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"ROBERTA" del romanziere Luciano Zùccoli

Post n°103 pubblicato il 30 Novembre 2011 da ciapessoni.sandro
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“ROBERTA” del romanziere Luciano Zùccoli

 

Immagina Roberta…

[…] – Muoio!

[…] e la figura bianca della vergine insanguinata, ritta fra le braccia del compagno che la sorreggeva, precipitò nella spessa ombra d'una galleria come in una voragine profonda.

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NOTA

A causa della scarsa disponibilità di tempo cui dedicare al Web, mi trovo costretto - mio malgrado - dover limitare i miei personali ringraziamenti soltanto ai visitatori che lasceranno l'eventuale loro giudizio nello spazio dedicato ai commenti, nella pagina del Post di loro interesse. Poiché ho sempre considerato la loro presenza una gradita collaborazione, resta perciò inteso il mio sentito ringraziamento che sinceramente esprimo già da ora per le future visite che seguiranno. Con tutta la mia stima, il mio cordiale saluto.

Sandro Ciapessoni.

*** ***

Conclusione CAPITOLO XIX° e FINE dell’opera.

Proveniente da Milano, il treno per Ventimiglia era in ritardo di trenta minuti; la giovinetta si recò nella sala d'attesa. Sedette; sentì che il male e la stanchezza precipitavano su di lei con peso inesorabile; doveva fortemente resistere per non curvare le spalle, per tener gli occhi aperti; ma portava spesso la mano al collo, al petto, dove un'arsura di fuoco la divorava; batteva la lingua contro il palato, temendo d'assaggiar l'orribile sapor dolciastro del sangue. Ebbe di nuovo il movimento brusco per volgersi a guardare se non le stesse alle reni uno spettro visibile; s'accorse di ciò che faceva, e rabbrividì pensando che aspettava la morte e poteva giungere la follia.

Dove andava?... Non aveva scritto in fronte l'angoscia e il terrore?... Perché la guardavano tutti?... Che cosa diceva il suo volto?... A fatica si alzò e andò fino a un grande specchio nel mezzo della parete centrale. Il suo volto diceva che in un sol giorno la freschezza della giovane età era smarrita per sempre; magre e pallide le guance, accese le labbra, cerchiati gli occhi d'un giro lividastro; poteva essere bella, per la straordinaria espressione di sfinitezza e per la grande ombra di malinconia.

Poiché udiva dei passi, il dovere della vita la riprese, e finse d'acconciarsi il veletto; ritornò al divano, studiandosi d'allargar le spalle e d'ergere il busto.

Era prudenza, forse, passar la notte a Genova e partire il giorno appresso.

Cercò il facchino con lo sguardo, per consegnargli le valigie e farle recare a qualche prossimo albergo.

Aveva deciso d'essere prudente, di fermarsi a Genova, di riposare. Ma in quel punto, un impiegato gridò la partenza per Ventimiglia.

- Per Ventimiglia? - domandò il facchino, accorso a riprender gli oggetti. - Va a Ventimiglia, la signora? - egli ripeteva.

- Sì, - disse la fanciulla, ancora guardandosi intorno smarrita. - Per Ventimiglia!

Fermarsi a Genova? Con quale scopo?... Essere prudente? Per chi? Da quell'ora, tutte le vicende erano sue; ella si trovava sola e libera. L'aveva desiderata con ogni forza, quell'ora, l'aveva sognata! Ed ecco, la realtà; ecco, il sogno tramutatosi in fatto: non la visione di un'esistenza piena di avvenimenti inaspettati e rosei; ma la visione, più lucida che mai, del proprio cadavere freddo e rigido sopra un catafalco ricco di drappi funerei, presso una finestra spalancata in faccia alla campagna eterna...

Trovò posto in uno scompartimento di prima classe, vuoto, sperando di potere stendersi e dormire, non appena uscito il treno dalla stazione.

E sentiva che già Emilia aveva udito la carrozza fermarsi avanti al cancello, che già l'uomo aveva portato la lettera, che già la sorella aveva mandato il grido... Ritornare? Non trascinare altri nella rovina?... Cesare Lascaris avrebbe ripetuto con la voce fischiante di sarcasmo: «Lo sapevo, che la signorina legge troppi romanzi!» Mentre sotto la tettoia annerita accendevano i bracci a gas, e mentre i viaggiatori passavano e ripassavano, - romore di treni in moto, globi di vapor bianco diffusi, cantilene d'impiegati ad annunziare le partenze, suoni della campana ad avvertir gli arrivi, - mentre la vita fremeva, Roberta si tolse i guanti, e studiò la morte sulle pallide mani, dalle dita lunghe e affusolate, dalle unghie lucenti; pallide mani, che narravan tutta l'anima di lei, facile a smarrirsi, incapace a calcolare, pronta a violenze ingenue.

La fanciulla piombò in una disperata tristezza così assorbente, che ella non s'avvide come all'ultimo, quando il treno s'avviava a ritroso fuor della stazione, - un viaggiatore fosse salito nel suo scompartimento; ma sollevando gli occhi, ebbe un moto involontario di stupor timoroso. L'uomo la salutò, prese posto di fronte, l'avvolse tutta dalla testa ai piedi in uno sguardo scrutatore, che la fanciulla non aveva mai sofferto e che la costrinse a volgere il capo, fingendo di guardar dallo sportello.

Il treno si lanciava sotto la bella luce del tramonto tingente di carnicino gli edifizi dei sobborghi di Genova e poi la conca azzurra del porto, reticolata d'alberi di navi, ingombra di barchi massicci.

Chi era lo sconosciuto? La mancanza d'Emilia doleva con nuova forma; Emilia sapeva bene rassicurar la sorella, diffondeva attorno a sé un'aura di tanta fiducia, che Roberta ne viveva giorno e notte. Ora, Emilia non v'era più. Roberta l'aveva abbandonata, e si trovava sola di fronte ad uno sconosciuto. Una paura strana l'afferrò; si mise a tremare, irrigidendosi con le mani nude strette ai bracci del sedile; se l'uomo avesse fatto un movimento, ella avrebbe gettato un urlo, poiché senz'altro Roberta aveva stabilito ch'egli era un ladro e che doveva ucciderla...

Ma il viaggiatore trasse dalla valigia un libro, vi cercò la pagina segnata, e cominciò a leggere; allora, a poco a poco, di tra le ciglia, cautamente, la giovinetta si sforzò a indovinare il titolo del volume, e quando giunse a comporre in mente le lettere, e quando scoperse ch'era un romanzo cui ella conosceva ed amava, il cuore le batté di gioia infantile, e concluse che lo sconosciuto non era un ladro, non doveva ucciderla. Poi, con la medesima astuzia lenta, si studiò a osservare l'uomo, inosservata.

Egli era giovane ed elegante; nel volto un poco abbronzato luccicavano gli occhi neri ed acuti; aveva un profilo quasi rettilineo, volitivo; la testa era bella; la bocca pura, con labbra sensuali, coi mustacchi piegati in su. Apparteneva alla razza di quelli che mai non hanno lavorato in nessuna cosa, e mai non lavoreranno. Roberta aveva incontrato simili uomini ai bagni, ai teatri, ai concerti, ovunque s'offriva un passatempo di moda o un trattenimento per lo spirito; e sempre ella aveva avvertito una specie d'attrazione verso i giovani epicurei, lasciandosi cogliere dalla forma della loro cortesia, dalla scelta della loro eleganza.

Anche ora, guardando lo sconosciuto, la fanciulla si fermava all'apparenza; non rilevava una piega amara all'angolo delle labbra di lui, né sul volto l'energia fosca di chi si getta ai piaceri passionatamente, correndo l'alternativa d'uscirne per un mortale disgusto, o di non uscirne se non insieme con la vita. Pareva uno di quegli uomini, cui la donna unica può arrestare, salvare, vincere e domare col dono della propria esistenza, della verginità assoluta, con la forza d'una sincerità non attesa.

Egli aveva notato nella giovinetta il destreggiar degli sguardi, e pur fingendo di leggere, si lasciava studiare; ma quando appena s'accorse che la compagna era tranquilla e sicura (forse, molto aveva giovato una piccola corona, dominante due cifre intrecciate sopra la targhetta argentea della valigia), - egli stesso, con maggiore astuzia, non lasciandosi mai sorprendere, guardò Roberta a lungo.

Fu colpito dalla bellezza malinconica di quel viso giovanissimo, prima ancora che dall'aspetto di sofferenza onde il viso e il corpo sembravano chiedere sollecitudine. La fanciulla sfolgorava negli occhi, pieni di febbre e tuttavia ignari di sguardi procaci e ingannevoli; le labbra curve eran deliziose di colorito, un poco umide; per tutto il volto, la stanchezza, la commozione, la malattia, avevan diffusa un'ombra grave, in aperto contrasto con la palese giovinezza di Roberta.

Non mai era stata così bella, e il sole morente che dallo sportello la illuminava senza darle molestia, cresceva forza al significato romantico della gentile figura. Lo sconosciuto ritornò al libro aperto, notando un'occhiata della fanciulla, che sembrava disporsi a continuare il suo studio. In verità, il giovane attirava l'attenzione di lei potentemente, ed ella cominciava a farsi delle domande che non trovavano risposta; andava a Nizza egli pure? come si chiamava? era ammogliato?... Cercò sulle dita di lui il cerchietto d'oro, ch'ella credeva indivisibile dalle persone non più libere; ma alla mano destra, nuda, non aveva anelli, e la sinistra era ancora guantata. E perché non parlava? In molti romanzi, Roberta aveva letto i dialoghi d'un giovane e d'una giovane incontratisi nel treno; e veniva poi una sfilata, di capitoli interessanti, che si rannodavano tutti a quel primo capitolo dell'incontro. Lo sconosciuto non le parlava, non la degnava d'uno sguardo; credendo fare piacere, aveva tirato la cortina per toglierle il sole ultimo, e subito s'era rimesso a leggere, in modo ch'ella non aveva potuto ringraziarlo con un cenno del capo, come in quei romanzi... Egli pure vestiva un abito grigio, calzava stivaletti di cuoio giallo, - aveva i piedi piccoli - e il collo della camicia era molto alto, con una cravatta enorme, di gusto inglese. La fronte di lui era ampia, con qualche sottilissima ruga, visibile a pena; ma i capelli erano tutti nerissimi, naturalmente lucidi, un poco arricciati. Solo, pareva a Roberta ch'egli fingesse di leggere, perché non voltava mai pagina; e a un tratto, ella s'avvide con maraviglia, che lo sconosciuto non poteva leggere affatto, perché aveva ripreso il libro capovolto. Cominciò a temere di nuovo; perché fingeva? a che cosa pensava?

In quel punto gli sguardi suoi s'incontrarono con gli sguardi del giovane, e non sapendo come reggere all'onda carezzevole di quegli occhi bruni, e sentendo d'arrossire, Roberta cercò in fretta i guanti e cominciò a calzarli, con la testa china. Il treno si fermò a Sampierdarena lungamente. La fanciulla guardò in basso la sfilata gaia dei molti edifizi, dispersi in una pianura grigia e uniforme; l'ombra cominciava a scendere tristissima. Il ricordo di Emilia, la visione della villetta, l'intuizione dello spavento cui la sorella doveva essere in preda, vennero tutti insieme a turbarla. Che cosa aveva fatto? Dove andava? Aveva commesso un crimine...

Fra il brusco estollersi di quei pentimenti, una cosa sola poteva consolarla; ella si sentiva bene, d'improvviso, quanto non s'era; mai sentita, e irrompeva nel suo cuore una turba di speranze magnifiche, audaci, sicure; era tuttavia molto affaticata molto languida, ma la cosa pareva ben naturale, dopo le orribili torture. Sperava, tornava a sperare violentemente nell'avvenire; la giovane età avrebbe trionfato de' suoi mali nervosi.

E ritraendosi dal finestrino perché il treno ripartiva, questa volta per una ben lunga corsa, Roberta vide gli sguardi del compagno fissi ai capelli di lei, biondi, copiosi, rutilanti sotto il raggio della lampada elettrica, la quale pendeva dall'alto della carrozza e cominciava a dar luce non contrastata dalla luce diurna. La fanciulla gli fu riconoscente; l'attenzione del giovane significava l'avvenire e la vita: egli doveva pensare a lei, non come a larva moritura, ma come a donna vibrante di calda sensibilità, ricca di delicati sentimenti.

Allora, non sapendo d'agire in modo strano, ella si abbandonò a quell'attenzione, vi si offerse scaltramente. Perché l'uomo non avesse a temere d'essere sorpreso, restò col capo inclinato, ma non così che il suo volto bianco non si vedesse, non così che i suoi occhi azzurri paressero spenti; e si dispose un po' in obliquo sul sedile, perché tutta la linea dei fianchi acerbi risaltasse sopra lo sfondo grigiastro. Provò un gaudio nuovo, a quella dedizione capricciosa; più forte, accorgendosi che il giovane si lasciava attirare, e la studiava, l'ammirava con intensità, riusciva a definirla in quanto aveva di raro e di meno atteso: l'incoscienza virginale e la civetteria mite... La curiosità di lui non era volgare e momentanea, ma doveva, certo doveva risvegliare a poco a poco un sentimento, una brama di non finire così la muta avventura.

Vi fu un istante, in cui Roberta osò levare il capo, e da tutto l'atteggiamento del compagno vide perspicua la certezza ch'egli si accingeva a parlare, a gettare la rete, la quale avrebbe involto lei, e forse non lei sola, per sempre.

- Ora mi parla! - ella pensò.

Fu come un tremendo schianto, un balzo in una voragine profonda.

La fanciulla avvertì di nuovo l'orribile sapore dolciastro del sangue; ebbe un sussulto visibilissimo, tossì seccamente due volte, e con la fronte imperlata di sudor freddo, aspettò.

Poi, quando la prima spuma rosea comparve alla connessura delle labbra, portò il fazzoletto alla bocca, serrandolo contro, perché nulla si vedesse; ma non era un filo di schiuma, e non cessava, diffondendosi per la pezzuola, empiendole la bocca tutta, minacciando di soffocarla.

Tossì ancora; venne ancora il liquido vermiglio su per la gola; e smarrendo ogni speranza, ogni senso della vita formale, Roberta balzò in piedi, afferrò le mani già tese del giovane, e rantolò con un urlo:

- Muoio!

L'impeto enorme del sangue proruppe, non più affievolito dal lieve ostacolo del fazzoletto; e la figura bianca della vergine insanguinata, ritta fra le braccia del compagno che la sorreggeva, precipitò nella spessa ombra d'una galleria come in una voragine profonda.

FINE.

Bogliasco, luglio 1896.

Blevio, febbraio 1897


 
 
 
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