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Jones, i corpi nudi del paesaggio umano

Post n°617 pubblicato il 06 Ottobre 2012 da arieleO
 

La coerenza interna. È questa la chiave di volta di «Body against Body», il trittico («Spent Days Out Yonder», «Continuous Replay», «Ravel: Landscape or Portrait?») che Bill T. Jones e la Arnie Zane Dance Company hanno presentato al Teatrino di Corte di Palazzo Reale (stasera l'ultima replica) nell'ambito dell'OttobreDanza del San Carlo. E nel merito, partiamo proprio dal titolo.
   La preposizione «against (contro)» può indicare sia opposizione che movimento verso qualcosa o qualcuno, fino al contatto. E viene subito in mente che, falliti i suoi approcci al balletto classico e alla tecnica di Martha Graham, Jones approdò per l'appunto alla «contact improvisation», ciò che, davvero non a caso, fu l'occasione dell'incontro decisivo col fotografo Arnie Zane. E la fotografia non è, nello stesso tempo, proprio un'opposizione e un movimento, una separazione e una tensione rispetto alla realtà? Tutto si tiene, direbbero i francesi.
   D'altra parte, il titolo del terzo dei pezzi presentati dal grande coreografo statunitense rimanda direttamente al fatto che, per l'appunto, la «body art» ci ha proposto il corpo come paesaggio e come ritratto delle pulsioni profonde dell'individuo. E infine, si allinea con un simile scarto anche la musica utilizzata nella circostanza: l'«Andante» del Quartetto per archi n. 23 in fa maggiore K. 590 di Mozart per accompagnare «Spent Days Out Yonder», una partitura registrata di John Oswald come colonna sonora di «Continuous Replay» e il Quartetto per archi in fa maggiore di Ravel per «commentare», giusto, «Ravel: Landscape or Portrait?».
   Ebbene, la musica di Mozart è fatta di opposti: coesistono in lui, per citare un'acuta osservazione di Erich Schenk, i «tratti demoniaci» del primo Romanticismo e «la serenità apollinea della sua professione di fede artistica». E se Ravel, dal canto suo, fu suggestionato, insieme, dalle arditezze di Satie e dal fascino di un Oriente da favola, Oswald ci rovescia addosso una valanga di dissonanze, fra le quali a malapena si distinguono, poniamo, da un lato immemori frastuoni bandistici e dall'altro i gelidi «countdown» di partenze verso chissà quali, lontanissime e misteriose galassie. Ed ecco, in breve, come il talento di Jones traduce tutto questo in danza.
   Alla musica di Mozart, per esempio, s'accoppia una sequenza che innesta sulla straordinaria fluidità dei movimenti il brivido d'improvvise torsioni dei corpi e, ricorrente, una sorta di perdita d'equilibrio; e al surplus delle informazioni, da vera e propria tempesta mediatica, con cui c'investe Oswald si contrappone la semplice ed evidente verità dei corpi nudi, fogli bianchi sui quali disegnare, appunto, un nuovo paesaggio umano. Col che, fra l'altro, si conferma l'attenzione verso il sociale che ha sempre animato la poetica e la pratica di Jones: quell'attenzione che nel terzo pezzo si traduce nel continuo disaggregarsi del gruppo dei danzatori e nel loro non meno puntuale riavvicinarsi e toccarsi, attraverso una fittissima trama di gesti teneri e fraterni.
   Ci coglie l'impressione di un fiore malato che si disfa sotto i colpi del vento e, tuttavia, sempre rinasce sotto le carezze del sole, perfettamente uguale e perfettamente diverso rispetto a com'era: giacché di quest'ossimoro è fatta la vita. E adesso, certo, dovremmo parlare della suprema bravura dei ballerini di Jones e della prova eccellente del Quartetto d'archi del Teatro di San Carlo. E subito dopo dovremmo osservare che questo trittico parla di una leggerezza che diventa forza e di una forza che diventa leggerezza.
   Mi accorgo, però, che detta così diventa un gioco di parole. E - come scrisse Hofmannsthal al guardiamarina Edgar Karg - «le parole non sono di questo mondo». Di questo mondo sono, appunto, i corpi.

                                                        Enrico Fiore

(«Il Mattino», 6 ottobre 2012) 

 
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