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I film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020

 

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Stagione 2019/2020 | 18 febbraio 2020

Foto di cineforumborgo

TROPPA GRAZIA

Regia: Gianni Zanasi
Soggetto: Gianni Zanasi
Sceneggiatura: Gianni Zanasi, Giacomo Ciarrapico, Michele Pellegrini, Federica Pontremoli
Fotografia: Vladan Radovic
Musiche: Niccolò Contessa
Montaggio: Rita Rognoni, Gianni Zanasi
Scenografia: Massimiliano Sturiale
Costumi: Olivia Bellini
Suono: Stefano Campus (presa diretta)
Interpreti: Alba Rohrwacher (Lucia), Elio Germano (Arturo), Giuseppe Battiston (Paolo), Hadas Yaron (La Madonna), Carlotta Natoli (Claudia), Thomas Trabacchi (Guido), Daniele De Angelis (Fabio), Rosa Vannucci (Rosa), Teco Celio (Giulio Ravi)
Produzione: Beppe Caschetto, Rita Rognoni per Ibc Movie/Pupkin Production con Rai Cinema, in coproduzione con Oplon Film/Strada Productions/Smallfish Spain
Distribuzione: Bim Distribuzione
Durata: 110'
Origine: Italia, Grecia, Spagna, 2018
Data uscita: 22 novembre 2018

Lucia è una geometra che vive da sola con sua figlia. Mentre si arrangia tra mille difficoltà, economiche e sentimentali, il Comune le affida un controllo su un terreno scelto per costruire una grande opera architettonica. Lucia nota che nelle mappe del Comune qualcosa non va, ma per paura di perdere l'incarico decide di non dire nulla. Il giorno dopo, mentre continua il suo lavoro, viene interrotta da quella che le sembra una giovane ‘profuga’. Lucia le offre 5 euro e riprende a lavorare. Ma la sera, nella cucina di casa sua, la rivede all'improvviso, davanti a lei. La ‘profuga’ la fissa e le dice: «Vai dagli uomini e dì loro di costruire una chiesa là dove ti sono apparsa...»
La grazia è la “qualità naturale di tutto ciò che, per una sua intima bellezza, delicatezza, spontaneità, finezza, leggiadria, o per l’armonica fusione di tutte queste doti, impressiona gradevolmente i sensi e lo spirito” ed è anche, alla sua maniera un po’ scombinata e guizzante, la qualità maggiore del film di Gianni Zanasi.
Un film fortemente liberatorio, che muovendosi tra favola, realismo, magia e miscredenza solleva (come sempre nel cinema di Zanasi, del resto) una serie di questioni centrali nella contemporaneità in continua corsa contro sé stessa. Questioni che molto poco, se non per nulla, hanno a che fare con la religione o con l’afflato spirituale, ma che invece scavano nei bisogni che più umanamente coinvolgono tutti noi. A cominciare dal bisogno di credere in qualcosa - partendo da sé stessi - e dalla necessità di badare alle piccole bellezze che ci circondano e che ci possono far sopravvivere o imparare a vivere un po’ meglio.
Poi, naturalmente, c'è la provincia tanto cara a Zanasi, con il lavoro che arriva a singhiozzo, il qualunquismo sugli immigrati, il paesaggio a cui nessuno fa caso; ma anche la speculazione, la corruzione, i compromessi, la speranza nel nuovo che avanza, e ancora le distorsioni da social, il caffè nel bar dei cinesi, la diffidenza verso la stranezza.
Si ride, e questa è una cosa buona; si ride anche molto, quando Lucia, una Alba Rohrwacher vestita di un abito comico che le calza perfettamente, e l‘inflessibile Madonna-rifugiata-mendicante con gli occhi verdi di Hadas Yaron se le danno di santa ragione. Si empatizza con dolcezza nei dialoghi concreti e sinceri tra Lucia e il suo compagno sfidanzato Arturo, al quale Elio Germano regala una barba folta e un mezzo codino da perfetto manovale di provincia, oltre che una personalità non banale recitata con apprezzabile garbo. Si sogna pure un po’, volendo farsi prendere dal côté più surreale senza soffermarsi troppo sul suo sfuggire qua e là.
"Troppa grazia" è un film che funziona e che solleva. A volte tentenna senza riuscire del tutto a ricomporre e tenere insieme i molti elementi che dissemina - ma poco importa. Perché la commedia è un genere prezioso e necessario, e Zanasi sa condurla restando fedele a sé stesso, alla sua ironia intelligente e scalpitante, alla sua inventiva imprecisa e vivace. Sono d'altronde, queste, le qualità che contraddistinguono il suo cinema e lo fanno restare a riva, mentre accanto il fiume in piena delle commediole tutte uguali sui quarantenni incapaci di crescere e gli imprenditori senza scrupoli costretti alla crisi dalla crisi scorre inarrestabile.
Troppa grazia sant’Antonio! E benedetta sia la grazia dinoccolata di Zanasi.
Chiara Borroni, Cineforum

Evidentemente in Italia i santi non sono più un tabù e la divinità - più che la religione - un qualcosa di cui si può parlare con disinvoltura se non proprio scherzare. Lo ha fatto Sorrentino con “The Young Pope”, Aronadio con “Io c’è”, Ammaniti con “Il miracolo” e ora Gianni Zanasi con il suo nuovo film, “Troppa grazia”.
La protagonista è una geometra (Alba Rohrwacher) molto precaria che accetta un lavoro di misurazione per un imprenditore non sempre trasparente: ma nel bel mezzo di un campo, le appare la Madonna che le intima di far costruire lì una chiesa. Nessuno però è disposto a crederle, nemmeno lei stessa.
Una commedia surreale dall’idea brillante - scritta da Zanasi con Federica Pontremoli - che racconta con un’atmosfera gioiosa e un po’ folle una storia più complessa delle sue apparenze.
Perché “Troppa grazia” guarda in modo surreale e ironico all’Italia che spera sempre nel miracolo, nel deus ex machina, nel sotterfugio per poter campare e prosperare, in cui l’assenza di risposte o speranze concrete si riversa nel bisogno del soprannaturale, dell’imprevisto: e allora l’apparizione di una Madonna come raramente se ne sono viste, diretta, concreta, anche sanguigna e severa e buffa (perfetta Hadas Yaron, la Sposa promessa nel film di Rama Burshtein e già con Zanasi nel precedente “La felicità è un sistema complesso”), sono la speranza di un mondo migliore qui, se non esiste l’aldilà.
Zanasi cambia registri di continuo, la commedia di caratteri diventa prima spirituale e poi ‘politica’, alterna gag impreviste (la ‘rissa’ tra Alba e la Madonna) a passaggi opachi, si perde e lo spettatore non sa mai davvero dove voglia arrivare, cosa voglia dire con i personaggi e gli eventi, cosa farne delle luci curatissime di Vladan Radovic e delle musiche di Niccolò Contessa de I cani.
Eppure il suo modo sbilenco e vitale di guardare il mondo, di metterlo in immagini, di farlo interpretare da attori magnifici (tutti, nessuno escluso, con menzione per la sempre puntuale Carlotta Natoli) fa dimenticare il punto di arrivo che forse non c’è e fa godere moltissimo il viaggio.
Emanuele Rauco, Cinematografo.it

GIANNI ZANASI
Filmografia:
Le belle prove (1992), Nella mischia (1995), A domani (1999), Fuori di me (1999), La vita è breve ma la giornata è lunghissima (2004), Non pensarci (2007), La felicità è un sistema complesso (2015), Troppa grazia (2018)

Martedì 25 febbraio 2020:
VICE - L'UOMO NELL'OMBRA di Adam McKay, con Christian Bale, Amy Adams, Steve Carell, Sam Rockwell, Kirk Bovill

 

 
 
 

Stagione 2019/2020 | 11 febbraio 2020

Foto di cineforumborgo

 

L'UOMO FEDELE

Titolo originale: L'homme fidèle
Regia: Louis Garrel
Sceneggiatura: Jean-Claude Carrière, Louis Garrel, Florence Seyvos (collaborazione)
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Joëlle Hache
Scenografia: Jean Rabasse
Costumi: Barbara Loison
Suono: Julien Sicart
Interpreti: Louis Garrel (Abel), Laetitia Casta (Marianne), Lily-Rose Depp (Ève), Joseph Engel (Joseph), Diane Courseille (Ève a 13 anni), Vladislav Galard (dottor Pivoine), Bakary Sangaré (proprietario del ristorante), Kiara Carrière, Dali Benssalah, Arthur Igual
Produzione: Pascal Caucheteux, Grégoire Sorlat per Why Not Productions
Distribuzione: Europictures
Durata: 75’
Origine: Francia, 2018
Data uscita: 11 aprile 2019

Otto anni dopo essersi lasciati, Abel e Marianne si ritrovano al funerale di Paul, il miglior amico di lui. Questo tragico evento si rivela in realtà di buon auspicio: Abel e Marianne tornano insieme. Così facendo, però, suscitano la gelosia di Joseph, il figlio di Marianne, e soprattutto di Eve, la sorella di Paul da sempre segretamente innamorata di Abel.
Il prologo del film possiede la grazia arguta e un po' desueta di quei cortometraggi con cui, sul finire degli anni Cinquanta, Truffaut e compagni andavano facendosi le ossa (penso, ad esempio, a “Charlotte et son Jules” di Godard).
Abel vive con Marianne, la donna che ama. Lei gli annuncia di aspettare un bambino, non da lui ma dal suo amico Paul, con il quale ha deciso di convolare a nozze. Abel rimane basito (il suo volto ha l'espressione attonita di Jean-Pierre Léad). Esce di casa e ruzzola giù dalle scale.
Otto anni dopo l'uomo ritrova l'ex amante in occasione del funerale del marito. I due tornano a stare insieme. Abel deve però difendersi dalle attenzioni di Ève, la donna tentatrice, e fronteggiare l'ostilità del figlio di Marianne, Joseph (che nel film è figura simbolica del divieto, nonché deus ex machina che sorveglia le relazioni tra gli adulti, ne mina le certezze e ne condiziona le scelte). Si viene a delineare, per il protagonista, un laborioso itinerario di ricerca interiore durante il quale egli sarà indotto a interrogarsi sul mistero del femminile, un tragitto tortuoso (Marianne spingerà subdolamente Abel ad andare a letto con Ève per poterlo poi conquistare definitivamente per sé) che gli consentirà infine di dare un senso nuovo alla propria esistenza.
Le esitazioni, gli affanni e le paure della vita di coppia, i disamori, i tradimenti, gli abbandoni, i traumi della rottura amorosa, i rapporti tra genitori e figli: sono questi da sempre i temi al centro della produzione di Philippe Garrel. E sono i temi che ritornano in questo secondo lungometraggio, come regista, di Louis Garrel (il suo film d'esordio, “Les deux amis”, del 2015, era anch'esso incentrato su un triangolo amoroso), privati però delle estremità drammatiche (e linguistiche) del cinema del padre, dei suoi accenti più gravi e dolenti.
Garrel figlio non appare interessato alla dimensione del tragico, alla registrazione della sofferenza, ma opta per la leggerezza aerea e lo humour. “L'uomo fedele” conserva la levità festosa, l'eleganza sottilmente beffarda, l'agile tessitura ritmica di un vaudeville d'altri tempi. A contare, nel film, è soprattutto il taglio burlesco e caricaturale del racconto. Racconto che nella sua studiatissima orchestrazione narrativa (alla sceneggiatura c'è un certo Jean-Claude Carrière) sembra voler virare talora verso le atmosfere del giallo (Joseph arriva a insinuare che la madre possa aver avvelenato il marito).
Si sente che Garrel ha ben assimilato la lezione dei maestri della Nouvelle Vague. E se le coloriture thriller della vicenda possono far pensare a Chabrol, lo sviluppo del triangolo amoroso, il discorso sul desiderio, il rapporto con il femminile rimandano al cinema di Rohmer, il Rohmer dei “Racconti morali” o di “Un ragazzo, tre ragazze”.
L'uomo fedele del titolo è un giovanotto vulnerabile, maldestro e irresoluto (persino al ristorante non sa decidere tra i piatti del menu), incapace di conservare il controllo sugli eventi che pur lo riguardano, e di relazionarsi, in modo adulto, con un femminile che, ai suoi occhi, si rivela un universo enigmatico e sfuggente (e proprio per questo ammaliante). Le due donne che nel film si contendono l'uomo oggetto, nel riproporre e aggiornare i ruoli dell’‘eletta’ e della ‘seduttrice’ che erano propri dei “Racconti morali” rohmeriani, esibiscono i volti antitetici e pur complementari di una femminilità inquietante nella sua gelida determinazione. Esse non subiscono le esitazioni del maschio, ma le sfruttano a proprio vantaggio ricorrendo alla manipolazione e all'inganno. Abel, l'uomo fedele in amore ma irresoluto nelle sue scelte, dovrà giocoforza consegnarsi nelle mani di un femminile indomito e vittorioso. E nella sua sottomissione troverà paradossalmente la salvezza.
Nicola Rossello, Cineforum

Louis Garrel è fedele: al suo personaggio abulico e impacciato, già vertice smussato di un altro triangolo amoroso nell’esordio “Les deux amis”, con un nome proprio - Abel - che resiste film dopo film a svariate traversie sentimentali, come un novello Antoine Doinel. Ma soprattutto è fedele allo spirito del tempo che aleggia intorno al Maggio francese, che Garrel figlio respira da bambino nei lavori più politici del padre, riscrive da ragazzo insieme a un altro maestro irregolare (“The Dreamers”) e infine reincarna, in un’operazione necrofila e sfrontata, da grande (“Il mio Godard”). Naturalmente, della nouvelle vague vengono meno la limpidezza ideologica e la radicalità della riflessione sulla forma, incatenate a una stagione culturale e a un contesto sociopolitico difficilmente ripetibili. Ma alcuni temi ritornano: uno su tutti il gioco delle coppie (questa volta per davvero), e il ménage à trois, che lega Marianne ed Ève come nipotine capricciose di Jules e Jim. Di Truffaut, poi, riecheggiano anche i toni dolceamari, il punto e il contrappunto: da una parte le voci narranti romanzesche - addirittura tre, una per lui, una per lei, una per l’altra - e i violini, che fanno il verso agli adagi malinconici di Delerue; dall’altra un’ironia giocosa e strisciante che presto ne smentisce le pretese (e qui c’è, forse, lo zampino di Carrière, sceneggiatore dei Buñuel più iconoclasti e paradossali). Ogni dichiarazione d’amore, ogni concessione all’intimità, ogni scena madre contiene, al suo interno, la chiave per un’autoparodia briosa, mentre Abel, Marianne ed Ève non sono che marionette smarrite nel tourbillon de la vie.
Maria Sole Colombo, Film Tv

LOUIS GARREL
Filmografia:
Due amici (2015), L’uomo fedele (2018)

Martedì 18 febbraio 2020:
TROPPA GRAZIA di Gianni Zanasi, con Alba Rohrwacher, Elio Germano, Giuseppe Battiston, Hadas Yaron, Carlotta Natoli

 

 
 
 

Stagione 2019/2020 | 4 febbraio 2020

Foto di cineforumborgo

 

DOLOR Y GLORIA

Regia: Pedro Almodóvar
Soggetto e sceneggiatura: Pedro Almodóvar
Fotografia: José Luis Alcaine
Musiche: Alberto Iglesias
Montaggio: Teresa Font
Scenografia: Antxón Gómez
Arredamento: Francisco Bassi, Vicent Díaz, José Luis Saldaña
Costumi: Paola Torres
Effetti: El Ranchito
Suono: Pelayo Gutiérrez (montaggio), Marc Orts (mixer)
Interpreti: Penélope Cruz (Jacinta, Antonio Banderas (Salvador Mallo), Asier Etxeandía (Alberto Crespo), Cecilia Roth (Zulema), Leonardo Sbaraglia (Federico), Nora Navas (Mercede), Raúl Arévalo (padre), Julieta Serrano (madre), Eva Martin (radiologa), Susi Sánchez (Beata), Pedro Casablanc (dr. Galindo), César Vicente (Albañil), Julián López, Agustín Almodóvar, Alba García, Esther García, Mina (sé stessa - filmato d'archivio), Marilyn Monroe (Rose Loomis) (filmato d'archivio), Warren Beatty (Bud Stamper) (filmato d'archivio), Natalie Wood (Wilma Dean Loomis) (filmati d'archivio)Colore: C
Produzione: Agustín Almodóvar, Esther García per El Deseo
Distribuzione: Warner Bros
Durata: 113'
Origine: Spagna, 2019
Data uscita: 17 maggio 2019
Premio per la migliore interpretazione maschile (Antonio Banderas) al 72. Festival di Cannes (2019)

Una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, un regista cinematografico oramai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri ricordati; “Dolor y Gloria” parla della creazione artistica, della difficoltà di separarla dalla propria vita e dalle passioni che le danno significato e speranza. Nel recupero del suo passato, Salvador sente l'urgente necessità di narrarlo, e in quel bisogno, trova anche la sua salvezza.
Salvador Mallo ha il volto di Antonio Banderas ma per il resto è 100% Almodóvar. Sono di Almodóvar la malinconia e i capelli dritti in testa, sua la casa in cui vive, che riproduce la vera casa del regista, suoi i mille dolori fisici e mentali acuiti dall' età. Salvador Mallo, protagonista quietamente alla deriva di “Dolor y Gloria”, è insomma un perfetto alter ego di Almodóvar, e come tutti gli alter ego è anche un luogo di reinvenzione e fantasia. L' ideale per un film che è una galleria di fantasmi a cavallo tra presente e passato, immaginazione e memoria, intimità segreta e immagine pubblica, con il fatale impasto di verità e menzogna su cui ogni immagine pubblica si fonda. Ecco dunque riaffacciarsi il protagonista di un successo di trent' anni prima con cui aveva litigato a morte (Asier Etxeandia), ecco le luci e i colori accesi di un'infanzia povera solo materialmente, ecco l'immagine di sua madre (che prima è Penelope Cruz poi l'indimenticabile Julieta Serrano) e quella del suo primissimo, inconsapevole amore, in cui già desiderio e capacità di creare immagini si mescolano, si alimentano, si confondono. Mentre nel suo opaco presente Mallo si lascia andare, aggiunge ai tanti farmaci l'eroina, accetta a malincuore l'invito della Cineteca per la presentazione di un suo film pensando di andarci con l'attore ritrovato, anche se poi tutto si svolgerà al telefono in uno dei non pochi momenti memorabili di un film che ha la cadenza ondivaga del ‘trip’ e gli improvvisi affondi emotivi cui ci ha abituato il regista di “Parla con lei”. Uno dei suoi tanti film convocati, più che citati, per l'occasione (quello spettatore che piange in platea...), in un continuo processo di rielaborazione e trasformazione del passato, anche cinematografico, che è forse il vero soggetto dello smaltato, visivamente magnifico “Dolor y Gloria”. Non tutto magari raggiunge la stessa temperatura. Non sempre il ‘tempo ritrovato’ di Mallo/Almodóvar, con tutti gli amori e gli errori che riaffiorano dal passato, diventa anche il nostro. Ma il colloquio con la madre anziana, in sottofinale, lo scarto che improvvisamente porta il film in una zona ancora inesplorata, il cocktail acrobatico di pathos e umorismo con cui evoca e insieme tiene a bada il dolore più acuto («Non fare quella faccia da narratore!»), sono la firma di un regista tornato grandissimo dopo lo sfocato “Julieta
Fabio Ferzetti, L’Espresso

Dolor y Gloria” (…...) è il personale “” di Pedro Almodóvar, attraverso la storia di un regista in crisi che non sa più girare film, crogiolandosi tra terapie analgesiche, eroina e depressione. È Salvador Mallo, cui dà volto, camicie e capelli alla Pedro, chiaro marchio autobiografico, Antonio Banderas, insolitamente ‘soldato’, nel senso che si affida fiduciosamente a un personaggio che sembra bisognoso di saldare i conti con il passato. Reduce da una operazione alla spalla, Mallo, perennemente sofferente, trasporta lo spettatore in frequenti salti nel tempo, attraverso cartoline dell' infanzia dove, in povertà, ma senza perdere la sua dignità, ammira la madre (da giovane, Penélope Cruz, che è di gran lunga la migliore del cast; da anziana, Julieta Serrano), sogna la mecca del cinema fantasticando con le figurine degli attori di Hollywood, inizia a provare “Il primo desiderio” (sul cui set si chiude “Dolor y Gloria”) nei confronti di un muratore a cui insegna a leggere e scrivere. Il cinema, ovviamente, è grande protagonista. In questo viaggio nostalgico, il ricordo del grande schermo bianco si mischia con quello del canto delle donne che lavavano i panni nel fiume. Mallo/Almodóvar si domanda come sia possibile che i suoi film possano avere successo lontano dalla Spagna, filosofeggiando sul fatto che non siano le pellicole ad invecchiare, ma quelli che le fanno, guardandole, a distanza di tempo, con occhi diversi. Una teoria interessante. “Dolor y Gloria” ha poco del cinema almodóvariano, quello dove l'umorismo ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Qui, sembra che questo percorso autobiografico diventi un po' fine a sé stesso, più dolore che gloria, peccando, in alcuni momenti, di eccesso di verbosità, come nelle inquadrature dove il regista spiega i suoi film. Però, l'entrata in scena di un amore del passato di Salvador, che crea impaccio in chi, pur ormai maturo, esita nei gesti e nei sentimenti, fa riabbracciare l'Almodóvar, fino ad allora con il freno a mano tirato, capace, come pochi, di emozionare. Come capita a Mallo che, scovato un vecchio acquerello che lo ritrae, ritrova l'ispirazione perduta, saldando la linea, artistica ed esistenziale, del suo passato, presente e futuro.
Maurizio Acerbi, Il Giornale

PEDRO ALMODÓVAR
Filmografia:
Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980), Labirinto di passioni (1982), L'indiscreto fascino del peccato (1983), Che ho fatto io per meritare questo? (1984), Matador (1986), La legge del desiderio (1987), Donne sull'orlo di una crisi di nervi (1988), Légami! (1989), Tacchi a spillo (1991), Kika (1993), Il fiore del mio segreto (1995), Carne tremula (1997), Tutto su mia madre (1999), Parla con lei (2001), La mala educacion (2004), Volver (2006), Gli abbracci spezzati (2009), La pelle che abito (2011), Gli amanti passeggeri (2013), Julieta (2016), Dolor y gloria (2019)

Martedì 11 febbraio 2020:
L'UOMO FEDELE
di Louis Garrel, con Laetitia Casta, Lily-Rose Melody Depp, Joseph Engel, Louis Garrel
 

 

 
 
 

Stagione 2019/2020 | 28 gennaio 2020

Foto di cineforumborgo

LA PARANZA DEI BAMBINI

Regia: Claudio Giovannesi
Soggetto: dal romanzo omonimo di Roberto Saviano (Ed. Feltrinelli)
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Claudio Giovannesi, Roberto Saviano
Fotografia: Daniele Ciprì
Musiche: Andrea Moscianese
Montaggio: Giuseppe Trepiccione
Scenografia: Daniele Frabetti
Costumi: Olivia Bellini
Suono: Giuseppe D'Amato, Emanuele Cicconi
Interpreti: Francesco Di Napoli (Nicola), Viviana Aprea (Letizia), Mattia Piano Del Balzo (Briatò), Ciro Vecchione ('O Russ), Ciro Pellecchia (Lollipop), Ar Tem (Tyson), Alfredo Turitto (Biscottino), Pasquale Marotta (Agostino), Luca Nacarlo (Cristian), Carmine Pizzo (Limone)
Produzione: Carlo Degli Esposti, Nicola Serra per Palomar/Vision Distribution
Distribuzione: Vision Distribution
Durata: 105'
Origine: Italia, 2019
Data uscita: 13 febbraio 2019
Orso d'Argento per la miglior sceneggiatura al 69. Festival di Berlino (2019)

Napoli 2018. Sei quindicenni - Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O'Russ, Briatò - vogliono fare soldi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi. Giocano con le armi e corrono in scooter alla conquista del potere nel Rione Sanità. Con l'illusione di portare giustizia nel quartiere inseguono il bene attraverso il male. Sono come fratelli, non temono il carcere né la morte, e sanno che l'unica possibilità è giocarsi tutto, subito. Nell'incoscienza della loro età vivono in guerra e la vita criminale li porterà ad una scelta irreversibile: il sacrificio dell'amore e dell'amicizia.
In Italia, oggi come oggi, sono pochi i registi capaci di girare ad altezza adolescente come Claudio Giovannesi. (……) Dal carcere giovanile del film precedente, ambientato a Roma, ci spostiamo nei quartieri di Napoli. Sei quindicenni - Nicola, Tyson, Biscottino, Lollipop, O'Russ, Briatò - vogliono fare soldi, comprare vestiti firmati e motorini nuovi. Giocano con le armi e corrono in scooter alla conquista del potere nel Rione Sanità. Sono come fratelli, non temono la galera né la morte, e sanno che l'unica possibilità è giocarsi tutto, subito.
Il più determinato è Nicola (Francesco Di Napoli), che dapprima inizia a ‘faticare’ (spaccio) per il boss Sarnataro (Aniello Arena) e poi, in pieno vuoto di potere, si allea con gli eredi emarginati di un capo ormai deceduto. L’illusione che lo muove è quella di portare giustizia nel quartiere, inseguendo il bene attraverso il male. Ma è una vita in guerra, che pur nell’incoscienza di quell’età, lo costringerà a sacrificare gli affetti più cari, tanto le amicizie quanto l’amore.
Fuggendo qualsiasi spettacolarizzazione e allontanandosi dai parametri estetico-narrativi di confezioni stile “Gomorra” (la serie), Giovannesi - supportato e non poco anche dall'ottimo lavoro alle luci di Daniele Ciprì - sembra piuttosto orientarsi verso la tensione più trattenuta e non per questo meno avvincente del “Gomorra” realizzato da Garrone nel 2008. Se lì il punto di vista si disperdeva, però, qui viene catalizzato nella figura di Nicola, antieroe con cui è facile empatizzare nei momenti di normalità (il rapporto con la mamma, con il fratello minore, con la ragazzina di cui s’invaghisce, interpretata da Viviana Aprea) e verso il quale è altrettanto facile dissociarsi negli altri casi (mosso da quell’inevitabile sete di potere che lo condurrà anche al primo omicidio, salvo poi ritrovarsi a piangere davanti uno specchio un attimo dopo).
Ecco, “La paranza dei bambini” è un film che in maniera molto intelligente riesce a smarcarsi dalla facile pornografia del camorra-movie per intraprendere un percorso indirizzato verso le profondità della fruizione, all'origine della perdita dell'innocenza: non c’è nessun miraggio di una vita ‘migliore’ (se non una fugace e vagheggiata idea di trasferta spensierata al sole gioioso della salentina Gallipoli), né tantomeno alcun suggerimento su come potersi affrancare da quel tipo di esistenza, non c’è la tagliola di uno sguardo esterno giudicante, né personaggi vagamente ‘moralizzatori’.
Il perché dei quindicenni (straordinario il lavoro sul casting) si ritrovino a vivere un qui e ora di questo tipo non c’è bisogno di ‘spiegarlo’, di mostrarne le cause pregresse o gli sviluppi futuri: è tutto drammaticamente scritto nella realtà di un film che non ha alcuna intenzione, né necessità, di andare a ritoccare con chissà quale pirotecnico artificio i tanti, troppi spunti che arrivano dalle cronache quotidiane: a Giovannesi, a noi, interessa piuttosto intuire, percepire, introiettare quell’ineludibile ombrosità che aleggia sul viso di un adolescente, Nicola, primus inter pares scelto per restituire quella terribile dualità che solamente un’innocenza tradita (dal contesto, dagli eventi, dalla vita) può incarnare. E che resta, sottotraccia, ben impressa nell’animo dello spettatore anche parecchio tempo dopo l’ultimo frame del film. Senza scampo.
Valerio Sammarco, Cinematografo.it

Si cresce troppo in fretta nel Rione Sanità di Napoli, quello dove Eduardo aveva fatto il sindaco nel celebre spettacolo del 1960. Lo Stato non esiste, le istituzioni hanno fallito. I ragazzi diventano grandi con il mito dei boss: «Non chiedeva a nessuno di pagare, era un brav'uomo. L'hanno ammazzato». E il fratellino più piccolo: «Peccato». I più giovani rubano l'albero di Natale, si riuniscono in tribù, ballano intorno al fuoco dipingendosi il volto. Nascono le paranze, in gergo i commando armati dei camorristi. Ma chi ha una mitragliatrice nella mano destra non ha ancora raggiunto i diciotto anni. Da qui il titolo, “La paranza dei bambini”, tratto dall'omonimo libro di Roberto Saviano, anche autore della sceneggiatura con il regista Claudio Giovannesi e Maurizio Braucci. Gli adulti si vedono poco, hanno un ruolo marginale. La vera scuola è la strada, l'unico futuro è sfumato tra la droga e le pallottole. Va in scena il fallimento di ogni etica, il ritratto di una società violenta, che si fonda sull'onore e i regolamenti di conti. Sembra di rivedere la vicenda di Totò in “Gomorra”, la storia del tredicenne che voleva farsi re. Qui a portare la corona è chi si contende ancora le crostatine al mattino per la colazione, chi non può rendersi conto delle proprie azioni. Lo sguardo, mai moralista, è quello di un padre che ha fallito, di un mondo che ha estirpato l'innocenza. Che cinema quello di Giovannesi! Ti si attacca alla pelle, rifiuta l'enfasi per indagare sulle radici della tragedia, illumina lo schermo con la potenza delle immagini, lontano dai luoghi comuni e dal qualunquismo. “La paranza dei bambini” è un film sincero, appassionato, attento all'animo umano. Devastante nei contenuti, rigoroso nel linguaggio, è l'opera più riuscita della carriera di Giovannesi.
Gian Luca Pisacane, Famiglia Cristiana

CLAUDIO GIOVANNESI
Filmografia
:
Welcome Bucarest (2007), La casa sulle nuvole (2009), Fratelli d'Italia (2009), Alì ha gli occhi azzurri (2012), 9x10 novanta ("Il mio dovere di sposa") (2014), Wolf (2014), Fiore (2016), La paranza dei bambini (2019)

Martedì 4 febbraio 2020:
DOLOR Y GLORIA di Pedro Almodóvar, con Penélope Cruz, Antonio Banderas, Asier Etxeandía, Cecilia Roth, Leonardo Sbaraglia

 

 
 
 

Stagione 2019/2020 | 21 gennaio 2020

Foto di cineforumborgo

 

COLD WAR

Titolo originale: Zimna Wojna
Regia: Pawel Pawlikowski
Sceneggiatura: Pawel Pawlikowski, Janusz Glowacki (cosceneggiatore)
Fotografia: Lukasz Zal
Montaggio: Jaroslaw Kaminski
Scenografia: Marcel Slawinski, Katarzyna Sobanska
Costumi: Aleksandra Staszko
Suono: Maciej Pawlowski, Miroslaw Makowski
Interpreti: Tomasz Kot (Wiktor), Agata Kulesza (Irena), Joanna Kulig (Zula), Borys Szyc (Kaczmarek), Jeanne Balibar (Juliette), Jacek Rozenek (Józef Rózanski), Cédric Kahn (Michel), Martin Budny (americano), Philip Lenkowsky (straniero), Adam Woronowicz (console), Adam Ferency (ministro), Adam Szyszkowski (guardia), Drazen Sivak (investigatore 1), Slavko Sobin (investigatore 2), Aloïse Sauvage (cameriera), Anna Zagórska (Ania), Tomasz Markiewicz (capo del ZMP), Izabela Andrzejak (Mazurek), Kamila Borowska, Katarzyna Ciemniejewska, Joanna Depczynska, Gracjana Graczyk, Dominika Ladziak, Martyna Mankowska, Zofia Nowak, Anna Pas, Patryk Jurczyk, Pawel Kasprzak
Produzione: Ewa Puszczynska, Tanya Seghatchian per Opus Film/Apocalypso Pictures/MK Productions
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 89'
Origine: Gran Bretagna, Francia, Polonia, 2018
Data uscita: 6 dicembre 2018
Premio per la miglior regia al 71. Festival di Cannes (2018)

Nella Polonia alle soglie degli anni Cinquanta, la giovanissima Zula viene scelta per far parte di una compagnia di danze e canti popolari. Tra lei e Wiktor, il direttore del coro, nasce un grande amore, ma nel '52, nel corso di un'esibizione nella Berlino orientale, lui sconfina e lei non ha il coraggio di seguirlo. S'incontreranno di nuovo, nella Parigi della scena artistica, diversamente accompagnati, ancora innamorati. Ma stare insieme è impossibile, perché la loro felicità è perennemente ostacolata da una barriera di qualche tipo, politica o psicologica.
Alle volte basta una spiccata sensibilità musicale, la capacità di comprendere così profondamente come un certo stile, certe armonie e certe melodie possano sposarsi a determinati luoghi, costumi ed epoche per creare un grande film. Dentro “Cold War” c’è una storia abbastanza canonica d’amore passionale e impossibile (né con te né senza di te) tra due amanti che in 15 anni circa si rincorrono in tutta l’Europa degli anni ‘50 e ‘60, passando da una parte e all’altra della cortina di ferro. Ma per quanto ben recitata e trasportata da una notevole sensibilità, è quel che c’è dietro a questa trama a reggere tutto il film.
Si tratta della storia non dei fatti ma del costume e della società, di cosa eravamo e come siamo cambiati, nell’epoca della guerra fredda raccontata tramite i vari settori dell’industria musicale e della sua evoluzione. Idee astratte come libertà, inibizione, tensione, voglia di riscatto e autodistruzione sono rese dagli abiti e dalle melodie. Similmente al classico di Bakshi, “American Pop” (ma con stile ovviamente molto diverso), “Cold War” racconta di due talenti che emergono in modi diversi nella musica, attraversando stili e generi in un continuo mutamento che non fa che palesare come la loro tensione in realtà rimanga sempre la stessa.
Wiktor e Zula si incontrano all’inizio alle audizioni per una compagnia di ballo e canto popolare tradizionale polacco. Apparenza da campo di concentramento ma dinamiche da “Saranno famosi”, lei fa subito colpo col suo carattere e la sua voce, lui è in commissione e gestisce la compagnia. Il sodalizio artistico è subito un successo e se ne accorgono anche le alte sfere del partito. In seguito prenderanno strade diverse, poi simili, poi di nuovo diverse con carriere altalenanti che si influenzeranno a vicenda in un continuo amarsi e respingersi, fuggire e poi cercarsi.
La musica francese, quella slava e di nuovo quella polacca, “Cold war” riesce a non preferirne nessuna e ad ognuna trova il suo senso, il suo contesto e la usa per spiegare un mondo. Questo è vero già in quel primo momento, quando lavorano nella compagnia di balli e canti folkloristici. Le canzoni tradizionali polacche dei campi e dei proletari hanno un’orchestrazione meravigliosa a cui Pawlikowski abbina scenari che ne completano il senso. Zula che nelle campagne polacche canta una melodia contadina che parla d’amore ingenuo mentre prova quell’amore e si lascia trasportare dall’acqua del fiume in cui galleggia, è un’immagine così centrata, armoniosa e in cui musica, e immagini vanno così a braccetto, da illuminare di colpo sul senso di quelle note e sulla loro evidente bellezza. Lì in quel modo e in quel punto sembra anche allo spettatore che davvero tutto abbia senso.
Nella stessa maniera poi la musica da film, la musica jazz da club degli anni ‘50 e quella latina degli anni successivi saranno sempre abbinate al giusto contesto, al giusto mood, ai giusti scenari per raccontare assieme a questo classico amore funestato dalla troppa passione anche la storia dell’evoluzione della musica stessa, come sia sempre stata specchio della società e di come vivevano le persone sia nel mondo libero che in quello comunista.
Dire che la ‘musica è protagonista’ così tanto da dare un senso ad intreccio sentimentale risaputo, sarebbe un’incredibile banalità di fronte ad un film così sofisticato che in certi punti sembra replicare inquadrature da cinema hollywoodiano degli anni ‘30 (specie nelle feste affollate) e in altre (quando i personaggi sono soli e disperati) sembra imitare la fotografia ruvida e immediata di John Cassavetes per avere il meglio dei due mondi uniti in modi che non pensavamo possibili prima di vederlo, eppure è la verità.
Gabriele Niola, BadTaste.it

Il film di spionaggio che gli americani non sanno più girare - e cioè un film sul tradimento e sulla finzione, sulla Storia costruita con il tradimento e la finzione, dunque “Casablanca” o addirittura il cinema stesso - l’ha girato Pawlikowski con “Zimna Wojna” (“Cold War”). Dalla campagna polacca a Varsavia, da Berlino a Parigi alla Jugoslavia, poi ancora Parigi e Varsavia, la storia d’amore tra un compositore e una cantante tra il 1948 e il 1964. Il mélo è il pretesto, la musica il vero testo, fondata com’è sull’idea di influenza e di furto, con scavallamenti fra Est a Ovest e viceversa e passaggi dalla tradizione popolare al jazz, dal rock al cha cha cha. E oltre la musica, ovviamente, la Storia, quella politica dell’Europa e quella del cinema (Bresson, Tarkovskij, Antonioni, Freda, Forman, Polanski) non citato, ma evocato, rifatto, rimodulato. Capolavoro.
Roberto Manassero, Film Tv

PAWEL PAWLIKOWSKI
Filmografia
:
Last Resort (2000), My Summer of Love (2004), La femme du cinquième (2011), Ida (2013), Cold war (2018)

Martedì 28 gennaio 2020:
LA PARANZA DEI BAMBINI
di Claudio Giovannesi, con Francesco Di Napoli, Viviana Aprea, Mattia Piano Del Balzo, Ciro Vecchione, Ciro Pellecchia


 

 
 
 
 
 

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Un blog di: cineforumborgo
Data di creazione: 29/09/2007
 

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