LA FAMIGLIA SAVAGE
Titolo originale: The Savages
Regia: Tamara Jenkins
Sceneggiatura: Tamara Jenkins
Fotografia: W. Mott Hupfel III
Musiche: Stephen Trask
Montaggio: Brian A. Kates
Scenografia: Jane Ann Stewart
Arredamento: Chris Keating, Carrie Stewart
Costumi: David C. Robinson
Effetti: Donnie Creighton, J.C. Brotherhood
Interpreti: Laura Linney (Wendy Savage), Philip Seymour Hoffman (Jon Savage), Philip Bosco (Lenny Savage), Peter Friedman (Larry), Gbenga Akinnagbe (Jimmy), Cara Seymour (Kasia), David Zayas (Eduardo), Hal Blankenship (Burt), Tonye Patano (sig.na Robinson), Joan Jaffe (Lizzie), Michael Blackson (Howard), Sidné Anderson (Simone), Alyssa Waldrip (Faith), Guy Boyd (Bill), Margo Martindale (Roz), Salem Ludwig (sig. Sperry), Debra Monk (Nancy)
Produzione: Anne Carey, Ted Hope, Erica Westheimer per Fox Searchlight Pictures/Lone Star Film Group/This Is That Productions/Ad Hominem Enterprises
Distribuzione: 20th. Century Fox Italia
Durata: 114 min.
Origine: USA, 2007
La compassione ha sostituito l'indignazione: si moltiplicano i film su anziani genitori con il Parkinson o l'Alzheimer, sui bambini inabili, su malati di nervi, su creature afflitte dai guai peggiori. Il grido "Vergogna!" al quale registi e spettatori erano abituati fin dai Settanta diventa il gemito "Poveretti"; non è un vantaggio, se i film pietosi non risultano belli e profondi sono lamentosi, tediosi. “La famiglia Savage” di Tamara Jenkins è bello, e perdipiù analizza quel legame misterioso, impasto d'amore e di rivalità ostile, che è spesso la fraternità.
Fratello e sorella sono diversamente intellettuali, lui saggista e docente letterario, lei autrice di commedie. Hanno poca stima reciproca, non sono amici. Si vedono di rado. Si trovano inetti e sperduti nella foresta della vecchiaia del padre che non sentivano da anni. Li avvisano che questo padre non amato mostra i segni del morbo di Parkinson: non li riconosce, ha disimparato a vestirsi, non riesce a immaginare dove si trovi, non ricorda quasi nulla della sua vita, grida, crede che la figlia sia una cameriera incapace di fare il proprio lavoro, isola l'apparecchio acustico per non sentir discutere né litigare, ha scoppi d'ira lucida molto violenti. Lo ricoverano in clinica, ma si sentono per questo "gente orribile", pieni di rimorsi e imbarazzi. Poi il padre muore, e ciascuno dei due, mutato e migliorato, riprende la propria vita.
Niente affatto sentimentale ma ricco di quei sentimenti autentici che tutti hanno sperimentato nell'esistenza, capace di raccontare il dolore con forza interiore e senza retorica, venato di ironia, interpretato da attori bravi, “La famiglia Savage”, secondo film della regista Tamara Jenkins, nel suo genere è pienamente riuscito, toccante.
Lietta Tornabuoni, L’Espresso
Tamara Jenkins, dopo avere confezionato “L'altra faccia di Beverly Hills”, impacchetta un racconto poco edificante e ancor meno conciliante con “La famiglia Savage”. I suoi due protagonisti, interpretati magistralmente da Laura Linney e Philip Seymour Hoffman (lei candidata all'Oscar per questo film, lui per “La guerra di Charlie Wilson”), sono due fratelli adulti sconfitti dalla vita. Lui è un professore, da sempre cerca di realizzare un libro su Brecht, vive da anni con una donna polacca ma quando le scade il permesso di soggiorno la lascia ripartire piuttosto che sposarla. Lei si arrabatta con lavori saltuari, rubacchia cancelleria negli uffici, scrive commedie mai rappresentate, si fa assistere dallo stato in maniera piuttosto meschina e ha una relazione senza speranza con un uomo sposato. Comunque si sono ritagliati una loro nicchia dove sopravvivere frustrati. All'improvviso però vedono le loro vite sconvolte. Il vecchio babbo, autoritario e lontano, è rimasto vedovo della donna con cui ha passato gli ultimi anni e, soprattutto, è affetto da demenza senile. Così devono farsi carico del vecchio, perché i figli della donna in una sequenza agghiacciante, mostrano loro il contratto prematrimoniale dei due anziani: l'uomo non ha diritto alla casa in cui ha vissuto. Certo, i legami di sangue, la famiglia, gli affetti, ma che senso ha occuparsi di quel personaggio scorbutico e ormai fuori di testa che oltretutto non si è mai occupato di loro? Resta il fatto. Vengono scoperti con gustoso cinismo gli altarini degli ospizi, odiosi e ancora più squallidi quando non si hanno risorse economiche. Vabbè, tanto papà neppure sa dove si trova. Non si salva nessuno in questa commedia degli orrori quotidiani, una centrifuga degli affetti e dei rapporti umani. Ma il talento della Jenkins sta proprio nella sua abilità di narratrice, nel delineare magnificamente i personaggi, nel cesellare dialoghi in situazioni al limite del sopportabile. Perché questo è l'orrore vero, non quello dei mostri e dei vampiri, qui siamo di fronte a un'umanità scombussolata e demente dove l'unico modo per ribellarsi è impiastricciare di merda le pareti pulite. E alla fine far affiorare un amarissimo sorriso.
Antonello Catacchio, Il Manifesto