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Cineforum 2014/2015 | 24 marzo 2015
Post n°227 pubblicato il 23 Marzo 2015 da cineforumborgo
IDA Regia: Pawel Pawlikowski Ida e Wanda, due espressioni opposte e speculari della femminilità, si incontrano nella Polonia degli anni Sessanta, che ancora si sta asciugando le lacrime e si sta rialzando a fatica dalla guerra, e intraprendono insieme un viaggio alla ricerca della verità sulla sorte che è toccata alla loro famiglia e su ciò che si cela nel profondo dell’anima. L’una, austera e dalle convinzioni granitiche, sta per prendere i voti, mentre l’altra, ormai al tramonto della vita, è una donna emancipata che saltella spensierata da un locale all’altro e non disprezza la compagnia degli uomini, ma che è profondamente sola. Il destino comune di solitudine interiore le unisce misteriosamente e le fonde l’una nell’altra annullando le differenze culturali e ideologiche in un desiderio bruciante di capire il mondo e loro stesse, mentre seguono le tracce della loro storia. Passando dal silenzio assordante dei paesaggi desolati della Polonia, in cui il tempo sembra essersi fermato all’epoca della distruzione, alla musica alla moda dei club di jazz in cui già si respira il fermento della rivoluzione culturale che sta per arrivare, Ida scopre le origini ebree e sperimenta i primi impulsi peccaminosi verso l’altro sesso. Il viaggio diventa una scoperta del sé, e quando si scioglie i capelli e sale per la prima volta sui tacchi prova la sensazione travolgente di essere desiderata e di avere un potere irresistibile sugli uomini. Lontano dall’austerità del convento, Wanda è la chiave per entrare in un territorio sconosciuto, in cui un’umanità rumorosa e imperfetta offre un conforto più immediato ma meno appagante della preghiera agli animi oppressi, e promette un futuro felice senza la pretesa di aspirare alla vita eterna. Pawel Pawlikowski entra nell’universo femminile con discrezione, affidando ad una fotografia pulita ed essenziale il ritratto delle due donne, che si delinea netto su una tavolozza in bianco e nero senza crogiolarsi in inutili orpelli stilistici. La narrazione è affidata ai piccoli e impercettibili gesti del quotidiano che risuonano forte nei silenzi infiniti della campagna polacca che si perde oltre il limite umano dello sguardo in un tempo sospeso tra il presente e il passato. Pawlikowski scava a fondo sotto le ceneri di una terra devastata e nel profondo delle due anime tormentate rimanendo sempre lo spettatore dietro una camera fissa, che non irrompe violentemente nelle loro vite ma che aspetta che si muovano davanti ai suoi occhi assecondando i tempi scenici spontanei. L'occhio è puntato interamente sul personaggio che, nonostante scompaia rispetto alla vastità degli sfondi, riesce ugualmente a gridare a gran voce il suo dolore, senza che nessun elemento né visivo né sonoro si frapponga tra lui e le sue emozioni, lasciando unicamente al corpo il compito di veicolare il turbamento, l'indecisione e la sofferenza più profonda. Valeria Brucoli, Sentieri Selvaggi
Con un salto stilistico radicale rispetto alla macchina mobilissima e allo stile volutamente sporco dei suoi film precedenti, Pawlikowski (con l'operatore Lukasz Zal, sotto la supervisione del direttore della fotografia Ryszard Lenczewski) inquadra le sue due protagoniste dentro a immagini di una bellezza classica, perfettamente equilibrate nell'insolito formato ‘quadrato’ che si usava negli anni Quaranta (1:1.33), elegante ma anche freddo e glaciale nella compostezza di un bianco e nero che usa tutti i possibili toni del grigio. E soprattutto di un rigore formale che sembra solo di facciata e dà l'impressione di essere sempre sul punto di sgretolarsi. A far precipitare quella specie di impalcatura esteriore sarà proprio Wanda, che decide di accompagnare Anna/Ida nella cittadina dove viveva durante l'ultima guerra: lei scelse di combattere contro i nazisti, i genitori di Ida rimasero nascosti per via delle loro origini ebraiche (si chiamavano Lebenstein) andando però incontro alla morte. Come? E' quello che Wanda sa ma che vuole far conoscere anche alla nipote. (…...) Pian piano, emerge così il quadro di un Paese dilaniato tra cattolicesimo e marxismo, dove l'antisemitismo aveva giocato un ruolo non secondario nei rapporti di forza e che svela davanti agli occhi inconsapevoli di Ida le ‘colpe’ e le ‘ragioni’ di ognuno. Nel 1962 del film non si era ancora verificata in Polonia quell'ondata di antisemitismo guidata dai vertici del partito comunista che avrebbe sconvolto il Paese, e Pawlikowski non vuole attribuire colpe a nessuno. Ma a volte i silenzi sono molto più eloquenti, come quelli che accompagnano la scena della dissepoltura nella foresta dei resti dei genitori di Ida e la successiva sepoltura in un cimitero ebraico chiuso e abbandonato. A incarnare un po' di speranza in un mondo troppo ‘grigio’ arriva l'incontro con un musicista (Dawid Ogrodnik), che fa conoscere a Ida la bellezza del jazz (e la diffusione della musica pop italiana nella Polonia di allora, a cominciare da Celentano e “Ventiquattromila baci”) ma quello che potrebbe essere un lampo di vitalità finisce per trasformarsi in una ulteriore prova per la novizia, quella della tentazione della carne a cui dovrebbe rinunciare con i voti e che l'esperienza le mette davanti per la prima volta. Alla fine le strade delle due donne torneranno drammaticamente a separarsi, sotto il peso delle proprie storie personali, e nell'ultima scena anche la macchina da presa abbandona la fissità mantenuta fino ad allora per ‘adeguarsi’ al movimento più concitato del cambiamento (almeno per gli occhi di Ida) ma nello spettatore resterà il ricordo di un viaggio dentro le ferite della Storia, in compagnia di due donne che non si dimenticheranno presto. Paolo Mereghetti, Corriere della Sera
PAWEL PAWLIKOWSKI Filmografia: Last Resort (2000), My Summer of Love (2004), La femme du cinquième (2011), Ida (2013)
Martedì 31 marzo 2015: GRAND BUDAPEST HOTEL di Wes Anderson, con Ralph Fiennes, Tony Revolori, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody
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