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Post N° 123

Post n°123 pubblicato il 15 Maggio 2006 da Matilda55555

13.25 / 3.410 / 49


Il nome Giovanni viene fatto derivare dall'ebraico Jôhânân, che significa "dono del Signore". Anticamente veniva imposto ad un figlio lungamente atteso e nato quando ormai i genitori avevano perso la speranza di essere rallegrati dalla nascita di un bimbo.




Varianti in altre lingue:

Albanese: Gjon
Arabic: يحيى (Yaḥyā), يوحنا (Yuḥanna)
Bielorusso:
Ян (Jan), Янка (Janka), Іван (Ivan)
Bulgaro: Яни, Янко (Yani, Yanko), femminile Яна, Яница (Yana, Yanitsa), maschile Иван (Ivan), femminile
Ивана (Ivana)
Catalano: Joan, diminutivo Jan, femminile Joana
Ceco: Jan Estone: Jaan,Jaak
Estone: Jaan,Jaak
Francese: Jean, femminile Jeanne, diminutivi femmnili
Jeannette, Jeannine
Greco moderno: Γιαννης (Yannis), Γιαννη (Yanni), Γιαννος (Yannos), diminutivo Γιαννακης (Yannakis), femminile Γιαννα (Yanna), diminutivo femminile
Γιαννουλα (Yannoula)
Inglese: John, diminutivi Johnny, Jack, Jacky, femminili Jan, Jane, Joan, Jean, diminutivi femminili
Janet
Irlandese: Seán, femminile (Jeanne) Sinéad, diminutivo femminile (Jeannette) Siobhán
Islandese: Jóhannes, diminutivi: Jóhann, Jón, Jens, Hannes, Hans, femminili Jóhanna, Jensína, diminutivi femminili
Jóna, Hansína
Lettone:
Janis
Lituano: Jonas
Polacco: Jan, diminutivo Janusz
Portoghese: João, femminile
Joana
Romeno: Iancu, iona, Ion, Ionel, Ionuţ, Nelu, Ionică femminili
Ioana, Oana
Russo: Иван (Ivan), diminutivo Ваня (Vanya), femminile
Ивана (Ivana)
Serbo: Jovan, femminile Jovana
Slovacco: Jan, Ivan, femminile:
Ivana
Sloveno: Janez
Spagnolo: Juan, femminile Juana, diminutivo femminile Juanita
Tedesco: Johannes, Johann, Joann, Jan, diminutivo Hans, femminili
Johanna, Joanna
Turco: Yahya
Ucraino: Іван (Ivan), diminutivo Івась (Ivas'), Івасик, (Ivasyk), femminile
Іванна (Ivanna)
Ungherese: Janos, Jani, Jan, Jancsi, Janika 


Giovanni Pico della Mirandola


nacque a Mirandola, ultimo figlio di Gian Francesco I° e di Giulia Boiardo. Studiò a Bologna (1477-1478), a Ferrara (1479) e a Padova (1480-1482), dove venne in contatto con l'averroismo.
Filosofo ed umanista, fu uno studioso di temi conoscitivi e viene ricordato soprattutto per la memoria prodigiosa di cui era dotato. Riguardo ad essa alcuno suoi contemporanei asseriscono conoscesse a memoria tutta la Divina Commedia, e addirittura che riuscisse a recitarla anche al contrario. Il suo pensiero cardine sosteneva la possibilità di unire tutte le dottrine filosofiche e teologiche, ponendo l'uomo al centro dell'universo, secondo la visione rinascimentale
.
Nel 1484 si recò a Firenze dove divenne amico di Lorenzo il Magnifico, Poliziano e di Marsilio Ficino, frequentò anche l'Accademia platonica
.
Nel 1486 pubblicò a Roma le Conclusiones philosophicae, cabalistica et theologicae.

Giovanni dalle Bande Nere


figlio del fiorentino Giovanni de' Medici (detto il Popolano) e di Caterina Sforza, la signora guerriera di Forlì e Imola, una delle donne più famose del Rinascimento, che si era strenuamente difesa da Cesare Borgia nella sua rocca forlivese, venne chiamato Ludovico in onore dello zio, duca di Milano, ma alla morte del padre, avvenuta quando aveva pochi mesi d'età, la madre gli cambiò il nome in Giovanni.
Fu ritenuto da Niccolò Machiavelli come la figura capace di unificare l'Italia.
Giovanni passò la propria infanzia in un convento, poiché la madre era prigioniera di Cesare Borgia.
Nel 1509 Caterina Sforza morì e la tutela di Giovanni passò al canonico Francesco Fortunati e al ricchissimo fiorentino Jacopo Salviati, marito di Lucrezia de' Medici, figlia di Lorenzo il Magnifico. Jacopo Salviati dovette spesso rimediare con la propria autorità e fama alle numerose marachelle del ragazzo, ma nel 1511 non potè evitargli il bando da Firenze, per l'uccisione di un suo coetaneo in una lite tra bande di ragazzi, bando ritirato poi l'anno successivo.
Quando il Salviati fu nominato ambasciatore a Roma nel 1513 Giovanni lo seguì, e qui fu iscritto nelle milizie pontificie grazie all'intercessione del Salviati presso Papa Leone X, fratello di sua moglie Maria Salviati.
Il suo battesimo del fuoco nel suo nuovo ruolo di soldato papale avvenne il 5 marzo 1516 nella guerra contro Urbino al seguito di Lorenzo de' Medici. La guerra durò solo 22 giorni, dopo i quali Francesco Maria della Rovere si arrese; nonostante la propria indole irrequieta Giovanni riuscì a insegnare agli uomini della sua compagnia, militari indisciplinati, rozzi e individualisti, disciplina e obbedienza. Ebbe anche modo di osservare, con acume caratteristico, il declino della cavalleria pesante.
Giovanni quindi al momento di crearsi una propria compagnia scelse perciò di impiegare cavalli piccoli e leggeri, preferibilmente turchi o berberi, adatti a compiti tattici quali schermaglie d'avanguardia o imboscate; individuò nella mobilità l'arma più utile da usare. Un accento particolare fu messo sullo spirito di corpo, allora assai carente. I nuovi venuti ricevevano un addestramento particolare, spesso impartito da Giovanni personalmente; spesso i traditori erano condannati a morte.
Sposò Maria Salviati, figlia di Jacopo, che gli diede un figlio, Cosimo, destinato un giorno a diventare Granduca di Firenze.
Nel 1520 sconfisse diversi signorotti ribelli marchigiani, tra i quali Ludovico Uffreducci che restò ucciso in battaglia presso Falerone. Nel 1521 Leone X si allea con l'imperatore Carlo V contro Francesco I, per consentire agli Sforza di tornare padroni di Milano e per occupare le città perdute di Parma e Piacenza; Giovanni è assoldato e posto sotto il comando di Prospero Colonna. Partecipa in novembre alla battaglia di Vaprio d'Adda: oltrepassa il fiume controllato dai francesi e li mette in fuga, aprendo la strada per Pavia, Milano, Parma e Piacenza.
Il 1 dicembre muore Leone X, e Giovanni per manifestare il lutto fa annerire le insegne, che fino ad allora erano a righe bianche e viola, diventando così famoso presso i posteri come Giovanni dalle Bande Nere.
Nell'agosto 1523 Giovanni viene ingaggiato dagli imperiali, e nel gennaio del 1524 attacca di notte il campo del francese Baiardo, mentre questi dormiva e lo mette in fuga, facendo prigionieri oltre trecento soldati. Successivamente affronta gli Svizzeri, la più temuta fanteria dell'epoca, che intanto sono calati dalla Valtellina in aiuto dei Francesi; Giovanni li sconfigge a Caprino Bergamasco, costringendo l'armata francese a lasciare l'Italia.
Intanto a Roma diviene papa Clemente VII, della famiglia Medici, cugino della madre di Giovanni, Caterina; il nuovo pontefice paga tutti i debiti di Giovanni, chiedendogli però in cambio di passare con i Francesi. Questo accade nel 1524 quando Francesco I entra nuovamente in Italia per una campagna militare e ritorna in Lombardia schierandosi sotto Pavia, dove subirà la celebre cocente sconfitta e la prigionia.
La compagnia di Giovanni non partecipa alla battaglia: in una scaramuccia il 18 febbraio 1525 Giovanni è ferito ad una coscia da un colpo di archibugio e viene trasportato a Piacenza per essere medicato; in parte le Bande Nere lo seguono, in parte si sciolgono, la ferita è molto grave e Giovanni deve recarsi a Venezia.
Qui potrebbe mettersi al servizio della Serenissima, ma è tipo troppo ribelle e declina con la frase: "Nè a me si conviene per esser io troppo giovane, nè ad essa perché troppo attempata".
Nel 1526 re Francesco I torna libero e in maggio, nasce la lega di Cognac contro l'Impero; papa Clemente si schiera con il re Francesco e a Giovanni è affidato il comando delle truppe pontificie. Il 6 luglio il capitano generale Francesco della Rovere, di fronte alle soverchianti forze imperiali, abbandona Milano, ma Giovanni rifiuta l'ordine di fare la stessa cosa e attacca la retroguardia del nemico alla confluenza del Mincio col Po, sconfiggendo i tedeschi.
Però il 25 novembre Giovanni viene colpito allo stinco da un colpo di falconetto, che gli procura una gravissima ferita. Viene subito trasportato a San Niccolò Po ma non si trova un medico perciò è trasportato a Mantova, dove gli viene amputata la gamba. Per effettuare l'operazione il medico chiede che 10 uomini tengano fermo Giovanni.
Pietro Aretino testimone oculare, descrive le sue ultime ore in una lettera a Francesco Albizi: "«Neanco venti» disse sorridendo Giovanni «mi terrebbero», presa la candela in mano, nel far lume a se medesimo, io me ne fuggi, e serratemi l'orecchie sentii due voci sole, e poi chiamarmi, e giunto a lui mi dice: «Io sono guarito», e voltandosi per tutto ne faceva una gran festa".


Giovanni Boccaccio

naque nel 1313 (secondo fonti considerate non attendibili a Firenze, molto più probabilmente a Certaldo) ma fu sicuramente allevato a Firenze, figlio illegittimo del mercante Boccaccio (Boccaccino) di Chellino, socio della compagnia dei Bardi e console della corporazione dei cambiatori. La madre, di cui non abbiamo notizie, nel Filocolo viene detta essere una francese di nome Giovanna. Quando, nel 1320, il mercante sposò Margherita dei Mardoli, decise di allontanare il figlio naturale da Firenze, affidandolo a Giovanni Mazzuoli da Strada, perché lo avviasse alla mercatura. Mazzuoli condusse il ragazzo a Napoli, dove la compagnia trattava affari, infatti i Bardi finanziavano gli Angioini e la loro banca controllava i traffici del regno (la dinastia angioina fu fondata da Carlo I nel 1246 e terminò nel 1442 quando subentrò la dinastia Aragonese).
Quando il giovane manifestò la sua avversione per gli affari, il padre lo indirizzò, inutilmente, allo studio del diritto canonico. Giovanni a Napoli si dedicò allo studio dei classici e della poesia, mentre frequentava l'ambiente colto e raffinato della gaia e sfarzosa corte di Roberto d'Angiò, dove il padre era amico personale del sovrano e aveva numerose conoscenze. Fra il 1330 ed il 1331, all'università di Napoli fu chiamato ad insegnare diritto Cino da Pistoia (1270 - 1337) che avviò il giovane Boccaccio alla poesia. Napoli era il centro intellettuale più vivace della penisola, con contatti culturali con l'area, bizantina, con la Francia, con Avignone, dove si stava affermando Petrarca.
Secondo la leggenda, originata dalle stesse opere di Boccaccio, nel 1336 conobbe Maria d'Aquino, figlia naturale del re e moglie di un gentiluomo di corte, se ne innamorò, riamato, e la rappresentò nella sua opera letteraria con il nome di Fiammetta (Elegia di madonna Fiammetta) e, per invito di Maria, compose la sua prima opera, il Filocolo. Non vi sono tuttavia notizie storiche di questa Maria d'Aquino, e vi sono molti dubbi che una figlia di re, per quanto illegittima, possa non aver lasciato alcuna traccia. Considerando anche la natura prettamente letteraria dei cenni di Boccaccio ad essa, si pensa attualmente che Fiammetta sia stata una figura letteraria, trasposizione idealizzata dei vari amori dell'autore. Nel 1340 dovette rientrare a Firenze a causa di un grave dissesto finanziario del padre. Fra il 1346 ed il 1348 visse a Ravenna e a Forlì, dove fu ospite di Francesco II Ordelaffi e frequentò i poeti Nereo Morandi e Francesco Miletto de Rossi, detto Checco, con cui mantenne poi amichevole corrispondenza.
In seguito, tornò a Firenze dove scampò alla peste e dove si stabilì definitivamente nel 1349, alla morte del padre, per occuparsi di quanto restava dei beni di famiglia. A Firenze, era assai apprezzato per la sua cultura e ricevette alcuni incarichi come ambasciatore in Tirolo e a Avignone.'Il Decameron, composto dal 1349 al 1351, è l'approdo di questo processo di maturazione, l'espressione di una seconda fase della produzione del Boccaccio, che ai vagheggiamenti sentimentali e romanzeschi sostituisce la disincantata osservazione della realtà. Il Decameron contribuisce a consolidare e ad ampliare la stima del Boccaccio presso i suoi concittadini. Ne derivano incombienze di vario genere (tuttavia non eliminarono le sue sostanziali ristrettezze economiche), incarichi pubblici, ambascierie (in Romagna, a Napoli, ad Avignone), che gli vengono affidati dal comune di Firenze.
Nel 1351 gli fu affidato l'incarico di recarsi a Padova, dove si trovava il Petrarca, da lui conosciuto l'anno precedente, per invitarlo a Firenze, dove gli sarebbe stato affidato un insegnamento. Petrarca non accettò la proposta, però tra i due scrittori nacque una sincera amicizia che durò fino al 1374, anno della morte del Petrarca. La tranquilla vita di studioso, condotta dal Boccaccio a Firenze, fu bruscamente interrotta dalla visita del monaco senese Gioacchino Ciani che lo esortò ad abbandonare la poesia e gli argomenti profani. Si narra che Boccaccio fu atterrito dal pensiero della morte imminente a tal punto che decise di bruciare le sue opere, venendo ne fortunatamente dissuaso dall'amico Petrarca.
Nel 1362 fu invitato a Napoli da amici fiorentini ed egli accettò, sperando di trovare un'occupazione che gli permettesse la vita agiata e serena di un tempo. Purtroppo la Napoli in decadenza di Giovanna I era ben diversa dalla città prospera, colta e serena di Roberto d'Angiò e Boccaccio, deluso, ripartì ben presto. Dopo un breve soggiorno a Venezia per rivedere il Petrarca, intorno al 1370 si ritirò nella sua casa di Certaldo, presso Firenze, per vivere in modo appartato e potersi dedicare alla meditazione religiosa e allo studio (attività che furono interrotte solo qualche breve viaggio a Napoli tra il 1370 e il 1371). Nell'ultimo periodo di vita ricevette l'incarico dal comune di Firenze di dare vita ad una lettura pubblica, con relativo commento, della Divina Commedia di Dante ma nel 1374, a causa del sopraggiungere della malattia che lo avrebbe condotto alla morte il 21 dicembre 1375, dovette abbandonare l'incarico.
Boccaccio, pur non mancando la stima dei concittadini, visse fra amarezze, delusioni, angustie economiche, ben diversamente dal Petrarca che ebbe riconoscimenti, onori ed una vita agiata. La sua cultura ed i suoi interessi spirituali furono meno vasti di quelli del Petrarca, ma la sua vocazione letteraria e poetica fu grandissima e fu narratore sommo.

Giovanni Gentile

nasce nel 1875 da Giovanni, farmacista, e Teresa Curti, figlia di un notaio. Vive la sua infanzia a Campobello di Mazara e frequenta il liceo Ximenes a Trapani. Nel 1895 vince il concorso per quattro posti di interno della Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia. Ha come maestri, tra gli altri, Alessandro D'Ancona (prof. di letteratura, legato al metodo storico e al positivismo e di idee liberali), Amedeo Crivellucci (prof. di storia) e Donato Jaia (prof. di filosofia, hegeliano seguace di Spaventa), che influirono molto sul suo pensiero filosofico da adulto.
Dopo la laurea nel 1897 ed un corso di perfezionamento a Firenze, Gentile ottiene una cattedra in Filosofia presso il liceo Mario Pagano a Campobasso. Nel 1900, si sposta al liceo Vittorio Emanuele di Napoli.
Nel 1901 sposa Erminia Nudi, conosciuta a Campobasso. Dal matrimonio nasceranno Teresa (1902), Federico (1904), i gemelli Gaetano e Giovanni (1906), Benedetto (1908) e Fortunato (1910).
Nel 1902 ottiene la libera docenza in filosofia teoretica e l'anno successivo quella in pedagogia. Ottiene poi la cattedra universitaria, prima a Palermo (1906-1914), dove frequenta il circolo Giuseppe Amato Pojero, poi a Pisa (fino al 1919) ed infine a Roma.
Durante gli studi a Pisa incontra Benedetto Croce con cui intratterrà un carteggio continuo dal 1896 al 1923: argomenti trattati dapprima la storia e la letteratura, poi la filosofia. Uniti dall'idealismo (su cui avevano comunque idee diverse), combattono insieme la loro battaglia intellettuale contro il positivismo e le degenerazioni dell'università italiana. Fondano nel 1903 la rivista "La critica", per contribuire al rinnovamento della cultura italiana: Croce si occupa di letteratura e di storia, Gentile, invece, si dedica alla storia della filosofia. In quegli anni Gentile non ha ancora sviluppato il proprio sistema filosofico. L'attualismo avrà configurazione sistematica solo alle soglie della prima guerra mondiale. Nel 1920 fonda il Giornale critico della filosofia italiana.
All'inizio della Prima Guerra Mondiale, tra i dubbi della non belligeranza, Gentile si schiera a favore della guerra come conclusione del Risorgimento italiano. Fino al 1922, Gentile non mostra alcun interesse nei confronti del fascismo. All'insediamento del regime fascista, viene nominato ministro della pubblica istruzione (1922-1924, per dimissioni volontarie). Come ministro attua nel 1923 una significativa riforma scolastica. L'istruzione era ferma sulla riforma delle legge Casati del 1859. Dopo la crisi Matteotti, date le dimissioni da ministro, Gentile viene chiamato a presiedere la Commissione dei Quindici (poi divenuta dei Diciotto), per la riforma della Costituzione Italiana.In realtà la Commissione non produrrà risultati significativi. Sarà Rocco l'architetto dell'ordinamento giuridico fascista.
Nel 1923 Gentile si iscrive al partito fascista con l'intento di fornire un programma ideologico e culturale. Nel 1925 pubblica il Manifesto degli intellettuali fascisti, in cui vede il fascismo come un possibile motore della rigenerazione morale e religiosa degli italiani e tenta di collegarlo direttamente al Risorgimento. Questo manifesto sancisce l'allontanamento definitivo da Benedetto Croce, che gli risponde con un contromanifesto.
Per le numerose cariche culturali e politiche, esercita durante tutto il ventennio fascista un forte influsso sulla cultura italiana e specialmente sul suo aspetto amministrativo e scolastico. È anche direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana dell'Istituto Giovanni Treccani dal 1925 al 1938 e vicepresidente dell'istituto dal 1933 al 1938. Nel 1925 promuove la nascita dell'Istituto Nazionale Fascista di Cultura, di cui è presidente fino al 1937. Nel 1928 diventa regio commissario della Scuola Normale Superiore di Pisa, nel 1932 direttore. Nel 1930 diventa vicepresidente dell'università Bocconi. Nel 1932 diventa Socio Nazionale della Reale Accademia Nazionale dei Lincei. Lo stesso anno inaugura l'Istituto Nazionale di Studi Germanici, di cui diviene presidente nel 1934. Nel 1933 inaugura e diviene presidente dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente. Nel 1934 inaugura a Genova l'Istituto mazziniano. Nel 1937 diventa regio commissario e nel 1938 presidente del Centro Nazionale di Studi Manzoniani e nel 1941 è presidente della Domus Galileana a Pisa.
Non mancano comunque i dissensi col regime. In particolare il suo pensiero subisce un duro colpo nel 1929, alla firma dei Patti Lateranensi tra Chiesa Cattolica e Stato Italiano: sebbene Gentile riconosca il cattolicesimo come forma storica della spiritualità italiana, non può accettare uno Stato non laico. Questo evento segna una svolta nel suo impegno politico militante. Inoltre Gentile non appoggerà mai le leggi razziali del 1938, come si evince da un carteggio con Benvenuto Donati durato per tutto il periodo tra il 1920 ed il 1943. Nel 1934 il Sant'Uffizio mette all'indice le opere di Gentile e di Croce. Nel 1936 comincia una lunga polemica contro il ministro dell'Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi.
Gli ultimi interventi politici sono rappresentati da due conferenze nel 1943. Nella prima, tenuta il 9 febbraio a Firenze, dal titolo La mia religione, dichiara di essere cristiano e cattolico, sebbene creda nello Stato laico. Nella seconda, tenuta il 24 giugno al Campidoglio a Roma, dal titolo Discorso agli italiani, esorta all'unità nazionale, in un momento difficile della guerra che porterà alla fondazione della RSI. Dopo questi interventi si ritira a Troghi (FI), dove scrive la sua ultima opera, uscita postuma, Genesi e struttura della società.
Nell'autunno del 1943, su invito di Benito Mussolini, Gentile aderisce alla Repubblica di Salò, auspicando il ripristino dell'unità nazionale, diventando presidente dell'Accademia d'Italia, con l'obbiettivo di riformare l'Accademia dei Lincei.
Viene ucciso il 15 aprile 1944 sulla soglia di casa, a Firenze, da un gruppo partigiano fiorentino aderente ai GAP, come uno dei principali responsabili del regime fascista.

 
 
 
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