CSMinformaNotiziario tra il serio, il faceto e pure l'ameno sulla salute mentale, la solidarietà e relativi dintorni e contorni nel territorio del Sulcis-Iglesiente (Sardegna, Italy) e, talvolta, pure Oltre. |
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(clicca sul titolo per accedervi) periodico di approfondimento sulle tematiche della salute mentale che prende spunto dagli argomenti del dibattito quotidiano al Centro di Salute Mentale di Carbonia.
In questo numero:
Il prendersi cura
(di Antonio Cesare Gerini)
"Corpo in azione" nella psicoterapia con il bambino
(di Magda Di Renzo)
Un modello per le dipendenze
(di Alessandro Floris et al.)
Le polarità
(di Simona Corrò)
Il gruppo Solidarietà ...
(di Ylenia Corrias)
La famiglia e la sua storia
(di Carla Corona)
Un modello concettuale per la gestione del rischio nel nursing
(di Antonello Cuccuru)
Digitale: il futuro della radiologia
(di Carlo Saba)
METODOLOGIA
“IL PRENDERSI CURA”
nel lavoro del Centro Salute Mentale di Carbonia
Spesso quando si discute degli interventi svolti in favore delle persone con disturbo mentale si enumerano tali interventi, mettendoli in fila e indicandone la quantità. Si fanno tante visite psichiatrico–psicologiche, tanti interventi socio-sanitari, tanti riabilitativi o sulla famiglia e così via. Sembra che procedere in questo modo sia necessario per dimostrare l’efficacia del servizio stesso.
Qui però, in questa riflessione, non si procederà a enumerare gli interventi svolti dal CSM di Carbonia, ma si cercherà di mettere in evidenza il metodo che sta alla base degli interventi stessi.
Il “prendersi cura” è il primo momento di tale azione. “Il prendersi cura” è lo specifico del nostro lavoro. L’altro polo, cioè le modalità “teatro”, "fattoria", "laboratori", "gruppi di auto aiuto" etc, sono l’oggetto tecnico dell’intervento. La parola “cura” del “prendersi cura” non va confusa con la parola che in medicina e scienze affini usano indicare concetti simili. Ad esempio non va confusa con la parola “terapia”. La terapia è solo una delle modalità del “prendersi cura”, una modalità al fianco delle altre. Una modalità che richiama ad un intervento medico (farmaco-terapia) o psicologico (psicoterapia) o sociale (socioterapia), ma che non esaurisce mai il “prendersi cura”. Il “prendersi cura” di cui qui vogliamo parlare si coniuga con le parole “ascolto”, “condivisione”, “attenzione”, in una parola “relazione”.
All’interno del nostro lavoro nella salute mentale il “prendersi cura” è alla base di ogni altra modalità di intervento: accoglienza, volontariato, lavoro nella fattoria, inserimento lavorativo nel sociale, assistenza all’abitare, ecc.
E’ opportuno fare un passo avanti per comprendere: “chi” si prende cura di “chi”?Forse possiamo sostituire la parola “Chi” con la parola “Qualcuno”. Allora potremmo dire che “qualcuno si prende cura di qualcuno”. Entrambi i “qualcuno” del “prendersi in cura” sono delle “soggettività personali”, sono delle persone. La “soggettività personale” è composta dai due termini “soggettività” e “personale”. C’è evidentemente un accento posto sul mondo soggettivo interiore e sulla contemporanea capacità di relazione del soggetto, attraverso il suo interno sentire, col mondo esterno, col mondo degli altri e il mondo delle cose. Possiamo, senza ulteriormente approfondire, chiamare persona questa “soggettività personale”.
Dunque:“una persona si prende cura di una persona”.La persona che pratica la psicoterapia è sempre molto di più della sua tecnica psicoterapica, come c’è sempre di più nella persona rispetto alla sua depressione, soprattutto se la depressione si declina col verbo avere (qualcuno ha la depressione). Se la depressione si declina col verbo essere, cioè è depressa, allora è depressa la persona e la depressione è personale quindi ogni depressione è diversa da un’altra in quanto ogni essere personale è irripetibile.
(l'articolo intero a cura di A.C. Gerini lo trovi al messaggio n. 111)
A PROPOSITO DI FOLLIA
“Deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180,
deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compito.”
(Franco Rotelli)
Perché la malattia è un dis-valore?
E’ sempre più chiaro che la malattia altro non è che l’ istituzionalizzazione della follia e quest' ultima, probabilmente, altro non è che la forma parossistica dell’istituzionalizzazione dei conflitti. Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei conflitti di norme (a seconda delle situazioni di espansione e di recessione economica di un paese) la relatività di un giudizio scientifico che di volta in volta muta l’irreversibilità delle sue definizioni? Come non sospettare che esse siano strettamente collegate e dipendenti dall’ideologia dominante? Questi sono alcuni temi fondamentali della nostra ricerca teatrale. Partiamo dalla denuncia di una vita impossibile per alludere ad un’altra vita che, per ora, non ha altro luogo dove poter essere se non la scena. Lavoriamo per poter adesso porci e un giorno opporci all’incedere di quella violenza materiale, culturale, politica che anche qui, anche oggi, nega ancora i diritti fondamentali. Il problema allora non sarà quello della guarigione, ma dell’emancipazione, non la restituzione di salute, ma l’invenzione di salute, non laboratori per l’ortopedia delle libertà negate, ma laboratori per la riproduzione sociale della gente. (Accademia della Follia)
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PROVOCAZIONI
Discussione
Qualcuno ha scritto che un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia e produce un articolo scientifico. Ma il processo non è così immediato: qui sulla terra un farmaco è una sostanza che viene somministrata ad una cavia, produce un articolo scientifico che riceve una commenda da almeno un docente (sempre assai noto in America e già membro dell'OMS) ed è citato in un congresso ai Tropici. Il rimedio entra quindi in produzione e viene proposto all'Autorità comPetente che - attesa la sostanziale ignoranza del funzionariato, in assenza di alcuna opposizione scientifica (naturalmente, a parte quelle eventuali delle qualificate Commissioni prePoste!) - approva.
Ora ha inizio la sperimentazione sulla popolazione e i risultati sono sempre positivi o, al massimo, discutibili e discussi, ma mai negativi. Solo in un caso - in quanto naque una popolazione di bambini affetti da gravi (ed evidenti) malformazioni e la farmaceutica non prese in tempo la stampa per il collo e un farmaco - un sedativo antinausea e antipnotico, guarda un po' - fu ritirato con grande scandalo. Passarono somme ingenti, certo, però nessuno andò in galera.
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Post n°190 pubblicato il 12 Dicembre 2008 da csmcarbonia
Quali pulsioni |
Post n°189 pubblicato il 15 Novembre 2008 da csmcarbonia
Eluana Englaro «È giovane ed è stata assistita bene, si prospetta una lunga agonia». Insieme a 34 associazioni prepara un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro una sentenza che, per la prima volta in Italia, autorizza la morte di una persona |
Post n°188 pubblicato il 13 Novembre 2008 da csmcarbonia
Compagnia Teatro Albeschida presenta Un Ponte Sulla Scena incontri ... azioni teatrali e interazioni ... 28 novembre 5 dicembre 12 dicembre 16 gennaio 30 gennaio |
Post n°187 pubblicato il 07 Novembre 2008 da csmcarbonia
Carissime Amiche e Amici, siamo lieti di invitarvi tutti alla serata di solidarietà per l’Etiopia V edizione del Concerto per l'Etiopia Giovedì 4 Dicembre 2008, ore 20.30 Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia I fondi raccolti durante la serata Orchestra sinfonica diretta dal
Pianista Iniziativa promossa da IISMAS Onlus Per informazioni rivolgersi all’IISMAS: |
Post n°186 pubblicato il 27 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Viola d'inverno Arriverà che fumo o che do l'acqua ai fiori, |
Post n°185 pubblicato il 19 Ottobre 2008 da csmcarbonia
LA COSCIENZA? di CARLO OSSOLA Luigi Aurigemma ( Napoli 1923 – Parigi 2007) è stato tra i fondatori della Società francese di psicologia analitica e ha curato la monumentale edizione italiana delle Opere di C. G. Jung ( 19 voll. in 24 tomi) presso l’editore Boringhieri ( 1969¬2007). Presso lo stesso editore appare ora, postumo, Il risveglio della coscienza, libro che merita la più attenta lettura. Il fulcro è nel saggio, sin qui inedito, Qualche riflessione sulla morte, la cui tesi centrale propone: « per una qualche parte almeno, la psiche, cioè la coscienza, sfugge o può sfuggire al tempo della vita» . |
Post n°184 pubblicato il 19 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Le filosofie del nulla vincono
Li abbiamo sotto gli occhi. Li vediamo storditi, eccitati e un po’ rimbambiti, per strada quasi tutte le sere, o nelle idiote notti bianche o di qualche altro colore inventate da sindaci e assessori. O nei concerti, nei bar, nei locali pulsanti di musica. Li vediamo, o non li vediamo ma li 'sappiamo', nelle feste, in quelle cose che, dài, sono cose tra ragazzi, le feste, i viaggi, le notti... Quasi il venti per cento dei nostri under 18 usa normalmente alcool e superalcolici. In Europa un giovane su quattro muore per violenze (o suicidi) legati all’alcool. Sono cresciuti fino a 61.000 gli alcool-dipendenti assistiti dai servizi sociali, il 19% per cento di più in un anno. E di questi il 15% è fatto di giovani. I nostri ragazzi bevono. Iniziano presto. E poi bevono molto, e male. Non buon vino ai pasti. O magari qualche alzata di gomito in allegria. No, un abbeverarsi di bassa lega, robetta carica di alcool, mix strani stravenduti in ogni supermercato o autogrill. E si beve solo per un motivo, in fondo, come diceva un vecchio adagio: per dimenticare. Ma cosa deve dimenticare un diciassettenne? Un sedicenne? Che spavento di vita, se c’è da doverla dimenticare così presto. Si beve per cercare l’oblìo. La parola sballo, che di solito viene usata, è inesatta. È, per così dire, troppo allegra. In questo bere tanto e bere male dei ragazzi non c’è nulla di allegro. Girano in branco e dunque l’alcool – o altre cosette più 'forti' – serve a dare la dose di eccitazione per divertirsi. Appunto: per dimenticare che in realtà non si sta facendo quasi mai nulla di veramente divertente, gioioso. Serve un po’ di eccitazione alcolica per dimenticare non solo il passato, ma il presente un po’ idiota e ripetitivo. Bevono per dimenticare il presente. Oblìo invece di presenza. Nebbia invece di sguardo. Le filosofie del nulla non vincono nei convegni o sulle pagine patinate delle riviste glamour che grondano cinismo: le filosofie del nulla vincono nei bar, nei ritrovi dei ragazzi. Colpiscono, come sempre, i più fragili. Lo sguardo velato di cinismo dei grandi cosiddetti maestri del pensiero della nostra epoca –quelli per cui la vita è in fondo una fregatura, da dimenticare o da impugnare contro qualcuno o qualcosa – è diventato lo sguardo annebbiato di tutti questi ragazzi. I maestri e i ragazzi pensano la stessa cosa: che la vita sia da dimenticare. Solo che i primi fanno carriere e conferenze, festival e pubblicazioni. I ragazzi invece bevono, cercano l’oblìo. Hanno tolto da davanti agli occhi dei ragazzi l’abisso di Dio e del cuore umano, l’ebbrezza dell’anima e la possibilità di perdizione. Hanno celato ciò che davvero può inebriare di vita la vita. Hanno irriso la grandezza dell’uomo e del suo cuore. E del destino. Li hanno lasciati con ubriachezze di bassa qualità, con oblii da venerdì sera. Vedete forse qualcuno di queste grandi firme di giornali e tv, qualcuno di questi intellettuali inquieto per i nostri ragazzi? Fare ammenda? O interrogarsi con le loro firme dorate (e ben pagate)? C’è una emergenza educativa. E lo ripete l’onorevole Roccella, presentando questi dati, in vista della Conferenza nazionale dell’alcool di domani e martedì a Roma. Ma si deve pure dire che l’emergenza educativa non si può affrontare senza accusare e combattere i cosiddetti maestri del pensiero propagandati come tali da libri e tv e giornali. L’emergenza educativa comporta anche una lotta. Si tratta di criticare culturalmente e socialmente i maestri che, coi loro occhi velati di cinismo, si sporgono da ogni pulpito, on line, radiofonico, televisivo, libresco e scolastico, ad affermare che la vita va dimenticata. E che nulla della vita rende 'ebbri', cioè allegri: né Dio, né l’amore, né l’arte. Ubriacatevi sempre, diceva invece Baudelaire. E intendeva di vita intensa, sentita nelle sue grandi e rischiose dimensioni. Occorrono luoghi dove i ragazzi scoprano la vita piena, come rischio e avventura. Dove avvertano come odiosa la ricerca dell’oblio, e dell’allegria finta e velenosa. |
Post n°183 pubblicato il 11 Ottobre 2008 da csmcarbonia
da Gabriel Marcel (Etre et Avoir) ….. Il carattere dell’essere umano è di essere all’opposto di ciò che è chiuso in sé, racchiuso come una scatola, “incapsulato”. Gabriel Marcel (nella foto, n.d.r.) ha diretto una critica singolarmente acuta contro l’idea di autonomia. Essa suppone un io rigorosamente circoscritto che gestisco in piena indipendenza, o nel quale io fungo da legislatore, ciò che è solo una forma astratta della gestione. Ma al contrario di questo presupposto, “io non mi appartengo”. Il rapporto da me a me non è un rapporto di avere. Solo l’uomo indisponibile si mantiene nell’avere. Suicidarsi è disporre di sé in massimo grado e in questo senso si può dire che c’è opposizione diretta tra il suicidio e il martirio. Il sé dell’indisponibilità è un ispessimento, una sclerosi, una sorta di espressione sottilizzata, non del “mio corpo”, che è un aspetto della mia esistenza, ma di “questo” corpo che “si” dice mio, preso come oggetto, come cosa che io ho. Certo, la conquista della vita personale esige una condotta permanente di raccoglimento. Ma Gabriel Marcel è molto duro riguardo alla nozione di vita interiore: L’interiorità richiama una costante componente dialettica d’esteriorità. Vivere intensamente, è essere esposti, nel duplice senso in cui la parola indica la disponibilità alle influenze esterne e l’affrontamento caratteristico della persona, il coraggio di esporsi. Vivere personalmente, è assumere una situazione e delle responsabilità sempre nuove e superare incessantemente la situazione acquisita. Esistere è dunque prendere tutt’altra direzione da quella verso la quale il moto geloso del desiderio mi trascina, è tutt’altra cosa che vivere soltanto la vita, la mia vita. “C’è una cosa che si chiama vivere, e c’è una cosa che si chiama esistere: io ho scelto di esistere”. Il mio essere non si confonde con la mia vita, io sono anteriore alla mia vita, non sono coperto del tutto da essa, sono al di là di essa. La persona è un movimento per superare la vita in ciò che essa è, in ciò che non è. “ il suo motto non è sum, ma sursum”. L’interiorità è, come una serietà, una nozione dialettica. La spiritualità, in un certo senso, è interamente moto verso un intimius intimo meo come è anche moto verso un al di fuori e un al di là di me stesso. Ora, il raccoglimento afferra nel corso della sua tensione una sorta di adesione di me a me stesso; esso può sviluppare sul suo cammino una specie di autosoffocamento che è il rischio proprio di una vita spirituale troppo attenta a se stessa. Un buon soldato o un buon sportivo sono uomini dei quali l’abilità e l’attenzione sono state massimamente sviluppate; e benché siano stati formati così per la massima perfezione, nondimeno sono stati nello stesso preparati anche all’oblio totale di sé in seno al gruppo o nella lotta. Così è della vita personale. Perché restino sane l’interiorità della vita personale e l’amore del prossimo, bisogna che noi sappiamo anche coltivare la distanza, e che con Nitzsche, non temiamo di disinfettare spesso il gusto di ciò che è più vicino con l’amore del remoto. |
Post n°182 pubblicato il 05 Ottobre 2008 da csmcarbonia
di Emmanuel Mounier ... L’ottimista è colui che conta sempre sull’avvenire, il disperato incastrato nel finito è colui che non conta più su niente e nessuno. Ma entrambi contano. Essi dispongono delle cose e di sé, e giudicano del gioco. “l’inventariabile è il luogo della disperazione”. L’ansietà, la paura dell’avvenire, sentimenti più modesti, sono già malattie dell’avere.. La speranza, invece, è primitivamente un rilassamento dell’io, un rifiuto di voler disporre di me, di calcolare le mie possibilità, una distrazione ontologica volontaria, un abbandono. Non è un modo di beatificare i miei desideri, perché essa è tanto più autentica quanto più si allontana dal desiderio, e rifiuta di immaginare la sostanza della cosa sperata. Ma essa è pazienza, cioè rinuncia alla premura, all’indiscrezione davanti a ciò che, nel mondo, può nascere indipendentemente dalla mia azione possibile. Non considera il mondo come inventariabile, dunque esauribile, ma al contrario inesauribile. Rifiuta di calcolare le possibilità, e generalmente di misurare le forze in gioco. In questo senso e su questo piano, essa è una distanza presa nei riguardi del mondo funzionalizzato delle tecniche, formato al servizio dei miei desideri; essa afferma l’inefficacia ultima delle tecniche nella risoluzione del destino dell’uomo. Essa ci pone al polo opposto dell’avere e dell’indisponibilità. Fa credito, dà del tempo, dà spazio all’esperienza in corso. La speranza è il senso dell’avventura aperta, tratta la realtà come generosa, anche se questa realtà deve apparentemente ostacolare i miei desideri. Noi possiamo rifiutarci alla speranza come all’amore. Essa è dunque una virtù, e non una consolazione o una facilità. Ma è più di una virtù. Entra nelle statuto ontologico di un essere definito come trascendente all’interno di se stesso. Accettarla o rifiutarla, è accettare o rifiutare di essere uomo. ... |
Post n°181 pubblicato il 05 Ottobre 2008 da csmcarbonia
Chiedo anch’io la libertà di coscienza. di GIUSEPPE BETORI Sul Foglio di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo «addio» «a molti cari amici - in quanto cattolici» , «un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica» . |
Post n°180 pubblicato il 04 Ottobre 2008 da csmcarbonia
NON OSAVAMO dirlo. Ma li avevamo individuati, da tempo. Non ci piacevano per niente. Ma non era una questione di meschina invidia. No, qualcosa di piu', che non sapevamo definire. Loro erano i “felici”. Quelli con un sorriso stampato in volto, la pelle rilassata, gli occhi sempre leggermente oltre la testa di chi gli sta di fronte. Camminano e si muovono come fossero in un “mondo caramellato”. Roba da rabbrividire. Gente fuori posto. Ora a confermarci questa idiosincrasia, ci arrivano poderose ricerche dall’Inghilterra , dove hanno scoperto che la felicità e' una malattia, frutto del funzionamento anomalo del sistema nervoso centrale. Il felice-sempre e' uno che ha un rapporto distorto con sè, con gli altri, con il mondo. E', ecco ciò che non riuscivamo a definire, un essere pericoloso. Qualcuno che apertamente cerca di farci credere che abitiamo il migliore dei “mondi possibili”, dove non esiste fame, guerra, ingiustizia, in felicità. E' uno in preda alla PRONOIA (il contrario della paranoia) alla mania di credere che tutti lo amino. La sua e' una percezione fallita, senza scampo. Il “felice- sempre”, si aggira, un po' FORREST GUMP, fra le macerie dei sentimenti e del mondo, come passeggiasse su un tappeto persiano, un giardino delle Mille e una notte, sentendo i piedi accarezzati, ascoltando usignoli e zampillii di fontane. Gli scienziatii inglesi ci assicurano che la sua mania lo porterà alla schizofrenia. Non ci fa piacere. Ma ci irrita, prima che la raggiunga, questo suo “sentimento” a senso unico, incapace di sofferenza. Di infelicità. Per lui tutto è a posto. Tutto è ok. Non sentire l'infelicità è come non avere il cuore, non avere la testa. Non avere il metro per misurare noi stessi e il mondo. Non avere per le mani quella scala da salire con fatica verso quel traguardo che vogliamo lontano, irraggiungibile. La felicità appunto. Qualcosa che non è mai esistita, non esisterà mai, da nessuna parte. ARABA FENICE, UNICORNO, PARADISO, BACIO DI CYRANO. E' solo nell'errare verso la felicità che non c'è, verso l'isola che non c'è, che si può cogliere il senso della felicità. Un errare che è anche il modo per continuare a vedere, a misurarsi con il mondo che bello non e'. E che si prova a migliorare con una Cappella Sistina, un Palazzo, una Gioconda, una torre di Pisa… Fatti da persone che felici non erano. (di psicologiaforense). |
Post n°179 pubblicato il 27 Settembre 2008 da csmcarbonia
Staminali: ora cambia tutto. E’ stato chiamato il «padre» delle staminali embrionali. Ma lo stesso James Thomson (nella foto) ammette in questa intervista concessa ad Avvenire che, dieci anni fa, quando ha isolato la prima cellula indifferenziata estratta da un embrione umano, non si era reso conto delle profonde ripercussioni morali che la sua scoperta avrebbe avuto. Per questo negli ultimi anni, pur non disconoscendo l’uso delle cellule embrionali, ha dedicato le sue energia a superare i dubbi etici che circondano l’uso di embrioni a scopo scientifico o terapeutico. E ci è riuscito. Quello che il suo laboratorio ha isolato dieci mesi fa simultaneamente all’équipe del giapponese Shinya Yamanaka, dice, «cambia tutto». Thomson e altri ricercatori dell’Università del Wisconsin hanno inserito quattro geni in cellule della pelle di individui adulti, riprogrammandole e spingendole a comportarsi come cellule staminali embrionali. Thomson accetta volentieri di spiegare il suo pensiero a margine del Congresso mondiale sulle staminali, appena concluso proprio nel Wisconsin. Professor Thomson, cos’è cambiato nel suo lavoro dopo che ha scoperto la possibilità di sviluppare linee di «cellule staminali pluripotenti indotte» provenienti dalla pelle di individui adulti? «Che queste cellule non sono estratte da embrioni. Biologicamente parlando sembrano avere le stesse caratteristiche delle cellule embrionali: queste cellule sono notevolmente simili per il semplice fatto che in teoria possiamo farle trasformare in qualsiasi tessuto del corpo umano in cui vengano trapiantiate. Inoltre, usando questa tecnica le cellule estratte da persone affette da varie malattie possono essere usate per far crescere in laboratorio parti dell’organo affetto dalla malattia stessa: un’operazione che potrà mostrare, ad esempio, se la malattia è stata causata da un difetto genetico». Qual è il vantaggio scientifico di questa scoperta? «Il tessuto proviene dallo stesso paziente, contiene il suo patrimonio genetico. Questo ci condurrà prima di tutto a produrre più velocemente farmaci migliori e meno costosi. Forse inizialmente ciò avverrà in un modo che non farà notizia, che non comparirà sulla prima pagina del New York Times, ma che cambierà radicalmente la vita di molti pazienti». A che stadio è la ricerca di possibili applicazioni cliniche? «Ci sono già sforzi in atto, tentativi di usare le staminali per produrre sangue umano, che potrebbe essere usato per incrementare la disponibilità di sangue per trasfusioni, sempre scarsa. Altre terapie cellulari, compresi i trapianti per rimpiazzare cellule danneggiate o distrutte, sono da collocare più in là nel futuro». Può darci una stima del tempo che ci vorrà perché queste sperimentazioni diventino terapie utilizzabili negli ospedali? «Per i trapianti di cellule, direi cinque o dieci anni. Ma gli scienziati sono notoriamente poco portati a fare predizioni realistiche. Non ho dubbi sul fatto che ci attendono molte difficoltà. Dobbiamo rimboccarci le maniche e lavorare sodo, perché c’è molto da fare. Questi risultati non arrivano da un giorno all’altro». Quali sono gli ostacoli più consistenti da superare? «Ci sono potenziali ostacoli alla diffusione di terapie di trapianto usando le staminali. Dobbiamo essere in grado di realizzare cellule del tipo che ci interessa, vanno eliminati i dubbi sulla sicurezza delle terapie, come la possibilità che le staminali provochino lo sviluppo di tumori. E dobbiamo integrare le nuove cellule all’interno del corpo in una forma fisiologicamente utile. Questo può avvenire più velocemente in alcune parti del corpo rispetto ad altre». In quali parti del corpo prevede che sarà più facile trapiantare efficacemente cellule staminali pluripotenti indotte? «La maggior parte delle malattie che studiamo coinvolge il sistema cardiovascolare o il sistema nervoso centrale. Sebbene siano entrambi sistemi molto complessi, i trapianti cellulari saranno più facili nel cuore che nel sistema nervoso. Gli scienziati sono già in grado di produrre cellule cardiache a partire dalle cellule pluripotenti indotte, tanto che le stanno già usando per sperimentare nuovi farmaci. Invece il sistema nervoso è talmente complesso che i trapianti di cellule nervose potrebbero risultare più difficili e richiedere più tempo. Nel breve termine, però, l’osservazione in laboratorio di queste cellule potrebbe aiutare gli scienziati a capire perché il morbo di Parkinson, ad esempio, si manifesta in alcuni individui e non in altri. Le cellule potrebbero anche condurre alla creazione di terapie che prevengano la malattia o ne arrestino l’avanzamento, in modo che i pazienti possano avere una migliore qualità della vita. L’uso delle staminali pluripotenti per veri e propri trapianti risulterà più arduo. Una cosa è produrre tessuti in provetta, un’altra essere in grado di reinserirli nel corpo e ristabilire le connessioni necessarie a dare loro la funzione che devono avere. Ma credo che, prima ancora che nei trapianti, le cellule pluripotenti verranno utilizzate come cellule 'di supporto' per aumentare il flusso sanguigno nell’area affetta da degenerazione e far ricrescere le cellule danneggiate». Si chiamano «staminali pluripotenti indotte»: sono cellule adulte E a ottenerle, insieme al giapponese Yamanaka, è stato lui, James Thomson Che ora punta sulla ricerca «etica» IN SINTESI (tratto da Avvenire del 25.09.08) |
Post n°178 pubblicato il 05 Settembre 2008 da csmcarbonia
«Lo stato vegetativo? di Viviana Daloiso C’è confusione, su Eluana. Tanta da far sbottare anche uno come Giuliano Dolce, luminare di livello internazionale, tra i massimi esperti nel campo della neuroriabilitazione. Per lui – che dal 1996 dirige l’Unità di risveglio dell’Istituto Sant’Anna di Crotone – "irreversibilità" degli stati vegetativi e "sospensione" sono termini insulsi, fuorvianti. Da chiarire una volta per tutte. Professore, si è tornati a parlare di Eluana negli ultimi giorni, e col solito argomento: quello dell’irreversibilità del suo stato vegetativo. Proviamo a fare chiarezza su questo punto: quando uno stato vegetativo può essere definito irreversibile? |
Post n°177 pubblicato il 28 Agosto 2008 da csmcarbonia
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INFO
C O N T A T T I
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RECENSIONE DA MEDICINA E MORALE
Gerini Antonio Cesare, Il significato del ciclo mestruale. Appunti Sparsi sul femminile, Carbonia 1999, pp. 149. sguot@hotmail.com
In questo libro l’Autore, psicoterapeuta, medico psichiatra, analizza il significato del ciclo mestruale da un punto di vista medico-psicologico, con particolare attenzione alla sessualità della donna e al suo rapporto con la maternità. Intento dell’Autore è mettere in risalto come la cosiddetta tensione premestruale, accompagnata da irritabilità e tristezza, sintomi di depressione, sia dovuta al mancato concepimento: “è come se l’organismo femminile si accorgesse già prima dell’incompiutezza del processo, di non aver raggiunto la finalità implicita, ovvero la fecondazione” (p. 51). Gerini afferma, infatti, che essendo la fecondità un bene e un valore profondamente insito nel corpo, “il suo venir meno è sempre causa di sofferenza, anche se vissuta più o meno consapevolmente” (p. 51).
Sottolineando la finalità unitivo-generativa del ciclo mestruale (ovulazione e flusso mestruale) che la donna vive intensamente in tutte le fasi feconde della sua vita e che portano il suo corpo ad orientarsi verso una dimensione che sia soprattutto generativa e creativa, Gerini afferma che “non è nel profondo ed essenzialmente ricerca di piacere e desiderio di questo stato affettivo, ma quella di unità tra due esseri di sesso diverso che in questo incontro generano e custodiscono un’altra persona, il loro figlio” (p. 145). A questo proposito l’Autore distingue due momenti caratterizzanti il ciclo mestruale: il primo, culminante con l’ovulazione, si manifesta con una tendenza “centrifuga”, ossia orientata verso l’esterno, verso l’incontro sessuale che è un incontro unitivo e procreativo. Tutto il corpo partecipa a questa pulsione con espansioni affettive di tipo espansivo-comunicative. Se, tuttavia, il concepimento non è avvenuto, si ha la regressione del corpo luteo e la cessazione della sua attività ormonale. L’arrivo del flusso mestruale (secondo momento) ne è la manifestazione più evidente.
Gli stati emotivi che si accompagnano al flusso mestruale sono molto diversi e possono essere individuati nella vergogna, nella colpa, nell’angoscia, nell’ansia, secondo una modalità esistenziale che ricorda alla donna il “fallimento” del progetto di fecondità insito nella natura stessa.
Per tutti questi fattori Gerini afferma che il ciclo mestruale è la testimonianza di quanto “la sessualità sia connaturalmente legata alla generatività e il non raggiungimento di tale obiettivo è causa di sofferenza somato-psichica evidente, sebbene spesso molto sfumata” (p. 47).
Trovi il lavoro intero all'indirizzo http://www.psichiatriasirai.org/signif-ciclo-mestr-libro.htm
TEATRO E FOLLIA
METODO DI LAVORO
di Claudio Misculin
Parlando di “metodo di lavoro”, mi sento in dovere da affermare che non esiste metodo in arte, esiste l’esperienza.
Io ho fatto un’esperienza alla quale ci si può riferire.
L’arte è un’apertura permanente che non si può vivere senza l’accettazione e la ricerca lucida e deliberata del rischio (Kantor)
Ebbene il fattore rischio che ho scelto per giocare all’interno dell’arte è la “follia”.
E’ una ricerca che tiene aperti, spesso faticosamente, spazi che si vanno rapidamente omologando, sfere che tendono ad automizzarsi, nella schizzofrenia del singolo e in quella più generale.
Quindi il teatro diventa anche mezzo, strumento di concreta quotidiana mediazione d’oggetto con altri soggetti, sani o malati che siano. Luogo di produzione di cultura, attività di formazione alla relazione con uomini e donne e cose.
Siccome parliamo di una ricerca tra teatro e follia, che non esclude, ma travalica il mero aspetto terapeutico, per cogliere sino in fondo nel profondo l’essenza e la validità di tale metodo di lavoro, cominceremo a viverlo e a pensarlo come strumento efficace per un buon approccio al teatro, non solo per il matto, il disgraziato, il differente, ma anche per il normale che intende cimentarsi nel teatro.
E per finire sul “metodo di lavoro” vorrei dire due parole sull’eccesso, e cioè Viviamo nella dimensione dell’anticipazione dei desideri. Cioè i miei desideri non nascono più da pulsioni interne, ma dalla scelta delle soluzioni fornitemi.
Faccio un esempio: posso scegliere tra mille tipi di dentifricio, ma non posso scegliere l’aria pura: non c’è più.
Viviamo già nell’eccesso: eccesso di mezzi, di strumenti, di ignoranza. Il risultato è incomprensione della realtà, incomprensione di se stessi, incomprensione.
Il palco è per convenzione il luogo deputato all’eccesso. E nel mio teatro questo è.
E’ il luogo magico, il luogo del delirio che offre le valenze alla ricomposizione immediata del soggetto, mentre oggettivamente è una finestra che permette la visione delle contraddizioni.il sistema dell’eccesso.
"N O R M A L I T À"
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi e' infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicita'.
Pablo Neruda
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il 19/04/2010 alle 13:22
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