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C'era una volta l'Italiano 10

Post n°117 pubblicato il 14 Marzo 2010 da tino.pos

C’era una volta … l’Italiano

Considerazioni (un po’) amare

di Nino L. Bagnoli

(10) 

Nuovo florilegio (2) 

«C’ho» - «c’hanno» - «c’ha», e via strafalciando in allegria. Tutto ha avuto origine con il tentativo, maldestro, di rendere graficamente il tormentone di Di Pietro che, ad ogni piè sospinto, deliziava «il colto e l’inclita» con il suo rituale, burino «che ci azzecca?» (che c’entra?), pronunciato con un’ unica emissione di voce. I cronisti rimasero colpiti (e ti pareva!?) da questo intercalare insolito (per loro) e ci si buttarono sopra, nelle loro cronache, cercando di fare del folclore. Ma, impreparati in ortografia com’erano (e come son rimasti), scrissero, pari pari, «che c’azzecca», dimenticando (o, come noi crediamo, ignorando) che le particelle e (suono palatale della , cioè “dolce”) si possono apostrofare solo davanti a parole che comincino con o con , perché solo quelle due vocali possono attribuire alla il suono “palatale”. Davanti alle vocali e davanti alla non si possono apostrofare, perché, altrimenti, così facendo, avrebbero costretto il lettore a pronunciare «co», «canno> e «ca». Lo strafalcione piramidale fece subito scuola (ricordate la legge economica «la moneta cattiva scaccia la moneta buona»?). I titolisti dei giornali, quelli dei sottotitoli nei Tiggì si distinsero col massimo “disonore”, complice la colpevole indifferenza dei direttori. Forse anche questi ultimi hanno qualche debito formativo nel campo della grammatica.  Chi riuscirà ad estirpare la mala pianta?

«come diceva La Palisse …» - Quante volte non abbiamo incontrato questa ignobile frase, o una simile? Per i “torturatori” della Lingua, il Signor di La Palisse (meglio: de la Palice) avrebbe pronunciato una solenne ovvietà da cui sarebbe, poi, nato l’aggettivo «lapalissiano», per indicare un concetto evidente, logico, naturale, come, per es. “Quando scrive in versi, non scrive in prosa” , oppure “Quando stava a Roma, non stava certo a Milano”  e così via. Beh, direte voi, e non è così? Certo che è così, però, c’è un però, grosso come una casa. E il però è che il Signor di La Palice non scrisse né pronunciò mai né una ovvietà né altro che sia passato alla storia. Per il semplice fatto che egli, Jacques de Chabannes de La Palice, nato nel 1470 (circa), fu un militare francese, Maresciallo di Francia, caduto, da eroe, a Pavia, il 24 febbraio 1525, nel corso della terribile battaglia tra gli eserciti di Francesco I di Francia e dell'imperatore Carlo V.
Cento anni dopo il poeta giocoso Bernard de la Monnoye (1641-1728), prendendo spunto da una frase incisa sulla tomba del Maresciallo, scrisse una poesia per soldati, nella quale ogni quartina esprime una ovvietà. Leggiamone una, la più nota e la più citata: «Morto è il signor de la Palice, / morto davanti a Pavia, / Un quarto d'ora prima di morire, / era in vita tuttavia.» Ecco disvelato il mistero …

«rischiare di vincere» (Giletti – l’Arena -14.2.10)  - «Rischiare», in Italiano, ha un preciso significato: “Correre il rischio”, “Possibilità di conseguenze dannose o negative”, “ Pericolo”, “Evento pericoloso”  ecc. Quindi, a rigor di logica, si può «rischiare di perdere», non di «vincere». È strano che un laureato in legge (come tale lo indicano le biografie disponibili in rete), possa commettere un tale errore. 

«ho uscito dei soldi» - Questa locuzione sgrammaticata è stata pronunciata recentemente in Tivvù. È la arbitraria trasposizione in lingua di una costruzione diretta propria di alcuni dialetti meridionali, nei quali il verbo «uscire» ha anche la proprietà transitiva, e quindi può reggere un complemento oggetto. In quei dialetti è comune sentir dire «Devo ancora uscire il cane», nel senso di “devo ancora portar fuori il cane”. Ma in Italiano, no, mille volte no, «uscire» è intransitivo e basta. 

«file - fila» - È un altro errore lessicale che non si riesce ad estirpare. Di qui anche un errore grammaticale. Tutto origina dal fatto che il nome comune «filo» ha due plurali: «fili» e «fila», il primo per i significati comuni, il secondo solo in alcune locuzioni, come "far le fila”, detto dei formaggi molli, e “reggere le fila” di una congiura, di un complotto, o, più semplicemente, il “fili” delle marionette, come i «pupi» siciliani. Ma queste «fila» non vanno confuse con «la fila», quella alle fermate del tram, allo sportello delle Poste. Questa «fila» al plurale fa «file». Quindi, si milita nelle “file” dell’Esercito, nelle “file” di un partito ecc. Semplice, no? Però gli italiani hanno innato il gusto di complicarsi la vita, ed ogni occasione è buona.

(10 – Continua)

 
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