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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Messaggi del 24/06/2012

Un adulterio contro l'apartheid

Post n°600 pubblicato il 24 Giugno 2012 da arieleO
 

Circa «The suit», lo spettacolo di Peter Brook presentato al Mercadante nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia, c'è da chiedersi che cosa abbia in più e che cosa abbia in meno rispetto alla sua versione precedente (e vista più volte, dieci anni fa anche a Città della Scienza) intitolata «Le costume». E rispondo subito e in breve: ha molta più musica, eseguita dal vivo, e molta meno capacità di emozionare.
   La storia, ripresa stavolta dal testo originale inglese del nero sudafricano Can Themba, è quella di Matilda, che, sorpresa dal marito Philémon a letto con un altro, viene costretta a convivere, fino a morirne, col vestito dell'amante. E non a caso questa storia nacque, nella versione orale, in uno degli «shabeen», i locali clandestini della periferia di Johannesburg in cui, ai tempi dell'apartheid, si riunivano a sognare la libertà scrittori, ladri, puttane e musicisti. Si tratta, dunque, di un racconto tanto comico e surreale quanto metaforico e allusivo.
   Era stata soprattutto la disperazione che aveva spinto al «tradimento» Matilda. E infatti, la sequenza più alta della versione precedente dello spettacolo la vedeva, Matilda, mentre s'abbandonava, soltanto fingendo di cantare, al ritmo dolcissimo di una béguine che la trasportava lontano: lontano dalla segregazione e dalla paura.
   Ma quella sequenza ora non c'è più. E invece ci sono - nella cornice di una rappresentazione che punta in buona sostanza sull'intrattenimento - le incursioni in platea degli attori, le strizzatine d'occhio in italiano, l'happening con alcuni spettatori (fra i quali, alla «prima», anche l'assessore Miraglia) cooptati sul palcoscenico a partecipare alla festa in casa di Philémon e Matilda. Sicché risulta un po' appiccicata la «Strange fruit» («un corpo nero dondola nella brezza del Sud») che fu dell'immensa Billie Holiday.
   Non più che corretti mi sembrano, infine, gl'interpreti Jared McNeill (il narratore), Nonhlanhla Kheswa (Matilda), William Nadylam (Philémon) e Rikki Henry (l'amante). Quelli della prima edizione dello spettacolo, vista nel 2000 al Premio Europa per il Teatro, erano davvero un'altra cosa, a cominciare dall'indimenticabile Princess Erika nel ruolo della protagonista.
   Resta, certo, l'incomparabile maestria di Brook nel creare intorno agli oggetti un alone praticamente infinito di rimandi e sensazioni. Ma, come dire?, l'impressione è di trovarsi di fronte a una pratica d'archivio.

                                         Enrico Fiore

(«Il Mattino», 24 giugno 2012)

 
 
 

Alice nel paese del porno

Post n°601 pubblicato il 24 Giugno 2012 da arieleO
 

Il sipario di plastica trasparente, dietro cui si muovono personaggi dei quali non sentiamo le parole. Come si sa, costituisce un autentico leitmotiv negli spettacoli del regista scozzese Matthew Lenton. Ma dipende dall'uso che si fa di quel sipario se l'insistervi diventa un'affermazione di poetica o traduce soltanto un'epifania di manierismo.
   In «Interiors» - lo splendido spettacolo che Lenton presentò al Sannazaro nell'ambito della seconda edizione del Napoli Teatro Festival Italia - il sipario in questione richiamava il concetto della Soglia, il luogo/non luogo centrale del nostro essere nel mondo; e, in particolare, si riferiva al passo decisivo de «I turbamenti del giovane Törless» di Musil: «[...] tra la vita che si vive e la vita che si sente, che s'intuisce, che si vede di lontano, è una frontiera invisibile; la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo».
   In «Wonderland» - lo spettacolo che Lenton presenta, sempre al Sannazaro, nell'ambito della quinta edizione del Festival - il sipario in questione si limita a richiamare lo scarto fra la realtà fisica e quella virtuale. Infatti, qui la storia dell'Alice di Carroll s'intreccia con le vicissitudini di una ragazza europea, Felicity, che finisce a lavorare nell'industria del porno statunitense. Ma questo significa l'ovvio, mentre sarebbe stato assai più interessante lavorare su quanto in proposito sta a monte.
   Già lo scrissi in sede di commento alla dimostrazione pubblica finale che, in merito a «Wonderland», il regista scozzese presentò nel 2010, ancora al Sannazaro, nell'ambito del corso da lui tenuto per la Nouvelle École des Maîtres. Anche nel caso di Carroll ci troviamo di fronte a una Soglia, giusto il suo secondo libro sulle avventure di Alice, «Attraverso lo specchio». Senonché, nel titolo originale l'autore chiama lo specchio non con il termine comune «mirror», bensì con la locuzione «looking-glass», letteralmente «vetro per guardare». Insomma, era proprio Carroll il primo voyeur. E il suo personale Specchio furono la scrittura e, per l'appunto, i libri su Alice.
   Qui, invece, Lenton si riduce a svolgere un ordinario compitino farcito di qualche nudo, qualche accenno alla masturbazione e qualche fallo di gomma. E non c'è nemmeno l'ombra dei momenti estremi (?) da lui annunciati: i gemiti di piacere relativi a un amplesso che non si sarebbe visto e il video hard relativo a un amplesso che, al contrario, si sarebbe visto in tutti i particolari. La cosa più estrema (o, in ossequio alla varietà delle opinioni e dei gusti, più repellente) è il ricorso al «pissing» di un attore nei confronti di un'attrice.
   Completano il quadro le reiterate sessioni di live cam erotiche, con tanto di donne che spalancano oscene la bocca e roteano lingue chilometriche. E non soccorre neanche un minimo soffio d'ironia, poiché Lenton sembra, in tutta evidenza, assolutamente convinto di aver messo in scena un travolgente sfracello rivoluzionario e catartico. Direi, però, che ad essere travolti sono solo gli attori, a cominciare dalla Jenny Hulse che veste (e più spesso sveste) i panni di Alice/Felicity.

                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 24 giugno 2012)

 
 
 
 
 

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