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LO SVILUPPO OBESO

Post n°24 pubblicato il 29 Aprile 2010 da Antonio.Bianchessi
 

 

   Fino agli anni 60, quando mi iscrissi all’Università, per chi come me aveva fatto il Liceo Scientifico non c’erano molte scelte. Escluso il Politecnico, per il quale ero decisamente negato, mi si aprivano due strade: gli studi umanistici o quelli economici. Entrambe mi si presentavano come soluzioni di ripiego. Per Lettere e Filosofia ci voleva il diploma di maturità classica e dunque mi si offriva soltanto la possibilità di Magistero. La facoltà di Economia e Commercio mi appariva invece come un perfezionamento degli studi di ragioneria: una disciplina onesta ma poco fantasiosa. Optai per Pedagogia, che era quanto mi si offriva di più vicino agli studi filosofici. Così inconsapevolmente m’indirizzai verso quanto di meglio c’era e forse c’è ancora per una fantasia incline all’umorismo.

  Ricordo queste cose per evidenziare con semplicità che non era ancora cominciata qui da noi l’epoca d’oro dei bocconiani e ci si guardava bene, nella opinione e cultura di quei tempi, dall’assegnare all’economia un ruolo dominante come accadde poi nei decenni successivi.

  La pedagogia ha ricevuto in seguito una sorta di sovradeterminazione, tanto da essere ritenuta capace di abolire la differenza tra i geni ed i somari, invocata a torto e dismisura per annullare gli uni e gli altri nella più democratica e moderna educazione di massa. Ma non è della farina del mio sacco che oggi vorrei parlare.

  Dirò invece di quella incoronazione dei ragionieri, che ha trasformato le banche in atenei ed ha elevato la scienza del calcolo a regola aurea del nostro vivere civile. Per carità, niente contro il calcolo. E nemmeno contro i ragionieri, ingiustamente vilipesi da Fantozzi. Ma il guaio è che a parte i profeti del poi, morire che si trovi un economista capace di predire qualcosa del futuro. Più facile incontrare un sismologo che inventi un macinino per studiare i terremoti. E dunque non posso che approvare il ministro Tremonti quando dice che della crisi attuale non si è dato un solo economista, nemmeno tra i laureati dall’accademia svedese, che l’abbia per tempo indovinata.

  Il guaio di tale constatazione è che i politici, dopo avere addotto l’economia a giustificazione delle loro imprese, adesso strillano che la politica deve riprendere il suo ruolo, per altro mai abbandonato, e relegare finalmente i ragionieri a mezzemaniche comuni.

  Ovviamente si tratta soltanto di slogan. E dietro la vanità delle parole è facile vedere l’assenza delle idee, il vuoto dei programmi e spesso la disonestà delle intenzioni: vale per i politici, per i banchieri e, più in generale, per il nostro modo di vivere, che continua, bilanci personali permettendo, ad essere dissestato come prima.

  L’obesità, cui si fa riferimento nel titolo, può essere utilmente usata come metafora del nostro modello di sviluppo. Gli americani, qualche decennio addietro, superati i trent’anni erano già ciccioni. Noi europei siamo venuti a ruota e oramai da qualche anno nelle scuole di mezzo mondo s’insegnano i principi di una dieta equilibrata. E’ il solito comunissimo principio dell’educazione come panacea di tutti i mali. Con quale successo basta guardarsi attorno per sapere.

   Uno sviluppo obeso è qualcosa del genere. Giorno dopo giorno ci si riempie di oggetti inutili, ai quali non sappiamo rinunciare. E contri i quali si susseguono numerosi quanto inutili proclami. E’ il nostro merceologico fast food quotidiano: oggetti simbolo di status, che distorcono i bisogni naturali e li illudono con stimoli artificiali. Sulle contraddizioni nemmeno val la pena interrogarsi, come i fuori strada per lo shopping di signore o i cellulari per restare sempre collegati con il nulla che ci abita.

  Nella foresta delle vanità, l’ipocrisia è il nostro principio guida. E quando il dubbio c’impedisce una corretta digestione, il politico o il Fantozzi di turno ci ricordano che gli idoli del consumo servono a mantenere viva la catena del lavoro umano, il progresso dei popoli e il benessere delle nazioni. E’ un moloch che non si presenta nelle forme mostruose di epoche lontane, ma non per questo è meno vorace.

   Poi arriva la crisi e tutti dicono: il bambino scoppia di salute. E scoppia per davvero, accidenti. È il malessere, direbbe un bizantino, del nostro benessere. Ma i bizantini, si sa, son maestri d’ossimori.

  Immaginiamo allora, per restare con i piedi a terra, una famiglia ideale e rendiamo il dovuto onore alla moglie di Fantozzi: sì, proprio quella poverella, incaricata di tenere per davvero il bilancio e di mettere una pezza alle ossessive stravaganze del marito. Una mogliettina così, per quanto obnubilata dalla disgrazia di una figlia mostruosa, saprebbe forse come rimediare ai nostri dietetici problemi.

  “Dopotutto magri si sta bene” direbbe trasognata. Ma vallo a spiegare a quella testa dura di un marito che se pensasse di più alla famiglia e meno ai suoi fantasmi, erotici o sportivi, le cose andrebbero meglio per tutti.

  Sanità, scuole, infrastrutture, biologico, ambiente: da quanto tempo quella donnetta segaligna ci ricorda i cosiddetti fondamentali di uno sviluppo equilibrato… Serve a qualcosa? C’è forse un politico o una consulta di banchieri che abbia saputo tradurre tali indicazioni, al di là della formula generica, in un programma degno di questo nome, articolato in tempi obiettivi e risorse, tale cioè da potersi declinare, come piace dire a questi esperti, in una serie verificabile di azioni e comportamenti sociali?

  Prendete la Grecia. Pensate che tra i vincoli del prestito ci sarà quello di ridurre le diseguaglianze? O di impegnarsi in uno sviluppo ecologicamente compatibile? O… Vabbé, ognuno aggiunga a piacimento gli obiettivi d’interesse comune che ritiene prioritari. Non è la lista che manca ai nostri eroi, ma la capacità di riempirla di contenuti. Altro che problemi di comunicazione!

Sì forse abbiamo bisogno di alimentaristi. O fisioterapisti. E di una folla di trainer qualificati. Per combattere il nostro sviluppo obeso. Altrimenti, e lo sappiamo tutti, l’infarto o l’ictus sono dietro l’angolo. E non è dopodomani e nemmeno domani che si potrà porre rimedio: oggi, Stati Uniti e Europa insegnano, rischia di essere troppo tardi.

  Ma potrebbe anche darsi, e lo dico per consolare gli utopisti, che a una società demente o costretta su sedie a rotelle, faccia da contrappeso un popolo giovane, con gli occhi accesi e una fame atavica.

  Chissà, forse la nostra civiltà sarà salvata dai cannibali.

  Dopo, secondo quanto è sempre accaduto e come è giusto, se di giustizia non siamo capaci, averla  ben bene inghiottita.  

 

 

 
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ELISA CLAPS E IL SILENZIO DEI CATTOLICI

Post n°23 pubblicato il 23 Marzo 2010 da Antonio.Bianchessi
 

 

 

Si parla spesso del silenzio della Chiesa e quasi sempre per Chiesa s’intende la gerarchia ecclesiastica. E i fedeli? Forse si dimentica che lo Spirito Santo  è sceso anche su di loro. Sollecitato dai fatti dolorosi che chiamano in causa responsabilità collettive, il razzismo la pedofilia le varie forme di corruzione e mafia, ognuno deve farsi carico delle proprie colpe: la gerarchia come gerarchia e i fedeli in quanto fedeli. Così, senza nulla togliere a chi ha più gravi pesi da portare, io preferisco parlare in questi casi soprattutto del silenzio di noi tutti: cristiani cattolici e battezzati. Non che siano mancate, anche nella vicenda di Elisa Claps le voci profetiche: hanno parlato e continuano a parlare, ma sono state e continuano a essere voci troppo a lungo isolate e  che sempre o quasi si sono scontrate con la proverbiale durezza del popolo di Dio.

Veniamo ai fatti: c’è una chiesa, la parrocchia di Santa Trinità, dove una pioggia benefica ha messo in luce incompetenze, complicità, vergogne varie di uomini e istituzioni. A me sembra che il tempio sia stato profanato, prima dal delitto e poi dalla presenza di un cadavere innocente più o meno nella stessa direzione, il cielo, cui si rivolgono puntualmente  sguardi e mani nelle invocazioni: lassù, nella soffitta della canonica, dove nessuno degli inquirenti ha mai guardato, i resti di Elisa hanno atteso per diciassette anni, tra battesimi, funerali, matrimoni e comunioni. Un’eternità, per i familiari della vittima, di dolori e di abusi.

Dal punto di vista tecnico, perché la profanazione sia dichiarata tale, occorre la decisione del vescovo e la constatazione dello scandalo dei fedeli. E qui, prima ancora dell’intervento vescovile, sta forse il punto critico: esiste davvero lo scandalo dei fedeli?

Mi auguro che esista. Non mi riferisco alla protesta della società civile, che per fortuna è già scesa in piazza. E’ la coscienza religiosa che cerco d’interrogare, a partire dalla mia. Mi sembra ovvio che lo scandalo avvertito non dovrebbe riferirsi soltanto al tempio ma all’intera realtà spirituale della parrocchia in primo luogo, della Chiesa di Potenza poi e più in generale della realtà ecclesiastica italiana. Se si considera che la famiglia ha sempre chiesto l’ispezione della chiesa, che quando questa è avvenuta si sono trascurati i luoghi del ritrovamento, l’intero accaduto ferisce o dovrebbe ferire la coscienza religiosa di tutti i cattolici.

Il problema della legge riguarda la giustizia e non è di questo che ora voglio parlare. Mi limito a osservare che anch’io, come credo migliaia di altri, non mi riconosco nelle cosiddette storie all’italiana o nel logoro copione di un Paese dove certe indagini non si fanno, i potenti decidono il bello e il cattivo tempo, i Don Abbondio impauriti tradiscono i fedeli, le omissioni e complicità si sintetizzano nel chiudere ogni finestra e nel serrarsi  dentro casa.

Sono altre le storie che vorremmo scrivere e udire. E altre per fortuna le storie che, più spesso di quanto si creda, in realtà  vengono vissute. Sempre o quasi, a riscattare la pochezza dei copioni, ci sono uomini isolati: sacerdoti, giornalisti, magistrati, poliziotti e gente comune. Ma soprattutto ci sono donne che rivendicano gridando un’altra verità: figlie, spose, madri, la parte migliore del Paese. Provate a dire loro che l’arte dell’arrangiarsi è la nostra grandezza: sanno benissimo che invece è sempre stato il nostro limite. E che dietro tanta prosopopea si nasconde sempre un mediocre pressapochismo. Con tutto questo entra o dovrebbe entrare in collisione anche il nostro modo di essere cattolici. Ma torniamo al punto.

E’ di questi giorni la reprimenda del nostro Papa alla Chiesa irlandese (e anche qui: ma i fedeli dove stavano? Facevano le tre scimmiette?). Reprimenda giusta e opportuna, secondo la quale alle necessità della riparazione dovrebbero seguire comportamenti diversi, un po’ come accade o meglio dovrebbe accadere mediante il sacramento della confessione. E tutti ricordiamo l’alta simbolicità del gesto di Giovanni Paolo II quando infilò la lettera in una fessura del muro di Gerusalemme. Tuttavia, nonostante le migliori intenzioni, il guaio di questi atti è che sembrano avvenire regolarmente dopo, quando l’opinione pubblica e la storia hanno già emesso il loro giudizio.

In piccolo, ma non per questo meno drammaticamente, i fatti di Potenza dovrebbero sollecitare un intervento immediato della Chiesa (gerarchia e fedeli) che, per quanto rapido possa essere, dovrà comunque registrare l’inevitabile ritardo.

Certo, qualcuno potrà invocare  la comodità del dire: che ne sapevo, io.  Adesso sappiamo. Quella chiesa per il momento dovrebbe restare chiusa: per il male che in luogo sacro è stato compiuto e che rischia di perpetrarsi finché non sarà stato riparato. E non mi riferisco soltanto alle pratiche espiatorie formali: l’acqua santa, le preghiere e i vari riti previsti per simili circostanze. Queste cerimonie non avrebbero senso alcuno se non fossero accompagnate dalla partecipazione  consapevole dell’intera comunità ecclesiale. 

Non basta io credo che si intervenga religiosi o laici a una manifestazione civile come quella tenuta a Potenza. Sarebbe forse opportuno, per chi ha fede e spera di mantenerla, un segno più forte, di precipuo carattere religioso.

Non si tratta di affiggere manifesti luterani sul portale della Chiesa. Penso a gesti più semplici. A una messa che si reciti all’aperto, per esempio, dinanzi alla chiesa chiusa. Sono certo che il popolo di Dio coglierebbe l’occasione per interrogarsi sulle proprie responsabilità e  chiedere perdono, per sé e per gli altri, prima di rimettere i piedi in una chiesa finalmente purificata.

Ecco, forse avremmo bisogno ogni tanto non solo di luoghi aperti al culto ma anche di chiese chiuse: sarebbe una forma di espiazione e forse ci aiuterebbe a rientrare nella dimensione autentica del sacro. Altrimenti corriamo il rischio di pensare che il temuto relativismo, il grande pericolo che fronteggia ogni fede, spoglio ormai delle sue motivazioni ideali (quelle ad esempio che hanno favorito la tolleranza) e ridotto alla sua variante nostrana e miserella, la regola aurea del “fatti i fatti tuoi”, non sta soltanto dinanzi alla nostra fede ma ha corroso ormai sino al midollo le ossa dei fedeli.

 
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LA CULTURA DEL SUPERFLUO

Post n°22 pubblicato il 26 Gennaio 2010 da Antonio.Bianchessi
 

 

    Tra le ultime novità della stagione ecco finalmente il cinema restaurant, pubblicizzato ormai da giornali e televisioni di mezzo mondo. Un ambientino confortevole, con poltrone reclinabili e pulsanti sui braccioli: basta premere quello giusto e un cameriere silenzioso si avvicina chiedendo: “Champagne?”

   L’iniziativa, diffusa già da tempo in Australia, è sbarcata negli States e pare che la crisi le sia indifferente. Il prezzo non è poi così elevato e si tratta di un lusso che se non sei un  precario errante o peggio ancora un genitore con un figlio eternamente a carico, ti puoi ancora permettere: una serata diversa, da godere ogni tanto. Non so come si consoli il precario, ma certo più e meglio di quel genitore inviperito nel vedere che suo figlio, lui sì beatamente prodigo, un posto di quel genere, già da prima che l’evento si annunciasse, l’aveva prenotato.

   I vantaggi? Non hai i mocciosi che frignano, i ragazzacci che urlano come un tempo all’oratorio, gli specialisti della mano morta, il vicino muscoloso cui contendere l’occupazione del bracciolo. Si può persino fingere di essere un uomo della city, tanto occupato da non poter vedere un film e mangiare in tempi diversi. Insomma tutti quei motivi che, insieme alla qualità sempre più bassa di ciò che passa il convento, hanno spinto la popolazione adulta ad abbandonare le sale cinematografiche.

   Forse ha ragione Eco nel sostenere che l’attuale civiltà procede come il gambero. Il mio dubbio riguarda il fatto che un po’ di questo moto ricorra quasi sempre nell’andatura di ogni uomo.

   Quando ero giovane e si bigiava a scuola c’erano le matinées. Si passava da Totuccio, un pizzicagnolo di Messina, che ti faceva certi panini che oggi si direbbero da sballo. Lunghi mezzo braccio, con fette giganti di provolone, ondate di mortadella e fette di melanzana gocciolanti. A saperci fare ti durava quasi un tempo. Era un'altra cultura.

   A Milano la musica suonava già diversa. Dovevi contentarti delle castagne. Quelle secche c’era ancora qualcuno che le chiamava caramelle degli studenti. Ma davano poca soddisfazione. Erano durissime e le ciucciavi a lungo senza gusto. Preferivamo quelle arrosto. A quei tempi potevi ancora riempirti le saccocce senza svenarti e ricordo certi cinema nei quali, se arrivavi in ritardo, era tutto un cric crac delle bucce per terra. Cercavi di non far rumore ma era come camminare sui rami secchi di un bosco.

   Dopotutto, a parte qualche oscurantista, chi l’ha mai detto che i piaceri debbano essere disgiunti, con un taglio netto tra spirituali e materiali? Certo, fumare sembrava più fine, persino più adatto alla qualità della pellicola, e quando lo si faceva già adulti e tutti insieme si usciva più storditi di un drogato. Modello Humphrey Bogart, per intenderci.

   E poi, mica ci possiamo dimenticare dell’Opera e di ciò che in quei palchi così distinti un tempo si faceva. Lì si andava a forza di timballi e polli arrosto, altro che panini, mentre il pubblico giù in piedi al massimo si sbucciava tristemente poche uova. Con buona pace dei musici dei cantori e di tutte le loro pene, genìa senza pace e quasi sempre di affamati precari.

   Del resto, che cosa combina ognuno di noi tra i segreti di un divano? Una volta ci si ambientavano les liaisons dangereuses. Ma era cosa di nobili corrotti. Oggi, più democratici e salutari, vi  abbiniamo lacrime salate ai maccheroni insipidi, il che, cosa che non guasta, dovrebbe fare bene anche alla pressione. Per non dire di altri modi di sollazzo: nei segreti delle nostre case la cultura dello schermo si accoppia volentieri con quanto di più indecente si possa immaginare. Fantozzi ne sa qualcosa e ha fatto da maestro a intere generazioni di buongustai.

   Dunque, niente di nuovo sotto il sole. La differenza se c’è sta tutta nella forma dei consumi: gira e rigira è solo una questione di etichetta. Il cosa mangi e il come mangi sono solo gli aspetti  secondari di una sola e identica banalità.

   Le bollicine, se proprio ci tieni, te le puoi gustare anche in casa, davanti al maxitelevisore, con qualità di immagine e effetti sonori che han ben poco da invidiare al grande schermo. Calma, lusso e voluttà, magari con il gusto di allungare i tuoi piedini accanto a un’edizione economica dei fleurs du mal che fanno bella mostra, dimenticati da sempre, sul tavoluccio salottiero.

   E invece no. In mutande a casa. Ma fuori: semel in anno, licet insanire. In fondo il bello è proprio in questo: nell’eccezione, nel gusto del superfluo e nel pagare come sopraffino un piacere che il supermercato sotto casa ogni giorno ti può dare. E’ inutile negarlo, l’offerta è suggestiva: per qualche istante ti puoi cullare nell’idea di essere un piccolo vip. Dimenticando che quelli veri, se hanno lo stomaco in ordine, se la fanno ancora a pane e salame. Ma che importa? Tu premi il bottoncino ed ecco il maggiordomo che s’inchina. Puoi persino chiedere, se senti un po’ di arietta, il conforto di una copertina. C’è anche quella. Non sarà cachemir, ma è senza dubbio migliore dello straccio che ti danno sull’aereo. Ecco, sei finalmente in prima classe. Rilassati e godi.

   Se poi nell’addormentarti senti una vocina che sussurra: “Buona notte, cretino” non spaventarti. Deve essere stata quella diva dallo schermo. Dormi tranquillo. Il film te lo rivedrai con calma. A casa, sul tuo divano. Con una fetta di pizza ormai inacidita e l’immancabile coca sgasata.

 

 
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SCUOLA: LO SPRECO DEI TALENTI

Post n°21 pubblicato il 10 Gennaio 2010 da Antonio.Bianchessi
 

 

 

 

   Gli insegnanti sanno che ogni tanto capita qualche classe eccezionale. L’evento è sempre più raro ma quando si verifica se ne trae la convinzione che l’insegnamento sia stato restituito alla sua dignità. Nei miei vent’anni di docenza ricordo tre o quattro classi di questo tipo. L’ultima ebbi la fortuna d’incontrarla al termine della mia carriera d’insegnante e alla vigilia d’iniziare quella di preside. I risultati raggiunti furono davvero straordinari. Ma non è di questi che voglio parlare. Riferirò invece del giudizio espresso da una collega della mia scuola e madre di un mio alunno.

   “Quelli dotati di capacità se la caveranno sempre” mi disse “E’ sui più deboli che dovresti concentrarti, perché la scuola è la loro unica possibilità”.

   Evidentemente io avevo seguito un metodo, almeno a suo giudizio, in apparenza opposto. Come ho già detto avevo ormai alle spalle tanti anni di esperienza e tematiche di quel tipo erano state il mio pane, fin dagli inizi. Tanto più se si considera che mi ero laureato in Pedagogia, nel 1969, e con una tesi sulla riforma del sistema scolastico svedese, allora all’avanguardia.

   Tuttavia ho ripensato spesso a quella osservazione, anche più tardi come preside, trovandomi ad affrontare gli stessi problemi da un’angolazione differente. Oggi s’invoca con disinvoltura, anche a sinistra, una scuola meritocratica ma ho spesso l’impressione che sotto l’etichetta si nascondano pratiche sbagliate e soprattutto un vuoto di concetti.

   Starò sul personale, per essere più chiaro. Disegnare mi sarebbe piaciuto e non sto a dire come avrei cantato o schitarrato volentieri. Tuttavia il mio foglio finiva sempre impiastricciato e quando mi univo a un coro, per quanto improvvisato fosse, mi guardavano un po’ storto. Senza dubbio con maggiore applicazione e con infinita pazienza della maestra qualcosa di meglio avrei potuto fare. Ma non sarei mai stato bravo come certi miei compagni, che disegnavano con facilità o cantavano come angeli. E dunque ringrazio la mia maestra di avermi detto chiaro e tondo che in quelle attività non ero portato: lo scrivere era il mio talento ed era bene che mi concentrassi in questo.

   Debbo purtroppo constatare che una simile nettezza di giudizio, insieme al rischio che comporta, è una pratica quasi scomparsa o irrilevante, soprattutto nel periodo decisivo della scuola dell’obbligo, ed è all’origine di tante scelte successive sbagliate. E’ un po’ come se il chirurgo, per il timore delle conseguenze, si rifiutasse di operare.

   In realtà il problema è molto più vasto di quanto potrebbe sembrare ed è ridicolo focalizzarlo soltanto sulla scuola. Basti pensare al genitore in estasi davanti a una ridicola performance del figlio o semplicemente incapace di dirgli che farebbe meglio a tacere anziché dire tante stupidaggini. O, più in generale, è sufficiente osservare lo smarrimento e l’incapacità di giudizio dei più, quasi sempre al seguito di un opinion leader, non si sa come o quanto qualificato, di fronte ai fenomeni contemporanei dell’arte, della musica, della poesia. Detto in altri termini e per riportare la questione sul terreno che le è proprio: se non si sa o non si vuole o si finge di non sapere cosa sia il buono, il bello, il giusto diventa impossibile educare. Come genitori, come scuola e come società.

   Per i motivi qui accennati, sia pure rapidamente, sono arrivato con il tempo a convincermi del contrario di quanto suggerito dalla mia collega in anni ormai lontani: se i talenti non vengono riconosciuti ed educati, se le capacità non emergono e diventano visibili per tutti, il peso delle conseguenze negative ricadrà proprio sui meno dotati. Del resto, per restare nell’ambito didattico, gli insegnanti sanno che più una classe raggiunge obiettivi di eccellenza, più si dimostra capace di “tirare” quelli che sono rimasti indietro.

   A prima vista è un assunto che sembrerebbe derivare dalle teorie del liberismo economico: ed è probabilmente su questo equivoco che nasceranno, e temo abortiranno, le riforme della nostra scuola. L’insegnante non può certo rimettersi alle leggi del mercato, a meno di trasformarsi in tecnico e rinunciare agli scopi più complessi della sua professione.

   Torniamo all’esempio del disegno. La mia coscienza di non essere dotato si accompagnava all’ammirazione per chi invece era stato dalla natura e dallo studio favorito: potevo seguirne gli sviluppi e l’avvicinarsi progressivo ai modelli proposti. Ed è inutile dire che questo sviluppava anche in me, se non l’abilità manuale, di certo la formazione del senso estetico. Pian piano scompariva la frustrazione e veniva sostituita dal piacere di ammirare un’opera, che se anche io non sapevo produrre, comunque mi arricchiva. Lo stesso vale per la musica e ognuno può completare a suo piacere questo quadro ripercorrendo l’intera gamma delle attività umane.

   Oggi invece il timore di inibire con una frustrazione paralizza la possibilità di educare e un malinteso senso della democrazia conduce all’incapacità di riconoscere e soprattutto valorizzare le qualità degli alunni. Così capita che tutti i pensieri dei bimbi vengano giudicati e proposti al giudizio collettivo come poetici e tutti i loro scarabocchi come fossero di artisti in erba da ammirare. La pratica nasce nella scuola dell’infanzia e si protrae nell’età della ragione, degenerando progressivamente nell’egualitarismo assoluto, cioè nella riduzione al grado zero di tutto ciò che suppone cultura ed elevazione.

   Sul versante filosofico, che poi è sempre quello che dirime la natura di questi problemi, il fenomeno ha un carattere più generale e va sotto il nome di relativismo. Siccome ne parla il Papa, viene liquidato in fretta dal pensiero laico, sempre disposto a criticare qualsiasi dogma che non sia quello del proprio punto di vista personale.

   Mi rendo conto che questi appunti, conformi alla natura dei post che appaiono nel blog, possono apparire sbrigativi e sommari per un problema di tali dimensioni. Tuttavia il loro scopo è solo quello di avviare una discussione. Tenendo presente, per non minimizzare, che la posta in gioco, si voglia o no limitare alla scuola l’assunto in questione, ci riguarda comunque tutti.

 
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PENSIERO DI NATALE

Post n°20 pubblicato il 21 Dicembre 2009 da Antonio.Bianchessi
 

 

 

 

   Si chiama Leonard. Ho visto la sua foto in casa di un mio amico. Forse se mi apparisse d’improvviso in un sobborgo di Kempala, estraneo come sono a quei luoghi, avrei un poco di paura. Alto, magrissimo, con gambe e braccia che scendono a dismisura, lunghe lunghe, dai pantaloncini e dalla camicia con le maniche corte, la pelle lucida e tesa, la testa che al confronto appare piccola e come sospesa in cima al corpo, gli occhi grandi e smarriti, quel modo di fissare che t’ interroga e  tuttavia non attende risposta, Leonard sembra un fantasma nero, anzi nerissimo. Di quel nero che puoi immaginare spaccato dalle croste o infarinato di grigio sulle strade polverose dell’Africa, sotto il sole impietoso. E’ a lui, alla sua immagine, a quel vano interrogare che voglio dedicare questo pensiero di Natale.

   Nella foto una gallina appare sul terriccio, anch’essa magra e allucinata. Alle spalle le pareti di fango di una povera abitazione. Da quanto si vede, il volatile è l’unica ricchezza di quella casa. Si dice spesso che i bambini anche nella miseria ridono. Leonard non ride, ha un’espressione serissima. Forse perché non è più un bambino, forse perché avverte la serietà di quel momento: una fotografia da spedire, forse perché una cravatta gli stringe il collo e lui deve adattarsi a quella sorta di dignità precoce. Si è messo in ghingheri insomma e davvero quel tocco dà qualcosa di straziante a tutta la sua persona.

   Ugandese. Il mio amico lo segue ormai da una decina d’anni, attraverso una di quelle organizzazioni che si occupano dell’adozione a distanza.

   “Un niente” mi dice “Una volta erano cinquantamila lire al mese, adesso non si arriva a trenta euro. Cosa ci facciamo noi con quella cifra? Però questo niente assicura alla famiglia, attraverso l’organizzazione, la possibilità di mantenerlo e soprattutto consente all’adottato la frequenza di  studi regolari”.

   Uscire dalla strada, insomma. E avere, per quanto piccola, una speranza di futuro. L’organizzazione cui il mio amico si è affidato è tra le più serie.

   “Ogni tre mesi” racconta “mi arriva una busta con una relazione sul suo stato di salute, i risultati negli studi, una letterina di Leonard in cui mi dice pochissimo di sé, mi ringrazia e augura ogni bene a me e alla mia famiglia. Io non vorrei essere ringraziato. Ma mi spiegano che fa parte delle usanze, così come è, dicono, un titolo di vanto per lui chiamarmi il suo padre lontano”

   Capisco le difficoltà del mio amico. Tuttavia mentre le racconta diventano anche mie e sarei contento se chi mi legge per un istante almeno le facesse sue. Non dico le difficoltà di Leonard, perché quelle, per quanti sforzi uno faccia non ci potrebbe proprio riuscire: dovrebbe piombare laggiù, a Kempala, d’improvviso spoglio di tutto ciò che per lui è normale, e senza il biglietto di ritorno. No, mi riferisco solo all’imbarazzo nostro, nell’affrontare queste cose partendo dal comfort  quotidiano. Ecco, un poco d’imbarazzo, da mettere così, senza retorica e senza moralismi, in un angolo discreto della nostra festa di Natale.

   L’Uganda, la guerra che l’ha devastato, l’Aids che ha decimato le famiglie, compresa quella di Leonard, la carestia, la fame…dimentichiamo tutto. Immaginiamo che sia Natale davvero, un Natale per tutti, anche se per una frazione di secondo solamente. E se qualcuno ha fatto un presepe, troviamo un posto per questo fantasma lungo e stralunato. Lontano dal bue, dall’asinello, da quel sorriso magico del bambino, dalla paglia dorata, dalla stella luccicante. Lontano dai pastori, dalla finta neve, dai ruscelletti con la carta stagnola. Lontano persino dai lontanissimi re magi e dai loro cammelli favolosi. Così lontano che appare sperduto. Forse è proprio l’ultimo a mettersi in cammino. Dietro di lui zampetta claudicante la gallina, che ha deciso di seguirlo. Chissà forse anche lei ha qualcosa da dire al suo Creatore. Ma io, comunque sia, laggiù, nel posto più solitario e dimenticato, in disparte dalla grande scena animata da carillon e da zampogne, questi due, Leonard e la gallina ce li vedo proprio bene.

   La stella la scorgono anche loro, senza dubbio. E come potrebbero non vederla. Illumina tutta la notte, seguendo la terra nel suo moto, da un capo all’altro del globo. Solo che la strada non è diritta. Ci sono montagne su montagne e poi il deserto e infine il mare. Chissà quante volte quei due la perderanno e chissà quante altre, senza sapere come, si ritroveranno nella direzione giusta.

   Mi chiedo cosa possano portare al bambinello. La risposta non è difficile. La gallina ha in serbo ancora un uovo e non vede l’ora di lasciarlo cadere su quella paglia dorata. Fosse anche l’ultimo coccodè. E Leonard?

   Leonard si leverà senza dubbio la sua cravatta adolescente per metterla al collo di quell’esserino tutto nudo e bianco e roseo, che sgambetta felice nella culla.

   Ci riusciranno i nostri eroi? Per completare il presepe dobbiamo collocare nel mare un temibile incrociatore, che porti, non so quanto propriamente, il nome Italia. Pattuglia un po’ sinistro quelle acque. Li lascerà passare? Chi lo sa. C’è una stella per tutti, anche per gli incrociatori.

   Non sta comunque a noi sapere queste cose. A noi basta averli disposti tutti al loro posto, come si conviene a un buon presepe. E attendere l’arrivo del Bambino. Da collocare a mezzanotte, tra i monti e il mare, dentro la sua culla.

   Buon Natale, Leonard. Buon Natale, amico mio. Buon Natale all’incrociatore Italia. E Buon Natale anche alla gallina.

 

 

 
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