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Notiziario tra il serio, il faceto e pure l'ameno sulla salute mentale, la solidarietà e relativi dintorni e contorni nel territorio del Sulcis-Iglesiente (Sardegna, Italy) e, talvolta, pure Oltre.

 

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periodico di approfondimento sulle tematiche della salute mentale che prende spunto dagli argomenti del dibattito quotidiano al Centro di Salute Mentale di Carbonia.

In questo numero:

Il prendersi cura
(di Antonio Cesare Gerini)

"Corpo in azione" nella psicoterapia con il bambino
(di Magda Di Renzo)

Un modello per le dipendenze
(di Alessandro Floris et al.)
Le polarità
(di Simona Corrò)
Il gruppo Solidarietà ...
(di Ylenia Corrias)
La famiglia e la sua storia 
(di Carla Corona)
Un modello concettuale per la gestione del rischio nel nursing
(di Antonello Cuccuru)
Digitale: il futuro della radiologia
(di Carlo Saba)

 

METODOLOGIA


“IL PRENDERSI CURA”
nel lavoro del Centro Salute Mentale di Carbonia

Spesso quando si discute degli interventi svolti in favore delle persone con disturbo mentale si enumerano tali interventi, mettendoli in fila e indicandone la quantità. Si fanno tante visite psichiatrico–psicologiche, tanti interventi socio-sanitari, tanti riabilitativi o sulla famiglia e così via. Sembra che procedere in questo modo sia necessario per dimostrare l’efficacia del servizio stesso.
Qui però, in questa riflessione, non si procederà a enumerare gli interventi svolti dal CSM di Carbonia, ma si cercherà di mettere in evidenza il metodo che sta alla base degli interventi stessi.
Il “prendersi cura” è il primo momento di tale azione. “Il prendersi cura” è lo specifico del nostro lavoro. L’altro polo, cioè le modalità “teatro”, "fattoria", "laboratori", "gruppi di auto aiuto" etc, sono l’oggetto tecnico dell’intervento. La parola “cura” del “prendersi cura” non va confusa con la parola che in medicina e scienze affini usano indicare concetti simili. Ad esempio non va confusa con la parola “terapia”. La terapia è solo una delle modalità del “prendersi cura”, una modalità al fianco delle altre. Una modalità che richiama ad un intervento medico (farmaco-terapia) o psicologico (psicoterapia) o sociale (socioterapia), ma che non esaurisce mai il “prendersi cura”. Il “prendersi cura” di cui qui vogliamo parlare si coniuga con le parole “ascolto”, “condivisione”, “attenzione”, in una parola “relazione”.
All’interno del nostro lavoro nella salute mentale il “prendersi cura” è alla base di ogni altra modalità di intervento: accoglienza, volontariato, lavoro nella fattoria, inserimento lavorativo nel sociale, assistenza all’abitare, ecc.
E’ opportuno fare un passo avanti per comprendere: “chi” si prende cura di “chi”?Forse possiamo sostituire la parola “Chi” con la parola “Qualcuno”. Allora potremmo dire che “qualcuno si prende cura di qualcuno”. Entrambi i “qualcuno” del “prendersi in cura” sono delle “soggettività personali”, sono delle persone. La “soggettività personale” è composta dai due termini “soggettività” e “personale”. C’è evidentemente un accento posto sul mondo soggettivo interiore e sulla contemporanea capacità di relazione del soggetto, attraverso il suo interno sentire, col mondo esterno, col mondo degli altri e il mondo delle cose. Possiamo, senza ulteriormente approfondire, chiamare persona questa “soggettività personale”. 
Dunque:“una persona si prende cura di una persona”.La persona che pratica la psicoterapia è sempre molto di più della sua tecnica psicoterapica, come c’è sempre di più nella persona rispetto alla sua depressione, soprattutto se la depressione si declina col verbo avere (qualcuno ha la depressione). Se la depressione si declina col verbo essere, cioè è depressa, allora è depressa la persona e la depressione è personale quindi ogni depressione è diversa da un’altra in quanto ogni essere personale è irripetibile.

(l'articolo intero a cura di A.C. Gerini lo trovi al messaggio n. 111)

 

A PROPOSITO DI FOLLIA

“Deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180,
deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compito.”
(Franco Rotelli)

Perché la malattia è un dis-valore?
E’ sempre più chiaro che la malattia altro non è che l’ istituzionalizzazione della follia e quest' ultima, probabilmente, altro non è che la forma parossistica dell’istituzionalizzazione dei conflitti. Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei conflitti di norme (a seconda delle situazioni di espansione e di recessione economica di un paese) la relatività di un giudizio scientifico che di volta in volta muta l’irreversibilità delle sue definizioni? Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dall’ideologia dominante? Questi sono alcuni temi fondamentali della nostra ricerca teatrale. Partiamo dalla denuncia di una vita impossibile per alludere ad un’altra vita che, per ora, non ha altro luogo dove poter essere se non la scena. Lavoriamo per poter adesso porci e un giorno opporci all’incedere di quella violenza materiale, culturale, politica che anche qui, anche oggi, nega ancora i diritti fondamentali. Il problema allora non sarà quello della guarigione, ma dell’emancipazione, non la restituzione di salute, ma l’invenzione di salute, non laboratori per l’ortopedia delle libertà negate, ma laboratori per la riproduzione sociale della gente. (Accademia della Follia)

 

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PROVOCAZIONI

Discussione

Qualcuno ha scritto che un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia e produce un articolo scientifico. Ma il processo non è così immediato: qui sulla terra un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia, produce un articolo scientifico che riceve una commenda da almeno un docente (sempre assai noto in America e già membro dell'OMS) ed è citato in un congresso ai Tropici. Il rimedio entra quindi in produzione e viene proposto all'Autorità comPetente che - attesa la sostanziale ignoranza del funzionariato, in assenza di alcuna opposizione scientifica (naturalmente, a parte quelle eventuali delle qualificate Commissioni prePoste!) - approva.
Ora ha inizio la sperimentazione sulla popolazione e i risultati sono sempre positivi o, al massimo, discutibili e discussi, ma mai negativi. Solo in un caso - in quanto naque una popolazione di bambini affetti da gravi (ed evidenti) malformazioni e la farmaceutica non prese in tempo la stampa per il collo e un farmaco - un sedativo antinausea e antipnotico, guarda un po' -  fu ritirato con grande scandalo. Passarono somme ingenti, certo, però nessuno andò in galera.

 

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TEATRO: Marat-Sade

Post n°191 pubblicato il 04 Febbraio 2009 da csmcarbonia
 
Tag: Teatro

La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat rappresentati dai ricoverati del manicomio di Charenton sotto la direzione del marchese De Sade.

Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri, sarà replicato domani presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.

di  Gabriele Iezzoni, 30 gennaio 2009


Un titolo lungo per un’opera ricchissima sotto l’aspetto stilistico e contenutivo ed estremamente ambiziosa da interpretare. Una prova dura, quindi, per attori, sceneggiatori, regista e tecnici, ma affrontata con grande maestria e con quella professionalità che il teatro di Albeschida ha acquisito in questi anni di intensa attività.
Portata sulla scena dalla Compagnia che ormai vanta due lustri di attività con la regia di Corrado Licheri e le musiche originali di Angelina Figus l’opera in sé non ha bisogno di lunghe presentazioni. Senza dubbio un riferimento obbligato per la cultura degli anni settanta, è – come tutte le vere opere d’arte - ancora più sottilmente suggestiva oggi, quando la sua lettura ha bisogno di una interpretazione magistrale e di una esplicitazione che ne sappia rendere il valore, come si dice con una espressione abusata, ma efficace, attuale.
Il Marat-Sade, come presto venne conosciuta l’opera dopo la grande affermazione della successiva traduzione inglese, curata dallo stesso autore, è – forse – il capolavoro di Peter Weiss.

Scritto nel 1963 fu portato, per la prima volta sulle scene nella Berlino Ovest del 1964. L’anno successivo il regista Peter Brook ne allestì una trasposizone filmica che è ancora riconosciuta come il punto di partenza di qualsiasi interpretazione dell’originale Marat-Sade di Weiss.

L’azione inizia il 13 luglio 1808, quando gli echi rivoluzionari si sono già spenti e si sviluppa lungo una sceneggiatura innovativa nella quale la rappresentazione è il pretesto per la messa in scena del dramma principale abilmente incastonato dentro il più piccolo dramma della rappresentazione in cui il Marchese De Sade, internato nel manicomio di Charenton, si improvvisa sceneggiatore e regista degli ultimi giorni del rivoluzionario Jean-Paul Marat, detto l'Amico del popolo e morto ad opera della girondina Charlotte Corday D'Armont.

Come in tutte le opere di Weiss il pubblico è “costretto” nella nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore.

Lasciando da parte i dettagli scenici, per concertrarci sul contenuto vivo di quest’opera nata come tutte quelle di Weiss da una riflessione storiografica, che comunque trascende – come tutta l’arte – il tempo e la contingenza dalla quale trae forma e materia possiamo individuare alcune coordinate teoretiche che mettono in luce i fondamenti e le premesse di quest’opera così carica di suggestioni diverse e convergenti. Uno dei principali riferimenti non può che essere reperito presso la Scuola di Francoforte. Il concetto di ragione progressiva e calcolante di Adorno permette di illuminare almeno un aspetto fondamentale dell’opera di Weiss.

La ragione calcolante, secondo appunto la particolare connotazione di Adorno, conduce al fallimento dei suoi stessi presupposti di progresso, perché incontra – lungo il suo percorso – l’assurdo nella forma di quel paradosso per il quale le sue stesse affermazioni, raggiunte con i mezzi della logica deduttiva, diventano la negazione dei presupposti teoretici che hanno animato gli intenti innovatori iniziali.

La lettura dell’opera di Weiss, alla luce del pensiero di Adorno, permette di approfondire questi aspetti delicati della complessa tematica del Marat - Sade.

Weiss parte dall’assunto che non esista un significato per il quale la ragione possa dirsi pura in senso kantiano oppure storicamente orientata al bene in senso illuministico. Essa piuttosto deve sempre ritenersi intenzionata ovvero rivolta ad un particolare obiettivo, ispirata ad un progetto più o meno esplicito o animata da aspirazioni estranee a quello che una filosofia “ingenua” definirebbe come l’ambito teoretico. In altri termini non esiste un criterio dell’oggettività per il quale l’uso della ragione o gli strumenti che ad esso ineriscono si possano dire oggettivi: anche quando, anzi, sembra suggerire il Marat-Sade, soprattuto quando si presentano come il frutto di istanze universali o quando agitano la bandiera del valore assoluto proprio in quanto universalmente condivisibile.

Marat, in tal senso, è il rappresentante della ragione strumentale e adorniana. Essa progetta in vista di un fine e si veste di una bandiera. Il suo strumento privilegiato è la valutazione logica e deduttiva. La sua attenzione è rivolta al risultato. La contemporaneità ha imparato ormai da tempo parole quali successo, conquista, efficacia, raggiungimento del risultato. Queste espressioni hanno assunto rilevanza con la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese le ha – per cosi dire – fissate nella loro valenza politica e sociale.

Parallelamente all’affermarsi dell’importanza della ragione illuministica abbiamo assistito al processo per il quale l’etica e la condotta umana si sono ristrette alla semplice soggettività. Quando non è un fatto di natura giuridica, la condotta umana e la decisione cadono nell’arbitrio, l’etica si identifica con la morale e con il costume, il suo problema diventa ozioso di fronte all’intelletto che domina sulla natura e la plasma secondo le esigenze del momento. La stessa posizione del problema etico diventa impossibile perché, da un punto di vista strettamente razionale, non è suscettibile di una formalizzazione logico-deduttiva o quantitativa. La dimensione individuale è trattenuta quanto più possibile in quella sociale perché il criterio razionale chiede uniformità e prevedibilità. Le pretese del potere, che nei secoli passati erano accompagnate dall’imposizione e dalla vessazione, si fanno istanze della ragione: si fanno valere con la persuasione e trasformano la costanza della legge fisica nella normalità della condotta. L’uguaglianza di Marat diventa normalizzazione ed il suo ideale di libertà si sostituisce all’imperio del tiranno. Le esigenze della normalizzazione impongono una rigida separazione di ciò che è normale da ciò che non lo è. L’istituzione del manicomio è – per così dire -  la cifra della modernità. L’umiliazione e la somministrazione calcolata del dolore vivono all’ombra della scienza medica.

Ecco quindi che la figura di De Sade – nella sua follia erotomaniaca e nel suo individualismo esasperato – è l’erede di quell’eroe sconfitto del dramma neo romantico come lo abbiamo conosciuto dal Paradise Lost di Milton. Il suo nichilismo ed il suo individualismo radicale intesi come la negazione delle categorie della ragione positivistica sono una disperata affermazione dell’irriducibilità dell’individuo alla sua dimensione sociale, politica ed economica. Le illusioni di Marat si spengono sulle contraddizioni che emergono dal suo sistema sociale nel quale essere e dover essere, comunità e persona, natura e spirito si conciliano in un disegno unico. De sade rivela queste contraddizioni che lungi dall’essere state mediate dalla ragione sono state solo dissimulate e ricondotte all’errore del singolo che giudica al di fuori della verità scientifica e razionale. Così l’apatia della natura è, per De Sade cosa ovvia che proviene dal suo essere disilluso rispetto all’esistenza. Ma questa affermazione non fa semplicemente parte del contraddittorio fra i protagonisti. Con essa emerge l’inconciliabilità fra il materialismo ateo ed il causalismo dei quali Marat si fa portavoce come rappresentante del pensiero illuministico e l’attribuzione di una qualche intenzionalità o di un semplice finalismo alla natura stessa. È cosi l’ottimismo di Marat si fa più insostenibile del radicalismo sadiano. E, tuttavia, proprio un’affermazione di Marat (“l’apatia della natura è la tua personale apatia”) mette in luce la dinamica implicita nella nuova struttura di potere di cui Marat si fa promotore: l’errore della collettività diventa la malattia del singolo.

Ma lo stesso De Sade, chiuso nel suo solipsismo non sa dare una risposta alla domanda fondamentale che è il filo conduttore del dramma di Weiss e che non è la scelta fra una delle due posizioni portate sulla scena dai protagonisti, ma il reperimento di una terza via che non sia il nichilismo sadiano e nemmeno l’inganno della società borghese e capitalistica. Ma così non potrebbe essere. Come già Brecht, Weiss coinvolge il pubblico nella condizione di giudice e critico anziché di passivo spettatore e – una volta liquidata la Rivoluzione nelle sue contraddizioni ci restituisce il nostro mondo attuale processato e smascherato.

Seguendo attentamente la narrazione sembra di poter concludere in maniera apparentemente paradossale che non è il sonno della ragione a generare mostri, ma la sua iperattività. Verrebbe da chiederci che cosa, dunque, potrebbe metterci al riparo da una nuova catastrofe come una guerra mondiale o un’altra shoa dal momento che la ragione, come ha storicamente dimostrato, è ingannevole di fronte alle scelte cruciali, ma nello stesso tempo si è imposta, nelle sue propaggini scientifiche e tecnologiche, come unico strumento del pensiero e anzi ha preteso l’identificazione con esso. La risposta è niente, a meno di non “pensare l’impensabile” ovvero un pensiero che si emancipa dalla ragione, ma questo Weiss non dice, perché – del resto – il fine del dramma teatrale, ma forse di tutta l’arte, è quello di far sorgere le domande che ancora non sono state poste, non quello di rispondere alle domande già formulate perché a questo scopo sono sufficienti le altre facoltà umane.

Il Marat – Sade, sotto la guida di Corrado Licheri sarà replicato il prossimo 5 febbraio presso il Teatro centrale di Carbonia con inizio alle ore 10.00.


 
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RECENSIONE DA MEDICINA E MORALE

Gerini Antonio Cesare, Il significato del ciclo mestruale. Appunti Sparsi sul femminile, Carbonia 1999, pp. 149. sguot@hotmail.com

In questo libro l’Autore, psicoterapeuta, medico psichiatra, analizza il significato del ciclo mestruale da un punto di vista medico-psicologico, con particolare attenzione alla sessualità della donna e al suo rapporto con la maternità. Intento dell’Autore è mettere in risalto come la cosiddetta tensione premestruale, accompagnata da irritabilità e tristezza, sintomi di depressione, sia dovuta al mancato concepimento: “è come se l’organismo femminile si accorgesse già prima  dell’incompiutezza del processo, di non aver raggiunto la finalità implicita, ovvero la fecondazione” (p. 51). Gerini afferma, infatti, che essendo la fecondità un bene e un valore profondamente insito nel corpo, “il suo venir meno è sempre causa di sofferenza, anche se vissuta più o meno consapevolmente” (p. 51).
  Sottolineando la finalità unitivo-generativa del ciclo mestruale (ovulazione e flusso mestruale) che la donna vive intensamente in tutte le fasi feconde della sua vita e che portano il suo corpo ad orientarsi verso una dimensione che sia soprattutto generativa e creativa, Gerini afferma che “non è nel profondo ed essenzialmente ricerca di piacere e desiderio di questo stato affettivo, ma quella di unità tra due esseri di sesso diverso che in questo incontro generano e custodiscono un’altra persona, il loro figlio” (p. 145). A questo proposito l’Autore distingue due momenti caratterizzanti il ciclo mestruale: il primo, culminante con l’ovulazione, si manifesta con una tendenza “centrifuga”, ossia orientata verso l’esterno, verso l’incontro sessuale che è un incontro unitivo e procreativo. Tutto il corpo partecipa a questa pulsione con espansioni affettive di tipo espansivo-comunicative. Se, tuttavia, il concepimento non è avvenuto, si ha la regressione del corpo luteo e la cessazione della sua attività ormonale. L’arrivo del flusso mestruale (secondo momento) ne è la manifestazione più evidente.
  Gli stati emotivi che si accompagnano al flusso mestruale sono molto diversi e possono essere individuati nella vergogna, nella colpa, nell’angoscia, nell’ansia, secondo una modalità esistenziale che ricorda alla donna il “fallimento” del progetto di fecondità insito nella natura stessa.
  Per tutti questi fattori Gerini afferma che il ciclo mestruale è la testimonianza di quanto “la sessualità sia connaturalmente legata alla generatività e il non raggiungimento di tale obiettivo è causa di sofferenza somato-psichica evidente, sebbene spesso molto sfumata” (p. 47).

Trovi il lavoro intero all'indirizzo http://www.psichiatriasirai.org/signif-ciclo-mestr-libro.htm

 

TEATRO E FOLLIA

METODO DI LAVORO

 di Claudio Misculin

Parlando di “metodo di lavoro”, mi sento in dovere da affermare che non esiste metodo in arte, esiste l’esperienza.
Io ho fatto un’esperienza alla quale ci si può riferire.
L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere senza l’accettazione e la ricerca lucida e deliberata del rischio (Kantor)
Ebbene il fattore rischio che ho scelto per giocare all’interno dell’arte è la “follia”.

E’ una ricerca che tiene aperti, spesso faticosamente, spazi che si vanno rapidamente omologando, sfere che tendono ad automizzarsi, nella schizzofrenia del singolo e in quella più generale.
Quindi il teatro diventa anche mezzo, strumento di concreta quotidiana mediazione d’oggetto con altri soggetti, sani o malati che siano. Luogo di produzione di cultura, attività di formazione alla relazione con uomini e donne e cose.
Siccome parliamo di una ricerca tra teatro e follia, che non esclude, ma travalica il mero aspetto terapeutico, per cogliere sino in fondo nel profondo l’essenza e la validità di tale metodo di lavoro, cominceremo a viverlo e a pensarlo come strumento efficace per un buon approccio al teatro, non solo per il matto, il disgraziato, il differente, ma anche per il normale che intende cimentarsi nel teatro.
E per finire sul “metodo di lavoro” vorrei dire due parole sull’eccesso, e cioè  Viviamo nella dimensione dell’anticipazione dei desideri. Cioè i miei desideri non nascono più da pulsioni interne, ma dalla scelta delle soluzioni fornitemi.
Faccio un esempio: posso scegliere tra mille tipi di dentifricio, ma non posso scegliere l’aria pura: non c’è più.
Viviamo già nell’eccesso: eccesso di mezzi, di strumenti, di ignoranza. Il risultato è incomprensione della realtà, incomprensione di se stessi, incomprensione.
Il palco è per convenzione il luogo deputato all’eccesso. E nel mio teatro questo è.
E’ il luogo magico, il luogo del delirio che offre le valenze alla ricomposizione immediata del soggetto, mentre oggettivamente è una finestra che permette la visione delle contraddizioni.
il sistema dell’eccesso.

 

"N O R M A L I T à"

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi e' infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicita'.
Pablo Neruda

 

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