpita in verdissimo diaspro,
giada o smeraldo.
Dentro al sarcofago
divoro con la bocca crudele
la bianca carne profumata,
come dentro la basilica.
Come argento offuscato,
dove un ragazzino sforza gli occhi
contro una finestra, nel crepuscolo.
Su vite turpi cade grigia pioggia.
Ascolta: la palpitazione del tuo cuore
fa vibrare la camera annebbiata.
Puoi quasi toccarlo, il suo fragile respiro
dinnanzi a te sul vetro, tendi la mano
a scrivere il suo nome e senti,
sulla punta del dito
il freddo paralizzante fra tè
e la realtà del dopo.
Ma rompe il silenzio il rumore
secco, l’incontro frizzante, il ritorno
cancella i tristi pensieri, riporta
festa di suoni che illumina il mondo.
A mostrare come la sofferenza
ne disegnasse le spine e si
costruisce la nera rosa
e la vile orchidea.
Come ingannassimo noi stessi
nelle strade urlanti
o pietà ci ancorasse all’indolenza.
Ma la luce cade su giocattoli,
decorazioni, bandiere, ornamenti d’orgoglio
e di pazzia; cartelle
di generali, poesie, canzoni, libelli
d’invidia e di calunnia, gesta, dinieghi,
fiori, nastri, avvolti nella nebbia.
E da questa distanza geometrica
ma umana, esso è, per un momento integro;
per un momento chiaro
è il nostro amore.
Non è l’astrazione, né l’etica,
né quella sensazione di potenza che
riduce a tristi oggetti le cose;
ma intimità con umanità
nella sua interezza, ruota infuocata.
A questo meridiano ci dimentichiamo di noi e così facendo, ogni altra cosa
Possiamo perdonare; al culmine del suo aureo ascendere un pellicano,
roseato nella cruda luce,
trova il suo punto fermo e il sole
nato dalla roccia, cominciò l’irradiazione;
nutrivano il mondo, nuovamente rivelato,
anonimi favori e consolazioni.
Colpì di nuovo il deserto, il prato, la scogliera
con dardi infuocati, con balsami.
Il mattino era turgido di promesse,
la sera, da un polo all’altro, palma d’oro.
Luci impazzite, membra contorte,
e da quell’altezza, uniti, raccolti, avvolti
lo scotch si distacca; dolore, colpa
per un momento cessarono.
Tutte le linee tratte per tanto tempo
accompagnarono l’occhio.
Il luogo cambiò; i rapporti che avevamo sognato
si distesero,
inclusero città prima sconosciute.
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Inviato da: diletta.castelli
il 23/10/2016 alle 14:05