Creato da counselor63 il 27/03/2008

LOGOS

Proviamo a comunicare, condividere, criticare per costruire, confrontarci, ascoltarci, relazionarci. Proviamo a crescere oltre i nostri confini.

 

 

COMPORTAMENTO E VANTAGGIO SECONDARIO 

Post n°4 pubblicato il 02 Giugno 2008 da counselor63
Foto di counselor63

Sono convinto che ogni nostro comportamento, anche quello meno desiderato e considerato da noi quindi negativo, nasconde in realtà un vantaggio secondario che è il propulsore di quello stesso comportamento.

Mi spiego meglio. Sarà capitato sicuramente a qualcuno di noi almeno una volta nella vita di trovarci in una situazione nella quale abbiamo percepito la sensazione di non avere nessuna possibilità di scelta, come fosse un comportamento coatto, obbligato, che preferiremmo sostituire con qualcos’altro; oppure trovarci nella condizione di voler fare qualcosa che non riusciamo a fare, qualcosa che vorremmo fare ma ci viene impedito da qualcos’altro.

In una delle probabili condizioni su indicate è fuori dubbio che dentro di noi vige un conflitto tra i nostri desideri consci e la struttura di quelli inconsci.

Mentre avvertiamo consciamente le sensazioni spiacevoli di un nostro comportamento indesiderato, ritenuto da noi non soddisfacente per la nostra persona quali organismi totali adulti, contestualmente cerchiamo di motivare razionalmente quello che facciamo, tralasciando un aspetto molto importante, quello relativo alla nostra parte inconscia. L’inconscio è molto più potente della coscienza e dei nostri veri bisogni ne sa molto di più della coscienza stessa.

Eppure, anche laddove questo concetto sia considerato vero, nel momento in cui l’inconscio cerca di comunicare con la nostra parte cosciente attraverso un suo “linguaggio” ben definito non siamo quasi mai preparati e pronti a riconoscerlo. Abbiamo detto che in ognuno di noi,  “lui”, ne sa molto più della parte cosciente e di quello che desidereremmo nel nostro intimo più profondo, per cui diventa sempre più evidente che intende comunicare con la nostra parte conscia. Ok, ma in che  modo?

E se dicessi che lo fa proprio spingendoci a fare quello che non vorremmo fare, oppure a non fare quello che vorremmo fare, creandoci non pochi problemi, “incasinandoci” la vita?

Non è facile pensarlo, vero? Potrei aggiungere che questo “suo” modo di spingerci a fare o non fare, è come se volesse attirare la nostra attenzione su alcuni aspetti importanti del nostro vissuto ai quali noi generalmente non facciamo riferimento consciamente. Allora se il modo di funzionare dell’inconscio è anche quello di spingerci obbligatoriamente a creare comportamenti indesiderati, quale potrebbe essere lo scopo finale che lo stesso inconscio si prefigge? Forse, se non ci limitassimo solo a considerare il comportamento indesiderato quale fastidio e cominciassimo a chiederci cosa si nasconde dietro ad esso, probabilmente scopriremmo che c’è una parte di noi con la quale dovremmo instaurare un “dialogo”, un rapporto di rispetto e collaborazione.

È come se ci fossero più parti di noi che non affiorano alla coscienza ma che in qualche modo ci governano.  

Immagino inoltre che qualcuno stia già pensando: cosa vuol dire parti che non affiorano alla coscienza e che ci governano e con le quali dobbiamo instaurare un dialogo ed una collaborazione? 

Sono dell’avviso, in particolare per chi è molto logico e razionale, che non sia facile da pensare consciamente e che forse sia addirittura considerato ridicolo quello che sto per dire, ma in noi possono coesistere diverse parti di cui non siamo coscienti ma che in qualche modo hanno la funzione di prendersi cura di noi, facendoci fare appunto anche cose che non vorremmo fare.

Potrei a questo punto esasperare il concetto con questo esempio: immaginiamo una bella donna, con una silhouette armoniosa e magra. Nel tempo i rapporti con il suo partner cominciano a vacillare e la coppia non vive più l’intesa e la complicità che viveva quando si erano conosciuti. La donna ha anche avuto un’educazione molto rigida ed ha sviluppato delle convinzioni dentro di sé che le dicono che l’uomo con il quale vive dovrà essere quello per tutta la vita e poi, ci sono anche i figli e per lei, loro sono comunque da proteggere. Quindi diventa impossibile per questa donna immaginare di crearsi una nuova relazione di coppia e tutto questo sviluppa nel suo sistema psichico un turbamento emotivo. Comincia a vivere malamente sia il rapporto con il partner che con i figli e nelle relazioni interpersonali in generale, ma soprattutto con se stessa. Ma la donna ha l’esigenza di appagare ugualmente un bisogno emotivo che si agita dentro di sé e lo fa generando un nuovo comportamento che in questo esempio, possiamo immaginare che trovi sfogo nel canale dell’alimentazione. Il suo modo di alimentarsi cambia e lei comincia anche a cambiare le misure del suo corpo, trasformando la sua silhouette armoniosa in una forma corporea più evidente ma non invitante. Lei è consapevole che quel corpo non le appartiene, non lo vuole, ed entra in conflitto ulteriormente con se stessa, come se ci fosse qualcosa dentro di lei che le dicesse: “guarda che corpo che hai creato! Devi smettere di mangiare nel modo come lo fai!” Ma nonostante tenti qualsiasi intervento, anche le diete mediche controllate, non riesce a tornare come prima. Anzi, diciamo che aumenta il suo stato di stress psicofisico. Dimagrisce ma poi riprende peso. Non riesce a capire perché, lei che ci teneva molto alla sua silhouette armoniosa e magra, vive ora una situazione antipatica e stressante. Ora la donna anche se cosciente del degrado in cui verte il suo fisico, si trova in una situazione dove avverte un grado eccessivo di insoddisfazione, a cui cerca di dare razionalmente diverse motivazioni. In qualche modo crea “etichette” che possano dare luogo a risposte razionali. Comincia a fare obiettivi della sua insoddisfazione qualcosa o qualcun altri. Deve in qualche modo giustificare a se stessa (e forse ad altri) razionalmente, quale donna adulta e consapevole delle proprie azioni e capacità, la sua insoddisfazione psicofisicaemotiva .

Valutando il quadro descritto sopra, non mi meraviglierei di scoprire ad esempio che il vantaggio secondario del suo comportamento indesiderato (alimentazione scorretta) sia quello di proteggerla dall’eventualità di crearsi un nuovo rapporto di coppia che a questo punto, potrebbe rivelarsi come una libertà eccessiva e quindi trasgressiva. Una libertà che le viene invece vietata dalla “sentinella” che risiede nel suo inconscio e che le dice che se dovesse continuare ad essere una bella donna apprezzabile fisicamente, potrebbe essere oggetto di attenzioni per l’altro sesso, spingendola appunto a trasgredire. Ma questo lei non se lo può permettere perché il suo senso del dovere la impone di mettere in evidenza (eccessivamente) la sua famiglia, i suoi figli ed il marito (…un uomo è per sempre a qualunque costo…..). Queste sono le regole alle quali risponde ora la donna e che le sono state indotte, prima  attraverso vincoli sociali e successivamente sono diventate la base del vincolo individuale che si è creata e al quale crede profondamente dentro di sé, divenendo il riferimento inconscio che la spinge ora verso una direzione piuttosto che nell’altra.

 

Ecco quindi che ritorna prepotentemente la necessità di instaurare un dialogo con la parte o le parti  responsabili del comportamento ritenuto indesiderato dalla persona stessa, affinché si possa creare un vero e proprio rapporto di collaborazione tra la coscienza e l’inconscio. Questo passaggio è essenziale in quanto getterà le basi per elaborare nuove alternative di comportamento, che possano compensare, se non soddisfare al meglio, la funzione che la parte responsabile del comportamento indesiderato tentava di assolvere dietro la sua spinta emotiva, inducendo il soggetto a fare o non fare una determinata cosa.

 

In questo articolo ho voluto enfatizzare(1) il concetto di “vantaggio secondario” con l’esempio di un racconto immaginario, che prende comunque spunto da possibili situazioni che si potrebbero riscontrare nella vita reale. Invito però ad evitare di attribuire quanto da me descritto in questo articolo a proprie situazioni personali, le quali necessitano sempre ognuna di una valutazione frontale ed individuale.

In questo spazio mi interessa solo muovere alcuni argomenti che possono essere oggetto di riflessione e discussione tra gli utenti del blog.

Grazie.

 

Massimo Catalucci

                                                                                                

(1)enfatizzare: mettere in evidenza, in risalto con la parola.

 

 
 
 

IL POTERE DECISIONALE

Post n°3 pubblicato il 10 Aprile 2008 da counselor63
Foto di counselor63

Giorni fa, riflettevo su come troppo spesso rimandiamo le decisioni da prendere in merito ad una qualsiasi cosa da fare. Il proverbio "non rimandare a domani quello che potresti fare oggi", è in qualche modo significativo. Sono convinto che rimandare a domani  il da farsi, nella maggior parte dei casi, diventa improduttivo per la nostra soddisfazione psicofisica. Proviamo a fare un piccolo esperimento. Facciamo un passo indietro nei nostri ricordi più vividi. Proviamo a vedere se anche noi in passato abbiamo rimandato qualcosa alla quale poi non abbiamo mai dato seguito. Qualcosa accaduta 5, o 10 anni fa. Torniamo per un attimo indietro nel tempo, a quel momento della nostra vita in cui c’è rimasto impresso un episodio particolare che ha avuto risonanza in tutto il mondo. Un evento che ha fatto scalpore, come quelli da prima pagina del telegiornale. Potrebbe essere d’interesse sociale, oppure un episodio che ha visto coinvolto, magari, un personaggio molto noto, dello spettacolo ad esempio. Potrebbe essere stato un evento molto serio, oppure simpatico, divertente. Non ha importanza di cosa.

L’importante è che si riferisca ad un momento della nostra vita che ricordiamo bene. Un evento che si è fissato nella nostra mente. A questo punto non dovremmo trovare difficoltà nell’associare a quell’evento, tutto ciò che faceva parte del nostro modo di essere, di pensare, di muoverci, di vestire, di avere emozioni ed aspettative per il futuro. Una volta che abbiamo recuperato quel momento specifico, cerchiamo di ricordare in sequenza alcuni aspetti della nostra vita personale quotidiana e domandiamoci: “Quanti anni potevo avere? In quale contesto mi trovavo? Cosa stavo facendo e come ero vestito? Agivo in modo timido, attivo, passivo, triste, sorridente, ecc.? Come mi relazionavo davanti al sorgere di un qualsiasi problema? Avevo dei sogni a cui aspiravo?” Se riusciamo in questo esercizio di recupero delle emozioni e sensazioni legate al ricordo di quel periodo specifico, riusciremo anche a definire se quello che facevamo, pensavamo, all’epoca, è divenuto oggi realtà concreta oppure no . Potremo renderci conto se, quello che abbiamo ottenuto, rispecchia veramente quello che ci eravamo prefissati di ottenere o che desideravamo ottenere, se abbiamo raggiunto i nostri obiettivi. Nel momento di prendere decisioni, cinque, dieci, quindici anni, sembrano molti. Nella maggior parte dei casi però, trascorsi questi periodi, sentiamo persone che dicono: “Mi sembra ieri, quando facevo questa o quella cosa e desideravo in un futuro ottenere questo o quell’altro…. ed ora invece eccomi qui che mi ritrovo più vecchio di quindici anni, a pensarla allo stesso modo, a fare sempre le stesse cose, con un fisico che non mi piace e senza aver ottenuto ciò che desideravo.” Solo a questo punto ci rendiamo conto di come gli anni passano in fretta e magari siamo lì ora a piangerci addosso nel ricordare quello che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto, oppure quello che desideravamo e non abbiamo ottenuto, così, come ce lo eravamo disegnati. A questo punto tornare indietro non è possibile per cambiare ciò che abbiamo prodotto, ma valutare cosa abbiamo fatto, o cosa non abbiamo fatto per ottenere il risultato a cui ambivamo, diventa importante per cominciare da ora a produrre domande specifiche, mirate alla stimolazione di risposte positive, che sono il carburante necessario per una maggiore spinta motivazionale verso il raggiungimento dei nostri desideri. Dei nostri obiettivi. Forse, essere degli “ascoltatori attivi” del nostro passato, ci pone nella condizione di imparare una lezione importante per la nostra vita. Ci induce a pensare, a valutare, con spirito creativo e costruttivo ciò che abbiamo fatto. Ci suggerisce di guardare al futuro con occhi diversi. Ci svela le domande propositive e positive che ci aiutano a raggiungere ciò che desideriamo veramente raggiungere. In qualsiasi campo, affettivo, sociale, professionale, scolastico, ecc. ecc. . Se siamo veramente pronti ad ascoltarci in modo attivo, probabilmente cominceremo a porci domande diverse da quelle che ci siamo posti in passato. Potremmo ad esempio chiederci: “Come vivrò i miei prossimi dieci anni?; Cosa intendo fare oggi per costruire il mio domani, verso il quale sono proiettato?; Conosco qualcuno che fa, o che ha, quello che desidero fare o che desidero avere anche io? In che modo lo fa ed in che modo lo possiede? Per cosa sono disposto a battermi da qui in avanti?; Che cosa è veramente importante per me in questo momento e che cosa sarà importante per me a lungo termine?; Cosa posso fare di costruttivo oggi, per influenzare positivamente il mio futuro? Le scelte che farò per arrivare al mio obiettivo, creeranno delle conflittualità interne dentro di me ed in relazione con gli altri?” Credo che queste e tante altre domande simili ci possono aiutare a gettare le basi solide dove costruire ciò che non siamo stati capaci in passato di realizzare.

Una cosa è certa. Domani, da qualche parte saremo arrivati. Il problema è : “Dove?; Chi saremo diventati? Come vivremo? Cosa avremo fatto?” Forse è arrivato ora il momento di fare queste considerazioni!!! Cosa accadrebbe se facessimo adesso i piani per i prossimi nostri dieci anni, non quando saranno passati? Concludendo questo mio messaggio, vorrei congedarmi da voi invitandovi a partecipare con i Vostri graditi commenti. Ciò sarebbe molto interessante. Che ne pensate?

 
 
 

LE FOBIE: “Dove finisce la paura ed inizia la fobia?”

Post n°2 pubblicato il 27 Marzo 2008 da counselor63
Foto di counselor63

di Massimo Catalucci

Iniziamo subito con il chiederci: cosa è una fobia?
Potremmo dire che è il risultato (risposta) finale di qualcosa che abbiamo vissuto precedentemente e che pensiamo consciamente di aver dimenticato, anche solo perché non la ricordiamo, o ancora, perché siamo convinti che non sia mai accaduto un evento che possa essere all’origine di quello che proviamo con la fobia e che quindi, le cause della stessa debbano essere ricercate in qualche altra cosa, ovvero, crediamo di essere sicuri che sia oggettivamente qualcosa o qualcuno di specifico a crearci la sofferenza, magari l’elemento stesso della fobia.
Ma potremmo definire la fobia una paura? Certamente! Solo che la fobia è una “paura incontrollabile” razionalmente. Mentre la paura possiamo definirla un elemento necessario alla sopravvivenza dell’uomo, la fobia diventa un ostacolo nell’esistenza umana. Diremo altresì che la paura può essere definita come elemento fisiologico dell’essere umano, è un sensore che lo avverte di un pericolo e di conseguenza gli fa prendere coscienza dell’azione da effettuare: “evitare” o “affrontare” la situazione che gli si è proposta. Se la paura è conforme al sistema di base del soggetto, ossia, quest’utlimo reagisce ad un pericolo in modo istintivo di allerta in riferimento all’oggettività del pericolo stesso, ciò è ordinario. Nel caso in cui invece, il soggetto reagisca in forma alterata (incontrollabile) ad un pericolo oggettivamente inesistente per la maggior parte delle persone che si trovano nello stesso contesto, significa che è in atto un processo percettivo alterato nel soggetto che sta accusando la paura. In questo caso potremmo parlare di fobia. Questo è solo un esempio per spiegare la differenza tra una paura ordinaria ed una straordinaria (fobia).
Personalmente mi è capitato di aiutare persone che avevano diversi tipi di fobie, da quella claustrofobica, a quella di volare o dell’altezza, a quelle relative agli animali (zoofobia; aracnofobia), alle fobie sociali, alla paura delle malattie (nosofobia), fino a quelle relative agli eventi naturali (es. eventi atmosferici: temporali).
In tutti i soggetti fobici, mi sono reso conto che si innesca un processo simile l’uno all’altro, con caratteristiche che vanno dal sudore alle mani, a brividi di caldo/freddo, ai capogiri, mentre la bocca è asciutta ed il cuore batte con una frequenza più veloce. Anche la respirazione può diventare più difficile così come la stabilità sulle gambe che potrebbero bloccarsi o tremare.
Ma cosa accade da un punto di vista del processo mentale nell’individuo nel momento dell’evento scatenante, per cui lo stesso non riesce a dominarsi?
Potremmo dire in primo luogo che l’emisfero destro (emotivo) del cervello prende il sopravvento a quello sinistro (logico), mandando impulsi al sistema nervoso periferico (sistema vegetativo simpatico e parasimpatico) il quale, potremmo dire che interpreta tali messaggi come stimolo di difesa, innescando un processo di atti involontari di alcuni organi.
Sappiamo che lo “SNC” (Sistema Nervoso Centrale), collocato nel cervello e nel midollo spinale, utilizza una rete di nervi periferici che terminano con i percettori sensoriali. I percettori sensoriali catturano le informazioni che vengono inviate allo “SNC”, il quale le elabora e invia il comportamento da effettuare ai nervi motori che azionano gli organi ed i muscoli.
L’essere umano impara tutto ciò che conosce a livello teorico (logico), ma impara molto di più a livello pratico (emotivo) dalle esperienze dirette e personali che fanno parte del suo vissuto.
Nella condizione di una fobia, potremmo quindi dire che in passato il soggetto, ha percepito un evento attraverso tutto se stesso, per mezzo dei suoi organi di senso: Vista, Udito, Gusto, Olfatto e Tatto.
Attraverso questi organi sensoriali ha inconsciamente fissato un momento significativo emotivamente, del suo vissuto, codificandolo con un riferimento ben specifico. Successivamente ogni qualvolta questo codice viene richiamato o meglio stimolato nella stessa modalità con la quale si è creato, scatta il programma nervoso ad esso associato: la fobia.
Personalmente non mi occupo del perché una persona è fobica, compito che è da riservare a coloro che hanno l’autorità per svolgere questo tipo di ricerca e che potremmo attribuire alla psicanalisied alla psicoterapia, ma piuttosto mi preoccupo di capire come, la persona entra in crisi (fobia) e come riesce a mantenerla. Per cui la valutazione che faccio è quella di capire quali sono le percezioni che la persona individua/avverte nel momento in cui in passato, ha avuto un attacco fobico, oppure ancora, cercando di farle spiegare da un punto di vista “rappresentazionale” emotivo, cosa accade nel momento in cui parliamo della sua fobia nel presente.
Nel dialogo con la persona fobica, scopro ben presto che la fobia gli si presenta generalmente come una descrizione soggettiva interna/esterna correlata di immagini, colori, suoni, rumori, profumazioni, pressioni, temperature, movimenti e chi più ne ha più ne metta, che potremmo definire rappresentazioni delle modalità e sotto modalità Visive (V), Auditive(A) e Cinestesiche(K).
Il soggetto è sicuramente legato all’evento fobico, attraverso una serie di rappresentazioni interne specifiche. Individuarle in modo dettagliato mi offre l’opportunità di far immaginare al mio interlocutore cosa accadrebbe se quel “film” (processo personale rappresentativo interno/esterno), assumesse delle modalità e sottomodalità Visive (V), Auditive(A) e Cinestesiche(K), diverse da quelle che sono in atto nel processo mentale nel momento in cui vive la fobia.
A questo punto se avrò raccolto bene le informazioni necessarie dal mio interlocutore nelle sue rappresentazioni interne/esterne, su indicate, sarò in grado di fornirgli le sue stesse risorse in modo tale da permettergli di associare all’evento fobico, una sensazione diversa che in qualche modo interromperà il processo precedente vissuto come sofferenza. La caratteristica più evidente in questi casi è la scomparsa del sintomo che accusava il soggetto quando si trovava o si trova coinvolto nell’evento fobico.
In questo caso potremmo dire che le risorse necessarie per il superamento di una fobia, sono innanzitutto già radicate all’interno dell’individuo stesso e che, l’operatore è come un bravo chef che sa quali ingredienti gli servono, nella quantità e qualità, ma anche in che ordine devono essere preparati, affinché il suo cliente si possa gustare alla fine un buon “piatto”.
Solitamente provo il risultato ottenuto. Naturalmente sarà molto più facile farlo dopo il trattamento di una claustrofobia, ad esempio. Infatti non sarà difficile trovare uno sgabuzzino, o ascensore, nel quale si chiede alla persona trattata di provare a chiudersi dentro da sola per vedere cosa succede in lei, da un punto di vista delle sensazioni associate alla fobia stessa. Un po’ più difficile sarà prendere in considerazione una fobia al topo o al ragno se questi è l’elemento scatenante della fobia.
Ripeto che da un punto di vista delle fobie, non ricerco il perché si sia scatenata la paura incontrollabile, ma mi limito a capire cosa la persona provi in quel momento specifico, aiutandola a superare la sensazione spiacevole che ne ricava dall’esperienza reale(1) o immaginaria(2). Considerando comunque la fobia come una limitazione della vita sociale di un individuo, credo che alleggerirlo di qualcosa che gli impedisce di vivere la sua esistenza in modo più piacevole, sia comunque un risultato ottimo. Sono anche convinto che il soggetto ne guadagna da un punto dell’autostima, sentendosi in grado di aver superato un ostacolo che pensava di non poter superare, apprezzando contestualmente molto di più altri aspetti della vita che poteva invece precludersi.

(1) Reale: nel momento in cui si trova oggettivamente davanti al problema; ovvero realmente davanti all’oggetto o l’evento scatenanti la fobia.
(2) Immaginaria: nel momento in cui si trova solo a pensare di avere davanti a sé il problema: ovvero, senza che vi siano i presupposti oggettivamente rilevabili.

 
 
 

LA PERDITA DI VALORI NEI DISAGI GIOVANILI

Post n°1 pubblicato il 27 Marzo 2008 da counselor63
Foto di counselor63

di Massimo Catalucci

Oramai è una costante quotidiana quella di ascoltare notizie e/o vedere immagini raccapriccianti, oggetti di grandi disagi emotivi vissuti dai nostri ragazzi. E' dilagante, troppo direi, l'atteggiamento mostrato dai giovani nei diversi contesti nei quali si trovano. E' maledettamente vero che c'è necessità di un cambiamento di rotta in merito ad una educazione nei valori degli adolescenti. Ma qual è la rotta da prendere? La famiglia è sicuramente la prima comunità ad essere chiamata in causa. E' il pilastro portante (laddove esista) di una formazione della personalità di ogni individuo. I genitori sono nel bene e nel male il primo esempio da seguire. Certo che essendo stati anch'essi giovani, a loro volta avranno probabilmente assimilato (emotivamente) esempi che in qualche modo hanno poi elaborato e che sono diventate successivamente il loro modo di essere (comportamento): disponibili o assenti, presenti o asfissianti, autoritari o amichevoli, permissivi o limitativi, silenziosi o logorroici .......... potrei continuare all'infinito con una serie di descrizioni di comportamenti manifestati dai nostri genitori (o da noi stessi, indicando chi è tra di noi già genitore). Molte volte mi chiedo anche: ma i genitori, non sono forse dei figli in qualche modo cresciuti che rispondono alle proprie esperienze con un comportamento che si è plasmato nel tempo? Credo proprio di si! Ora immagino che la riflessione in merito a quest’ultima mia affermazione ci faccia dire che siamo si, stati tutti figli prima di diventare genitori, ma probabilmente come figli abbiamo avuto un’educazione basata sulla trasmissione dei valori ed in particolare sull’educazione volta ad insegnare che una cosa devi conquistartela con sacrifici e responsabilità. Cosa che invece oggi sembrerebbe non essere applicata dalla maggior parte degli adulti nei confronti dei propri figli. E qui potremmo stare a discutere infinitamente sul perché e come mai non viene applicato oggi il concetto educativo di quando ci trovavamo ad essere figli. Credo altresì che un’evoluzione, permettetemi il termine, della “professione di genitore”, imponga anche la necessità di sviluppare una modalità comunicativa diversa rispetto a ieri, anche quando si parla di trasmettere valori. Un altro aspetto da considerare poi è quello di accettare che i contesti oggi sono cambiati, per cui è indispensabile adeguarsi ai tempi ad un modello comunicativo più penetrante e coinvolgente, al fine di essere compresi dai giovani. Ciò non prevale il fatto che si debba intervenire comunque decisamente sui giovani con polso fermo ma, fa valutare anche la possibilità di adoperarsi con l'elasticità mentale di chi desidera veramente comprendere i messaggi di disagio che gli stessi giovani ci manifestano attraverso i loro comportamenti (sicuramente) inadeguati per una società che intende creare i presupposti di un miglioramento della qualità della vita. Credo anche in merito a questa riflessione che le responsabilità debbano essere divise in tutti noi che facciamo parte della società stessa in cui viviamo. Se è vero che il genitore ha la prima responsabilità di educazione attraverso e soprattutto l’esempio vivente e costante, è vero anche che la scuola, lo sport, i luoghi di divertimento, le amicizie, e tutte le altre situazioni quotidiane nelle quali un giovane può capitare, si facciano carico anch'esse di una responsabilità nella qualità di crescita del giovane stesso. Sicuramente sono d'accordo con chi dice che un genitore deve essere il genitore non l'amico di fiducia del proprio figlio. E' giusto che il migliore amico di un ragazzo sia un suo coetaneo. Venendo meno questo principio si rischia di non dare un punto di riferimento valido al ragazzo sul quale lo stesso possa poggiarsi nel momento in cui cerca la sicurezza e la certezza in una risposta. L’argomento che è stato mosso in questo Blog è interessante ma anche complesso e vasto per cui sarebbe importante svilupparlo maggiormente. Buona giornata a tutti.

 
 
 
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