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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Brook e il tempo di Shakespeare

Post n°211 pubblicato il 14 Novembre 2009 da arieleO
 

Essenzialmente, le infinite ipotesi scaturite dal secolare dibattito intorno ai «Sonetti», il più raffinato ma anche il più enigmatico fra i testi di Shakespeare, possono riassumersi nelle posizioni, estreme ed opposte, assunte da Auden e da Jan Kott. Il primo li considera alla stregua di «una nuda confessione autobiografica», sostenendo che il Bardo «li scrisse come uno scrive un diario, solo per se stesso, senza pensare ad alcun pubblico». Per Kott, invece, quel canzoniere costituisce nel suo complesso un vero e proprio «dramma», completo di «azione ed eroi».
   Ebbene, Peter Brook - del quale il Théâtre des Bouffes du Nord presenta al San Ferdinando lo spettacolo «Love is my sin (L'amore è il mio peccato)», basato su 31 dei 154 «Sonetti» - si schiera (per quanto sembri paradossale, essendo lui il più grande regista teatrale vivente e, in particolare, uno dei più grandi metteur en scène di Shakespeare, avendone diretto allestimenti con interpreti del calibro di John Gielgud, Laurence Olivier e Paul Scofield) al fianco di Auden. Ma il paradosso è solo apparente, così come fuori luogo sarebbe la sorpresa.
   Brook aveva già affrontato, con «Ta main dans la mienne (La tua mano nella mia)», un rapporto d'amore quale si configura in un documento scritto: ma, allora, si trattava delle lettere che si scambiarono Cechov e Olga Knipper, ossia due «contraenti» certi e perfettamente identificabili. Qui, al contrario, abbiamo da un lato uno (Shakespeare) che, per dirla con Keats, possiede in sommo grado la «negative capability», la capacità di essere tutti e nessuno senza mai svelarsi, e dall'altro due (il «fair friend» e la «dark lady») che di tanta inafferabilità sono lo specchio fedelissimo.
   Ecco, dunque, che Brook li cancella, i due, in quanto personaggi. Gli unici momenti in cui fra gl'interpreti (i magnifici Natasha Parry e Michael Pennington) si stabilisce qualche fuggevole contatto fisico sono relegati nelle due sezioni centrali («La separazione» e «La gelosia») del corpus dei 31 «Sonetti» prescelti, schiacciate fra quella iniziale («Il tempo famelico») e quella conclusiva («Il tempo sconfitto»). Siamo di fronte a un'entità astratta che mette fuori gioco la narratività, esatto corrispettivo dell'oscillare di Louis Couperin - le cui musiche sono eseguite alla fisarmonica e al piano elettrico dal bravo Franck Krawczyk - fra il canto gregoriano e i balletti di corte.
   In breve, s'invera così la constatazione accolta ancora in una lettera, quella che il 18 giugno 1895 Hofmannsthal indirizzò al guardiamarina E.K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni». Ma proprio per questo si dimostra soltanto apparente il paradosso di cui sopra: giusto quel che mi disse una volta a Taormina («Bisogna sempre mettere una distanza fra sé e ciò che si fa»), Brook fa teatro, e grandissimo teatro, proprio negandolo.
   Infatti, coincidono perfettamente il meccanismo del tempo, che muore negli attimi stessi in cui vive, e quello del teatro, che finge la vita nel preciso istante in cui vive. Sicché, non a caso, la chiave di questo spettacolo sta in un sonetto, il quarto, che qui non compare: «Se non usata, la tua bellezza sarà sepolta con te, / mentre, se usata, vivrà per eseguire il tuo testamento».

                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 14 novembre 2009)

 
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