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I film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020

 

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Messaggi di Febbraio 2019

Cineforum 2018/2019 | 26 febbraio 2019

Foto di cineforumborgo

 

CHIAMAMI COL TUO NOME

Regia: Luca Guadagnino
Soggetto: dal romanzo omonimo di André Aciman (ed. Guanda, coll. Narratori della Fenice)
Sceneggiatura: James Ivory
Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom
Montaggio: Walter Fasano
Scenografia: Samuel Deshors
Arredamento: Sandro Piccarozzi
Costumi: Giulia Piersanti
Effetti: Luca Saviotti
Suono: Yves-Marie Omnes, Jean-Pierre Laforce
Interpreti: Armie Hammer (Oliver), Timothée Chalamet (Elio Perlman), Michael Stuhlbarg (sig. Perlman), Amira Casar (Annella Perlman), Esther Garrel (Marzia), Victoire Du Bois (Chiara), Vanda Capriolo (Mafalda), Antonio Rimoldi (Anchise), Elena Bucci (Bambi), Marco Sgrosso (Nico), André Aciman (Mounir), Peter Spears (Isaac)
Produzione: Peter Spears, Luca Guadagnino, Emilie Georges, Rodrigo Teixeira, Marco Morabito, James Ivory, Howard Rosenman per Frenesy/La Cinefacture, in collaborazione con Water's End Productions
Distribuzione: Warner Bros. Entertainment italia
Durata: 132'
Origine: Francia, Italia, U.S.A., Brasile, 2017
Data uscita: 25 gennaio 2018
Oscar 2018 per la miglior sceneggiatura non originale.

È l'estate del 1983 nel nord dell'Italia, ed Elio Perlman, un precoce diciassettenne americano, vive nella villa del XVII° secolo di famiglia passando il tempo a trascrivere e suonare musica classica, leggere, e flirtare con la sua amica Marzia. Elio ha un rapporto molto stretto con suo padre, un eminente professore universitario specializzato nella cultura greco-romana, e sua madre Annella, una traduttrice, che gli danno modo di approfondire la sua cultura in un ambiente che trabocca di delizie naturali. Mentre la sofisticazione e i doni intellettuali di Elio sono paragonabili a quelli di un adulto, permane in lui ancora un senso di innocenza e immaturità, in particolare riguardo alle questioni di cuore. Un giorno, arriva Oliver un affascinante studente americano, che il padre di Elio ospita per aiutarlo a completare la sua tesi di dottorato. In un ambiente splendido e soleggiato, Elio e Oliver scoprono la bellezza della nascita del desiderio, nel corso di un'estate che cambierà per sempre le loro vite.
Chiamami col tuo nome” è il capitolo conclusivo della ‘Trilogia del desiderio’ di Luca Guadagnino, cominciata con “Io sono l’amore” (2009) e proseguita con “A bigger splash” (2015). È anche quello di maggior successo, premiato con l’Oscar alla migliore sceneggiatura non originale di James Ivory. Tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman edito in Italia da Guanda, il film era inizialmente un progetto proprio del regista di “Quel che resta del giorno”, con Guadagnino come produttore esecutivo. Dopo il rifiuto suo e di Gabriele Muccino (altro interpellato per la regia) Guadagnino decide di dirigerlo, d’accordo con Ivory, lavorando alla sceneggiatura insieme al montatore abituale Walter Fasano. Senza farla troppo lunga con la storia produttiva, “Chiamami col tuo nome” viene girato vicino a Crema, in Lombardia, in soli 33 giorni, e alla sua uscita ha un consenso forse addirittura superiore alle aspettative dell’autore, che specialmente in patria continua(va) a essere ‘poco profeta’, essendo i suoi titoli precedenti stati accolti tiepidamente dalla critica più conformista e un po’ evitati dal pubblico generalista. Guadagnino può a questo giro contare su endorsement clamorosi come quelli di Xavier Dolan, Pedro Almodóvar e Paul Thomas Anderson, che lodano pubblicamente il film. Conta soprattutto su due attori strepitosi: Timothée Chalamet e Armie Hammer. Storia di educazione alla vita, all’amore, all’eros di un diciassettenne, Elio Perlman, ebreo un po’ americano, un po’ italiano e un po’ francese che si innamora di un ospite del padre archeologo nella loro casa di campagna ‘da qualche parte nel nord Italia’. Oggetto, o meglio soggetto, del desiderio è Oliver, ventiquattrenne ben consapevole delle proprie potenzialità seduttive. Guadagnino opta per una messa in scena apparentemente semplice che invece valorizzi una storia sofisticata, evitando a personaggi ‘molto scritti’ nella loro articolazione di risultare forzati, o fasulli. Prendete Elio: nella sua densità d’adolescente si ritrovano una certa protervia ‘del sapere’, che lo stesso Oliver stigmatizza quando il giovane sciorina i numeri della Grande guerra davanti al monumento ai caduti, ma anche l’evidente insicurezza («Io non so niente») e la fame d’esperienza. Fame, voracità: sono temi chiari di un film la cui icona (la pesca) non a caso si mangia, ed è piuttosto interessante vedere Elio avventarsi su Oliver quando sono finalmente in camera da letto. La voracità del ragazzo passa dal piano intellettuale (è un avido lettore, porta Oliver nel suo ‘secret garden’ sul fiume e gli dice: «Non hai idea di quanti libri abbia letto qui») a quello carnale; ma in mezzo ce n’è un terzo, il più difficile da riconoscere, gestire e dominare, quello del sentimento. Una sfida anche per Guadagnino, che all’irrompere sordo e inesorabile del sentimento dedica il finale di partita (l’elaborazione dell’amore, una volta ripartito Oliver) prendendosi un rischio notevole (nel monologo del padre, certo coerente con il suo rapporto con Elio, che in precedenza gli aveva confessato di avere quasi fatto sesso con Marzia, e tuttavia, secondo me, troppo cerebrale) ma anche sospendendone il peso, la permanenza. Credo sia il senso del primo piano di Elio che a stento trattiene le lacrime nella sequenza finale. Le parole sussurrate e lette, pensate e scritte, possono forse dirci le ragioni della conclusione di una storia, ma solo lo sguardo coglie con tale potenza l’espressione di un’intimità. Esiste il bello assoluto, ed è il finale di “Chiamami col tuo nome”.
Mauro Gervasini, Film Tv

(…...) questo percorso di conoscenza e di scoperta non avrebbe fascino e armonia, se la storia non fosse accompagnata dalla descrizione di un mondo che sembra fatto per accompagnare Elia (e lo spettatore) verso un'esperienza fondativa. Mi sembra questa la vera forza di “Call me by your name” di Luca Guadagnino: al centro del film non c’è tanto la scoperta della propria omosessualità, quanto la possibilità di farlo, il sogno (o l'utopia) di un ambiente che sappia accettare le pulsioni del desiderio ovunque portino e che, come dice un padre meravigliosamente sensibile, siano d'aiuto alla propria crescita.
Paolo Mereghetti, Corriere della Sera

LUCA GUADAGNINO
Filmografia
:
The Protagonists (1999), Tilda Swinton - The love factory (2002), Mundo Civilizado (2003), Cuoco contadino (2004), Melissa P. (2005), Io sono l'amore (2009), Inconscio italiano (2011), Bertolucci on Bertolucci (2013), A Bigger Splash (2015), Suspiria (2017), Chiamami col tuo nome (2017)

Martedì 5 marzo 2019:
UNA DONNA FANTASTICA di Sebastián Lelio, con Daniela Vega, Francisco Reyes, Aline Küppenheim, Luis Gnecco, Amparo Noguera

 

 

 
 
 

Cineforum 2018/2019 | 19 febbraio 2019

Foto di cineforumborgo

 

ABRACADABRA

Regia: Pablo Berger
Sceneggiatura: Pablo Berger
Fotografia: Kiko de la Rica
Montaggio: David Gallart
Scenografia: Alain Bainée
Costumi: Paco Delgado
Effetti: Jordi San Agustín
Interpreti: Maribel Verdú (Carmen), Antonio de la Torre (Carlos), José Mota (Pepe), José María Pou (dott. Fumetti), Quim Gutiérrez (Tito), Priscilla Delgado (Toñi), Julián Villagrán (Pedro Luis), Javivi (Agustín), Saturnino García (Mariano), Ramón Barea (tassista), Janfri Topera (Rogelio)
Produzione: Ibon Cormenzana, Jérôme Vidal, Ignasi Estapé, Pablo Berger, Mikel Lejarza, Mercedes Gamero per Arcadia Motion Pictures/Perséfone Films/Pegaso Pictures/Noodles Production/Atresmedia Cine/Scope Pictures/Movistar+
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 96'
Origine: Spagna, Francia, Belgio, 2017
Data uscita: 17 maggio 2018

Carmen vive nella periferia di Madrid con il marito Carlos. Lei è una casalinga dedita alla famiglia; lui un operaio edile, tifoso di calcio che vive solo per il Real Madrid. Un giorno, la normale routine della coppia viene sconvolta per sempre. A un ricevimento di nozze, il cugino di Carmen, Pepe, ipnotizzatore dilettante, decide di dare una dimostrazione delle sue doti e chiede un volontario tra il pubblico e Carlos, scettico, decide di stare al gioco. Il mattino dopo, però, l'uomo inizia a comportarsi stranamente: qualcosa è andato storto e ora è posseduto da uno spirito. Tutti i cugini decidono così trovare insieme il modo per far tornare Carlos normale, mentre Carmen comincia a sentirsi curiosamente attratta dal ‘nuovo’ marito.
 “Abracadabra” ha un’anima doppia e mutevole come metamorfica è l’identità del personaggio su cui opera l’incantesimo del titolo. Tutto, nel film, pare avere un doppio - più o meno valido dell’originale - come l’esilarante riproduzione esatta della camera da letto della coppia scambista a partire da una pagina del catalogo “KILEA”. Il doppio pare essere, se non necessario, perlomeno utile in un mondo di inetti, incapaci persino di svolgere l’unico ruolo che una stereotipizzazione comica al limite dell’assurdo assegna loro. Così, l’ipnotista è chiaramente impossibilitato ad affrontare le conseguenze dell’unico numero riuscito (per sbaglio), ed è costretto ad avvalersi dell’aiuto del ‘maestro’, che si rivela altrettanto inabile nel risolvere la situazione.
I personaggi sono intrappolati in una condizione di inadeguatezza dalla quale sembra difficile - se non impossibile - emanciparsi, quella stessa insicurezza cronica che porta la protagonista ad imitare il look di Madonna per il matrimonio che apre il film - e la figlia adolescente la esorta: «sei proprio uguale».
In linea con gli individui semplici, ingenui e piattamente ridotti a una caratterizzazione povera dai pochi ed esasperati tratti salienti che il film ritrae, tutto il resto è altrettanto kitsch, relegato a un livello puramente superficiale, dove la magia è ‘abracadabra’ e il motivetto scatenante di un assassino è il ballo del qua qua, dove un anziano moribondo riprende temporaneamente vita grazie alle mutande di Superman e dove l’incantesimo può avvenire solo dietro travestimento del ‘mago’ - «hai l’eye-liner?», chiede prima del momento cruciale.
Eppure, l’unica via per trascendere questo microcosmo di superficialità e inidoneità è proprio l’ipnosi, connotata come il solo possibile medium di discesa verso una nuova e inesplorata profondità dell’essere. Un processo magico perché passibile di liberare i personaggi dalla trappola di un’ottusa apparenza, in un appuntamento inaspettato con l’inconscio, quello stesso - spaventoso - istinto primordiale che l’assassino incontra nelle proprie schizofreniche allucinazioni. Sebbene travestita, ironicamente, ad assomigliare al resto dei personaggi, con abiti sgargianti - per non dare nell’occhio - la scimmia, visione che appare all’omicida e allo spettatore come indice e premonizione di una strage, è l’incarnazione di un impulso animale e sregolato. Lo stesso istinto che pare dominare sul terribilmente mal-educato Carlos, capace, nella propria ignorante sufficienza, di spezzare la solennità di un matrimonio (e del matrimonio in generale) inveendo contro una partita di calcio. E, paradossalmente, adeguato alle proprie mansioni di marito solo quando posseduto da un pazzo assassino.
È dunque uno spirito maligno che, per assurdo, e per contrasto, veste un ruolo di denuncia, palesando la disumanità di questi personaggi fantocci a partire dalla rivelazione di una loro maggiore inadeguatezza - rispetto al proprio essere di schizoide omicida. La sua presenza, che rimane latente nel mondo di “Abracadabra” - il filmato della strage, la possessione di Carlos, il focolare intatto sin dopo il matricidio di decenni prima - è risolta non solo in un assurdo miglioramento della figura del marito, l’idealizzazione del partner perfetto, ma nell’infusione di una nuova consapevolezza in Carmen.
Nell’immensità della ‘stanza bianca’ visitata durante la doppia ipnosi finale - quell’ambiente che si caratterizza come una sorta di inconscio collettivo - la moglie, liberata dalle catene di un ruolo che le sta stretto, è pronta ad affrontare quell’inedita (letterale) ‘profondità d’animo’ e di intenti e finalmente capace di emanciparsi da un mondo tossico fatto di figure piatte e simulacri.
Carlotta Po, Cineforum

Plumbea periferia di Madrid. Real solo sul campo di calcio, unico piacere del muratore e tifoso Carlos (Antonio de la Torre) descritto come un bruto, marito cavernicolo di Carmen (Maribel Verdú, “Y tu mamá también”) e padre scellerato di un’adolescente. Prologo fulminante con le due donne acconciate con abiti-lampadario per una festa di nozze, impazienti del fischio finale mentre l’uomo sbraita davanti alla tv. Pedro Almodóvar si dissocia dalla crisi di nervi di donne e uomini, anche se il bizzarro made in Spagna non può che evocarlo. Colori acidi, maschere, travestimenti, camp e kitsch sono difficili da maneggiare, tranne che per il regista di Carne tremula. “Abracadabra”è la parola magica pronunciata dal cugino di Carmen, Pepe (José Mota), che ipnotizza Carlos e gli infonde uno spirito schizofrenico così perverso da farlo disamorare del Real Madrid e appassionare all’aspirapolvere e ai lavori di casa. Il villain ignorante è cambiato. Pablo Berger ha vinto dieci premi Goya con il suo secondo film, “Blancanieves” (2012), favola gotica muta e in bianco e nero, e adesso, al terzo titolo, sceglie la commedia surreale che gli riesce solo quando si tinge di nero, come nella sequenza di una carneficina immaginaria nelle cucine di un ristorante, attraversato da uno scimpanzé vestito di rosso e armato di coltello. O in altre macabre visioni condite di grottesco, a cominciare dal dottor Fumetti, un ruvido ‘mago’ cialtrone, e nella pantomima di un funereo venditore di case che mima lo sgozzamento di una vittima in un clima da “Psyco”. Ma alla fine il messaggio liberatorio della casalinga inquieta rivaluta l’ultras Carlos.
Mariuccia Ciotta, Film Tv

PABLO BERGER
Filmografia
:
Torremolinos 73 (2003), Blancanieves (2012), Abracadabra (2017)

Martedì 26 febbraio 2019:
CHIAMAMI COL TUO NOME
di Luca Guadagnino, con Armie Hammer, Timothée Chalamet, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrel


 

 
 
 

Cineforum 2018/2019 | 12 febbraio 2019

Foto di cineforumborgo

 

TONYA

Titolo originale: I, Tonya
Regia: Craig Gillespie
Sceneggiatura: Steven Rogers
Fotografia: Nicolas Karakatsanis
Musiche: Peter Nashel
Montaggio: Tatiana S. Riegel
Scenografia: Jade Healy
Arredamento: Adam Willis
Costumi: Jennifer Johnson
Interpreti: Margot Robbie (Tonya Harding), Sebastian Stan (Jeff Gillooly), Allison Janney (LaVona Golden), Paul Walter Hauser (Shawn Eckhardt), Julianne Nicholson (Diane Rawlinson), Bobby Cannavale (Martin Maddox), McKenna Grace (Tonya Harding adolescente), Caitlin Carver (Nancy Kerrigan), Jason Davis (Al Harding), Cory Chapman (Chris), Anthony Reynolds (Derrick Smith), Ricky Russert (Shane Stant), Lynne Ashe (madre di Shawn), Steve Wedan (padre di Shawn), Bobby Browning (Joe), Cassidy Balkcom (Oksana Baiul), Dan Triandiflou (Bob Rawlinson), Alphie Hyorth (giudice Londer)
Produzione: Bryan Unkeless, Steven Rogers, Margot Robbie, Tom Ackerley per AI-Film/Clubhouse Pictures/Luckychap Entertainment
Distribuzione: Lucky Red in associazione con 3 Marys Entertainment
Durata: 121'
Origine: U.S.A., 2017
Data uscita: 29 marzo 2018

Golden Globe 2018 a Allison Janney come miglior attrice non protagonista; Oscar 2018 ad Allison Janney come miglior attrice non protagonista.

L'incredibile storia vera di Tonya Harding, pattinatrice artistica su ghiaccio salita alla ribalta internazionale non solo per le sue doti sportive, ma anche per il coinvolgimento nell'aggressione alla collega Nancy Kerrigan, nel gennaio 1994.
Il cinema esegue un salto triplo sul ghiaccio in “Tonya”, un biopic anomalo, vibrante, che denuncia le ipocrisie della società contemporanea. Tonya Harding ha infiammato il mondo del pattinaggio all’inizio degli anni Novanta, quando ancora scivolava veloce nei palazzetti di tutto il globo. Lei era la figlia del mito targato Ronald Reagan, di quel liberismo che avrebbe rilanciato il sogno americano. Non a caso la foto del presidente compare anche sul muro di un garage, per ricordare che se un attore poteva sedersi nello Studio Ovale, anche una ragazza di Portland sarebbe arrivata alle olimpiadi. Lei non è la principessa di una favola per bambini, i risultati li ottiene col sangue e con le urla di una madre che non accetta il fallimento. A tre anni, Tonya è già schiava delle sue passioni. Il ‘sergente in gonnella’ che la mantiene ha costruito una campionessa in miniatura, che non può abbandonare la pista neanche per andare in bagno. I pattini nutrono la sua anima, le botte induriscono il suo corpo. La violenza diventa il pane quotidiano nelle giornate di Tonya, sempre malmenata da chi invece dovrebbe proteggerla. Lo scandalo nasce dagli schiaffi, da una fanciullezza che se n’è andata con gli allenamenti selvaggi e l’impossibilità di ricevere una carezza. Più che per meriti sportivi, lei viene ricordata per l’aggressione all’avversaria Nancy Kerrigan, nel 1994, dopo un allenamento. Il resto è storia, ma non dimentichiamoci che fu la seconda al mondo ad eseguire un triplo axel, un salto che quasi trent’anni fa illuminava i volti di appassionati ed esperti. Poi tutto si è spento.
Il film di Craig Gillespie (“L’ultima tempesta”, “Fright Night”) punta il dito contro una società di maschere, che si preoccupa solo dell’apparenza. La verità non interessa a nessuno. La Federazione deve promuovere un’atleta che sia un esempio sano per il Paese, non una ribelle che insulta i giudici durante la gara e sembra uno scaricatore di porto nei modi e nel linguaggio. L’immagine è essenziale, il talento passa in secondo piano. I media plasmano gli eventi, non si interrogano sulle cause o sui drammi che hanno preceduto la follia: per fare audience bisogna alzare il volume, sembra gridare il regista. E nell’era delle fake news, fa più ascolti un albero che cade di una foresta che cresce. Qual è la verità? Di chi ci si può davvero fidare mentre si rivolge direttamente alla platea? Ognuno ha la sua versione dei fatti, e la sensazione è che non sapremo mai dove la cronaca si trasforma in inganno, un raggiro che la sportiva di turno deve mettere in piedi per sentirsi innocente. Assolta dal pubblico, condannata per l’eternità. Già Kurosawa si interrogava sul limite di ogni punto di vista, sull’impossibilità di svelare il mistero che si nasconde dietro alla violenza. Bisogna superare le apparenze, andare oltre gli ammicchi e le lacrime (spesso di coccodrillo), e forse, anche così, lo spettatore non riuscirà a riemergere da questa pioggia di bugie. La macchina da presa è il primo inquisitore: non abbandona mai Tonya, non la lascia respirare. I carrelli la inseguono sulla pista nelle sue indimenticabili evoluzioni, i primi piani catturano i falsi sorrisi alla fine di ogni gara, quando lei vorrebbe piangere di dolore perché, in realtà, è sola. La protagonista ha le sembianze angeliche di un’intensa Margot Robbie, che regala la migliore interpretazione della sua carriera. Ne ha fatta di strada da quando era la sventola di “The wolf of Wall Street”: adesso si imbruttisce per essere molto più di una bionda armata di solo glamour.
Tonya” riesce anche a far ridere a denti stretti e racconta la parabola di una vita turbolenta, di una donna forte che non è mai riuscita a essere l’eroina che tutti volevano. Gillespie chiede ai suoi attori di sfondare la quarta parete, di parlare al pubblico attraverso delle interviste girate per l’occasione, giocando con il documentario e la commedia amara. I generi si fondono, i sogni s’infrangono, mentre l’incontenibile Tonya ci stupisce con un altro triplo axel.
Gian Luca Pisacane, Cinematografo.it

(……) Il film di Gillespie, in effetti, è #teamTonya: la verità è sfuggente, ma la versione vincente è quella di Harding, ‘mandante inconsapevole’ (voleva «solo spaventarla») dell’attacco che mise fuori gioco la rivale Kerrigan, colpita al ginocchio con una spranga da un balordo prezzolato. Ci sarebbe lo spazio per riflessioni non banali sul perverso rapporto tra l’America e la fama, ma a Gillespie non interessano poi tanto: “Tonya” è un frullato dopato di cinema indie-pop, un ritratto coenianamente acido, scorsesianamente grottesco, avvitato su montaggio ammiccante e pezzi da playlist (Fun Lovin’ Criminals, Supertramp, Fleetwood Mac). Il meglio viene dagli attori: Allison Janney nobilita il suo ruolo da Oscar (girato in soli otto giorni) e ispessisce la sottotrama più rilevante, il tragico rapporto madre/figlia dietro la parabola sportiva; Margot Robbie dà a Tonya un’energia quasi repellente. I veri geni, però, sono quelli di Eight VFX ed Eisko, responsabili degli stupefacenti effetti digitali che hanno permesso di incollare il viso di Robbie sulle evoluzioni in pista di due pattinatrici professioniste, con trucco davvero invisibile: i tripli axel di Harding, filologicamente ricostruiti in sequenze mozzafiato, restano le emozioni più autentiche del film, e ci dicono probabilmente molto del futuro del cinema.
Ilaria Feole, Film Tv

CRAIG GILLESPIE
Filmografia
:
Mr. Woodcock (2006), Lars e una ragazza tutta sua (2007), Fright Night - Il vampiro della porta accanto (2011), L'ultima tempesta (2016), Tonya (2017)

Martedì 19 febbraio 2019:
ABRACADABRA di Pablo Berger, con Maribel Verdú, Antonio De La Torre, José Mota, José María Pou, Quim Gutiérrez

 

 

 
 
 

Cineforum 2018/2019 | 5 febbraio 2019

Foto di cineforumborgo

 

UN SOGNO CHIAMATO FLORIDA

Titolo originale: The Florida Project
Regia: Sean Baker
Sceneggiatura: Sean Baker, Chris Bergoch
Fotografia: Alexis Zabé
Musiche: Matthew Hearon-Smith
Montaggio: Sean Baker
Scenografia: Stephonik Youth
Costumi: Fernando A. Rodriguez
Interpreti: Willem Dafoe (Bobby), Brooklynn Kimberly Prince (Moonee), Bria Vinaite (Halley), Valeria Cotto (Jancey), Christopher Rivera (Scooty), Caleb Landry Jones (Jack), Karren Karagulian (Narek)
Produzione: Sean Baker, Chris Bergoch, Shih-Ching Tsou, Andrew Duncan, Alex Saks, Kevin Chinoy, Francesca Silvestri per June Pictures, in associazione con CRE Films/Freestyle Pictures Company
Distribuzione: Cinema di Valerio De Paolis
Durata: 111'
Origine: U.S.A., 2017
Data uscita: 22 marzo 2018

La piccola Moonee ha 6 anni e un carattere difficile. Lasciata libera di scorrazzare nel Magic Castel Hotel alla periferia di Disney World, la bambina passa il suo tempo con un gruppo di monelli del posto e i suoi scherzi non sembrano preoccupare troppo la giovane madre Halley che, dovendosi barcamenare in una situazione precaria come gli altri abitanti del motel, è troppo concentrata su come riuscire ad andare avanti, più o meno onestamente. L'unico che cerca di tenere insieme le cose è Bobby, il manager dell’Hotel...
In quel piccolo mondo inquieto di bambini, Bobby è l'unica figura maschile e paterna. In Florida, terra delle arance, paradiso delle vacanze, ogni anno milioni di turisti accorrono per lasciarsi incantare dal Walt Disney World, dagli immensi parchi tematici, dalle illusioni tecnologiche, dalle magie infantili; alberghi a tema anche lussuosi, campi da golf, spettacoli, sole, safari, dinosauri, fantasmi e volendo ci si può anche sposare come fosse una fiaba. Ma non tutto è festa e distrazione e sogno lì ad Orlando: la crisi economica ha segnato le sue periferie, lungo l'autostrada che porta al regno Disney, nel vuoto di campi incolti, oltre una strada che si chiama Sette Nani, sorgono incongrui gli scarti della fantasia mercantile disneyana, la rivendita di gelati a forma di cono gelato, il negozio di souvenir con la facciata che è la testa di un nanetto barbuto, il bar con la cupola che riproduce mezza arancia; e costruzioni di appartamenti mai abitati e già in rovina, e motel impoveriti, a cui i turisti non si fermano che per sbaglio e ne fuggono orrificati, ormai abitati in permanenza, sin che ci sono i soldi, 35 dollari al giorno, da chi non può permettersi una casa e vive alla giornata. Eppure in tempo di vacanza da scuola, anche quello è un paradiso, per Moonee e Scooty e Lancey, bambini scatenati attorno ai sei anni, a caccia di avventure, libertà, azzardi: visto coi loro occhi, quel vecchio motel tinto di lilla e viola con le scale e balconate su cui si affacciano i monolocali, ha la stessa magia del mondo Disney, cui non si sono mai neppure avvicinati. “Un sogno chiamato Florida” è un volto dell'America povera e senza futuro, di una verità e grazia commoventi, allegro e malinconico, per la sapienza del regista Sean Baker e la genialità assoluta dei suoi interpreti, bambini qualsiasi scelti con casting locali: Baker ha avuto la sapienza di non farne degli attori, ma di lasciarli alla loro verità e spontaneità, alle corse, ai discorsi, alle risate, ai dispetti, alle gare di sputo, alle parolacce: alla felicità che l'infanzia sa trovare anche nella povertà, nel cibo trash, nell'amicizia paritaria tra i tre bambini che dividono anche il cono gelato che si sono fatti pagare da qualche grassona. Sean Baker, 47 anni, è un autore ultraindipendente, e i suoi film raccontano sempre di emarginati, come “Tangerine”, storia dell'amicizia tra due transessuali, girato con 3 iPhone: “Un sogno chiamato Florida” è stato a Cannes e a Torino, lungo il suo viaggio nei festival ha ricevuto molti premi ed è certamente tra i più belli dell'anno. Si chiama Magic Castle il vecchio motel viola che malgrado il disordine e i problemi irrisolvibili dei suoi inquilini riesce a conservare dignità e decoro; per merito di Bobby, il responsabile, interpretato da un magnifico Willem Dafoe, l'unica star del film e la sola figura paterna autorevole di quel piccolo mondo inquieto, dove madri e nonne sono sole con i loro bambini, nessun uomo a condividere la loro fatica di vivere. Bobby ama quella vecchia palazzina e la cura perché mantenga la sua dignità e quindi quella dei suoi abitanti: anche lui è solo, è sempre preso dai suoi doveri, ridipinge dove l'intonaco cede, riaggiusta l'impianto elettrico, dà un'occhiata ai bambini lasciati soli e allontana da loro certi vecchi libidinosi, copre le enormi poppe nude di una anziana signora o forse un transessuale, in piscina, coi bambini che la insultano, è inflessibile nel riscuotere gli affitti e se certamente prova pena per queste madri sole e incapaci, sa di doverle lasciare al loro destino. Moonee vive con la giovane mamma che ha perso il lavoro di lap dance perché si rifiutava ai clienti: deve trovare quei maledetti 35 dollari al giorno per non perdere il loro piccolo rifugio, e si arrangia come può vendendo profumi taroccati davanti all'albergo dei golfisti, imbrogliando qualche turista e, ultima possibilità, si mette a ricevere qualche uomo mentre la bambina è chiusa in bagno nella vasca, e immagina, silenziosa. Una giovinezza buttata via, forse un'infanzia che scoprirà il dolore. Una specie di fragile equilibrio si spezza quando la mamma di Scooty, che lavora come cameriera in un fast food, smette di regalare gli avanzi a Moonee e proibisce al figlio di frequentarla perché insieme, per gioco hanno compiuto un atto di pericoloso vandalismo. La vita di Halley va avanti sempre più precaria ma non cambia il suo legame di amore e gioco con la figliolina, le gare di rutti, le corse nei supermercati a comprare stupidaggini fregando il carrello, i balli sotto la pioggia e di notte la festa di compleanno con la candelina su un pezzo di torta dove si vedono lontani i fuochi d'artificio di Disneyland. Moonee è la meravigliosa Brooklynn Prince, anche Halley non è un'attrice: si chiama Bria Vinaite, Baker l'ha scovata su Instagram e l'ha voluta così come è: giovane e impudente, allegra e violenta, con i capelli tinti di verde, tutto il corpo tatuato, un piercing sulle labbra e i pantaloncini di jeans sfrangiati.
Natalia Aspesi, La Repubblica

(……) Baker esplora un paese relegato, letteralmente parlando, alla soglia del Magic Kingdom. Girato nella galassia di motel cresciuti alla periferia di Disney World, nei dintorni di Orlando, e oggi popolati di famiglie rimaste homeless, “The Florida Project” usa le architetture approssimativamente esotiche, i rosa e gialli vivaci, i fast food a forma di arance giganti e la vegetazione tropicale che sembra sbucare dall'asfalto, per evocare un senso di fiabesca avventura infantile non dissimile da quello del film di Todd Haynes, “Wonderstruck”. Ma i bimbi del suo nuovo lavoro (in gran parte non attori, come il resto del cast) ricordano piuttosto i 'Little Rascals' di Hal Roach, monelli impuniti in una serie di corti, realizzati tra gli anni ‘20 e i ‘40, in piena Grande depressione. (…...) Usando con abilità un cast reclutato in gran parte via Instagram, Baker adotta il punto di vista dei bambini per dare una dimensione avventuroso fantastica allo squallore - ma poi squarcia quel sogno con drammatici istanti di pericolo (……) per coglierne la precarietà, il dolore e la drammatica ingiustizia.
Giulia D’Agnolo Vallan, Il Manifesto

SEAN BAKER
Filmografia
:
Prince of Broadway (2008), Tangerine (2015), Un sogno chiamato Florida (2017)

Martedì 12 febbraio 2019:
TONYA
di Craig Gillespie, con Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Paul Walter Hauser, Julianne Nicholson

 

 
 
 
 
 

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