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Le poesie di B.Z.

Post n°6 pubblicato il 07 Settembre 2016 da ilblogdibruzu
 

POESIE DI B.Z:

n.1   PELLICANO 70


Pellicano 70

 

Cedro del Libano, polveroso, vetusto,

pieno di voci giovanili

acute, ribelli e docili;

antri oscuri e umidi,

mura di conventi, sconnessi

e dissacrati, urlate!

Avete visto. Amore scintillante,

come città sorta dinnanzi alla mente,

non di cielo, ma di terra.

Torri bianche splendenti nel deserto

Amore di minerale puro.

Pensiero assoluto e cristallino.

Non suono né ombra.

Solo le lancette dell’orologio

che segnano l’ora fissata.

E’ mezzogiorno. Ora, per sempre.

Le lancette si mossero assieme

segnando diritto, in alto.

Il sole sta immoto sul capo.

Amore inevitabile

dove in un punto interno

s’ode un battito, al centro segreto,

l’oggetto, l’elemento  blu ghiaccio

che arde nella sua sabbia,

il meccanismo fremente, disposto

in attesa del nostro passo umano.

Penso lontani e possenti trasporti

infiammabili, mentre i lunghi acquedotti percorrono la campagna

e il ronzio delle macchine

sfrega contro l’asfalto la gomma

che calpesta  di nuovo, ritorna.

Antichi fabbricati scossi dalle vibrazioni.

E’ il ritmo dell’amore, inarrestabile

che avanza; non nel mistero spurio

della stanza chiusa e dello

specchio debole, no, non là.

Amore non abbozzato, ma

prima d’ora mai immaginato.

Incontri, speranze, attese,

campagne opulente coperte, ovattate

e lei, scolpita in verdissimo diaspro,

giada o smeraldo.

Dentro al sarcofago

divoro con la bocca crudele 

la bianca carne profumata,

come dentro la basilica.

Come argento offuscato,

dove un ragazzino sforza gli occhi

contro una finestra, nel crepuscolo.

Su vite turpi cade grigia pioggia.

Ascolta: la palpitazione del tuo cuore

fa vibrare la camera annebbiata.

Puoi quasi toccarlo, il suo fragile respiro

dinnanzi a te sul vetro, tendi la mano

a scrivere il suo nome e senti,

sulla punta del dito

il freddo paralizzante fra tè

e la realtà del dopo.

Ma rompe il silenzio il rumore

secco, l’incontro frizzante, il ritorno

cancella i tristi pensieri, riporta

festa di suoni che illumina il mondo.

A mostrare come la sofferenza

ne disegnasse le spine e si

costruisce la nera rosa

e la vile orchidea.

Come ingannassimo noi stessi

nelle strade urlanti

o pietà ci ancorasse all’indolenza.

Ma la luce cade su giocattoli,

decorazioni, bandiere, ornamenti d’orgoglio

e di pazzia; cartelle

di generali, poesie, canzoni, libelli

d’invidia e di calunnia, gesta, dinieghi,

fiori, nastri, avvolti nella nebbia.

E da questa distanza geometrica

ma umana, esso è, per un momento integro;

 per un momento chiaro

è il nostro amore.

Non è l’astrazione, né l’etica,

né quella sensazione di potenza che

riduce a tristi oggetti le cose;

ma intimità con umanità

nella sua interezza, ruota infuocata.

A questo meridiano ci dimentichiamo di noi e così facendo, ogni altra cosa

Possiamo perdonare; al culmine del suo aureo ascendere un pellicano,

roseato nella cruda luce,

trova il suo punto fermo e il sole

nato dalla roccia, cominciò l’irradiazione;

nutrivano il mondo, nuovamente rivelato,

anonimi favori e consolazioni.

Colpì di nuovo il deserto, il prato, la scogliera

con dardi infuocati, con balsami.

Il mattino era turgido di promesse,

la sera, da un polo all’altro, palma d’oro.

Luci impazzite, membra contorte,

e da quell’altezza, uniti, raccolti, avvolti

lo scotch si distacca; dolore, colpa

per un momento cessarono.

Tutte le linee tratte per tanto tempo

accompagnarono l’occhio.

Il luogo cambiò; i rapporti che avevamo sognato

si distesero,

inclusero città prima sconosciute.

 

 

 
 
 
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