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INTERPRETAZIONI E MEMORIE dello Scrittore: duca Tommaso Gallarati Scotti

Post n°237 pubblicato il 20 Settembre 2013 da ciapessoni.sandro

INTERPRETAZIONI E MEMORIE – dello Scrittore e storico: Duca Tommaso Gallarati Scotti.

 

Omaggio alla Sua memoria:

 

Malinconia del Manzoni

 

***

Varie volte mi sono posto il quesito sui motivi della solitudine del Manzoni, che si rivela anche nell’apparente indifferenza del pubblico per la sua tomba. Poiché di essa alcuni hanno parlato e scritto in questi ultimi anni, ma a dire il vero non mi sembra che l’argomento tocchi e muova a fondo larghe correnti di sentimento cittadino o nazionale, e secondo informazioni che ritengo assai attendibili, il numero dei visitatori al luogo della sua sepoltura si va di anno in anno assottigliando fino a poche decine di persone.

Proprio il contrario di quanto ho constatato io stesso, avviene per la commemorazione di Shakespeare a Stratford on Avon dove la cerimonia ufficiale, cui partecipa anche l’intero corpo diplomatico, è una sol cosa con l’imponente, cordiale rito della folla d’ogni colore e d’ogni ceto, e in cui ciascuno porta il suo rametto di rosmarino al sepolcro del poeta, nell’austera chiesa parrocchiale dove fu battezzato e ora dorme il suo gran sonno in riva al lento fiume che scorre tra i verdissimi prati.

Perché, mi domandavo, qualcosa di simile non meriterebbe tra noi l’autore dei Promessi Sposi?

La risposta me la sono data, in parte, in una mia recente visita al Famedio, ove anch’io non avevo più messo piede da anni lontani, poiché in quell’agnostico, semivuoto e rimbombante tempio della fama, della “eredità di affetti” che ci lasciò il Manzoni nessuno, religioso o laico che sia, ci ritrova più nulla.

In quell’edificio costruito a freddo nello stile ibrido degli anni architettonicamente infelici intorno al ’70 (1870 ndr) con certe reminiscenze toscane che sembrano un ironico castigo per chi volle risciacquare i suoi panni in Arno, il Manzoni, anche morto, ci sta a disagio. Lo sentiamo spaesato – lontano dai più cari che amò e parteciparono alla storia della sua vita interiore e che riposano insieme nel cimitero del Brusiglio – lontano dal paesaggio di quel ramo del Lago di Como che come poeta gli appartiene e in cui mossero le figure – lontano infine da quella pietà per i morti, così commossa e calda nella Chiesa, da essere desiderata anche da pensatori liberi.

Ed è questa lontananza, nella morte, da tutto ciò che fu più suo, dalla sua vita più umana e più vera, che lo ha discostato e lasciato in solitudine, senza che la massa degli umili, il popolo che fu il più vicino al suo cuore, si ricordi ormai di rivolgere uno spontaneo tributo riconoscente a ciò che fu mortale di lui. Oblio che ci appare tanto più singolare perché in contrasto con l’appassionata e crescente comprensione dell’opera sua nelle sfere intellettuali e dell’alta cultura, sì che il Manzoni che noi sentiamo e riconosciamo oggi nella sua poesia e nella sua personalità, è un Manzoni che, grazie alla critica, è ben maggiore di quello che gli italiani accompagnarono con onori sovrani al Cimitero Monumentale nel 1873.

Il Manzoni sale. Il Manzoni si rivela, di giorno in giorno più, un genio creatore e rinnovatore e il suo romanzo si accresce nell’acuta indagine del suo segreto, allargando la commozione che suscitano i Promessi Sposi ben oltre i confini nazionali, come io stesso constatai con orgoglio di italiano all’apparire della bella traduzione inglese del Colquhoun, che per il mondo anglosassone fu una fresca rivelazione. E alla scoperta del Manzoni poeta si accompagna intanto una sempre maggiore penetrazione della sua spiritualità e di certi caratteri della sua esperienza religiosa che lo pongono sul piano dei sommi scrittori dei misteri di Dio e della grandezza e miseria dell’uomo.

Né credo in questo di esagerare; poiché Pio XI il romanzo e gli Inni Sacri del Manzoni se li teneva – ricordo – sul tavolo di lavoro, nella sua biblioteca, accanto ad opere venerande di Padri e Dottori della Chiesa. Valutazione di un Pontefice che mi fu confermata anche in un pittoresco racconto del defunto monsignor Arboreo Mella di Sant’Elia, Maestro di Camera di Sua Santità. Il prelato aveva dovuto un giorno, per ragioni di ufficio, presentarsi al Papa a ora insolita. Il Santo Padre stava leggendo. Senza alzar gli occhi dal libro, con un cenno, aveva fatto avanzare il prelato fino ai suoi piedi. Poi senza invitarlo, come di consueto, a sedersi: “ Ascolti, Monsignore… “ disse “ sto leggendo un mirabile capitolo dei Promessi Sposi… “. E continuò a leggere a voce alta. Era il capitolo della conversione dell’Innominato. Pio XI, si solito esteriormente freddo e contenuto nell’espressione dei suoi sentimenti, si animava sempre più; si accendeva. A momenti si interrompeva, commosso: “Ma chi ha mai penetrato così a fondo nell’animo umano. Chi?… chi ha compreso certi turbamenti, certe angosce che preparano il ritorno di Dio?”. Il prelato faceva accenni di assenso col capo;ma non vedeva l’ora che la lettura finisse. Solo a libro chiuso, il Papa si accorse del pover’uomo e lo fece sedere, benevolmente; non senza però che a monsignor Sant’Elia, che conosceva bene il suo Signore, sfuggisse un certo trascorrente pensiero dietro le lenti degli occhiali… “Ah! Monsignore… sono pagine che una volta in vita val bene la pena di averle ascoltate in ginocchio!…”.

Con ciò non ritengo che Pio XI pensasse in quel momento a una possibile beatificazione o canonizzazione futura del Manzoni. Per quel tanto che ricordo di certi suoi discorsi, non mi par proprio ch’egli lo preconizzasse come un santo da altare. Ma era uomo di cultura e indagatore della storia e delle glorie della Chiesa per non sentire che certe figure di prima grandezza – Dante, Michelangelo…- hanno portato al cattolicismo tesori di una luce diversa da quella della santità eppur divina, e che nel lume del genio vi è sempre un lampeggiar riflesso dello Spirito creatore.

Ma quanto più il Manzoni ascende nella sfera degli “spiriti magni” più egli si libera dal ristretto cerchio degli stessi suoi ammiratori che lo vorrebbero far loro e tenterebbero mettere un’ipoteca spirituale al suo modo di pensare, di credere: sulla sua politica e filosofia. Troppi hanno preteso di dire “è nostro” , (i manzoniani per i primi) . Però a studiarlo bene il Manzoni non è di nessuno. E’ Manzoni con la sua originalità e complessità che non riescono ad essere contenute negli schemi scolastici delle classificazioni correnti. Difficile inquadrarlo nella stessa letteratura dell’800, o rintracciare le origini di quella che è veramente “novità” della sua ispirazione. La sua non è dunque solitudine di dimenticanza: è solitudine di grandezza.

Anche nella Chiesa. Quando fu prospettata l’eventualità di una traslazione della sua salma in un tempio consacrato al culto, vi è stato un certo senso di disagio nelle stesse gerarchie ecclesiastiche, non sapendo bene dove avrebbe potuto essere collocata. Fu avanzata allora la proposta di seppellirlo a San Fedele; la sua parrocchia, la chiesa dove sentiva Messa e partecipava ai sacri riti, dando buon esempio a tutti di devozione cristiana. Certo sul piano dell’edificazione la proposta poteva sembrare la più semplice e la più logica. Ma non è chi non senta che è soluzione in tono minore, per cui Alessandro Manzoni viene giudicato sotto il punto di vista del buon parrocchiano della Contrada del Morone; del don Lisander, come ambrosianamente lo chiamavano nel quartiere, additandoselo mentre saliva la scalinata della chiesa, già un po’ curvo, appoggiato al braccio di un familiare, in marsina nera e col cilindro dal pelo arruffato.

A parer nostro, invece, al grande, solitario Manzoni dell’Adelchi, della Pentecoste e dei Promessi Sposi, una sola sepoltura spetterebbe di diritto, con universale consenso e non di parte: in Duomo; nell’aereo tempio che è centro secolare della città in cui nacque, con la sua guglia sottile lanciata verso i cieli come una muta preghiera affidata al marmo, che si libera dalla massa grigia e greve della metropoli, portando su in alto la Madonnina scintillante di sole o velata di nebbia, non indifferente agli stessi indifferenti per un certo senso di religione che è nel cuore di tutti. La soluzione della sepoltura in Duomo non offenderebbe alcuna suscettibilità laica, né sarebbe in contrasto col Famedio, quasi per una sottrazione ai diritti che il Comune ha di onorare i suoi grandi, poiché Duomo e Milano sono una sol cosa col sentimento del popolo milanese. In Duomo; accanto a quel cardinal Federigo Borromeo alla cui glorificazione l’autore dei “Promessi Sposi”, mise tanto di sé, della sua arte e del suo pensiero, fino a farne l’espressione più alta di ciò che sentiva e pensava del sacerdozio cattolico e della porpora stessa, illuminati non solo dalla santità della vita, ma anche dalla fortezza del carattere e da un integrale umanesimo.

Nell’ombra sacra della selva gotica, dove si svolge nella sua grandiosità austera la sacra liturgia, dall’alba al tramonto dei nostri giorni fuggenti, e dove il tremulo sciame dei lumicini parla di colloqui segreti in cui la femminetta “espone della sua immortale alma gli affanni”.

Non occorrerebbe altro fasto di sepolcro per il poeta dello Spirito Santo, e di due giovani sposi contadini. Basta un sarcofago nudo, di pietra, e il suo nome.

 

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