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PMI e decreto anti-crisi...

Post n°42 pubblicato il 17 Dicembre 2008 da amministratore_blog

È la nuova parola d'ordine. Tutti hanno scoperto quanto sia determinante il supporto alla cosiddetta economia reale che, nell'ambito italiano, vuol dire piccola e/o media impresa.
S'immaginano ricette, ci si scambia il consueto j'accuse, ci si attribuisce la primogenitura dell'attenzione, si chiacchiera molto ..... spesso senza avere la minima idea delle reali situazioni sulle quali si vuole intervenire. È opportuno, allora, cercar di fare un po' di chiarezza, allo scopo di comprendere quali siano le urgenze da affrontare e quali i motivi che spingono a considerare inadeguata l'azione di governo.
Non si elemosinano trattamenti di favore, si vuol bensì dare evidenza a normative e comportamenti che minano le basi della competitività, creando condizioni di svantaggio rispetto ad altri paesi, forse con l'unico risultato di perpetuare il controllo delle risorse da parte della casta politica, che se ne serve per garantirsi il potere.
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In un contesto di mercato sempre più difficile, i principali problemi che le piccole e medie imprese si trovano ad affrontare - tra loro interconnessi - sono relativi alla solidità patrimoniale ed alla carenza di liquidità: questi sono dunque gli aspetti sui quali occorre concentrarsi, se l'obiettivo è quello – da più parti dichiarato – di fornire sostegno al nostro sistema produttivo, caratterizzato dalla modesta dimensione aziendale.
Alcune proposte in tal senso sono state da tempo avanzate dalla Piccola Industria confindustriale ma, sebbene successivamente condivise ed appoggiate anche dai vertici associativi, non pare che – almeno per il momento – abbiano ispirato le ipotesi di lavoro governative che, anzi, sembra le abbiano utilizzate a scopo di copertura delle pudenda, vantandone la realizzazione ma, di fatto, snaturandole e rendendole così inefficaci o, in alcuni casi, persino dannose. Affrontando la prima questione, è corretto osservare che le PMI italiane sono sottocapitalizzate, sebbene negli ultimi tempi la situazione sia migliorata, in virtù della spinta garantita dall'entrata a regime del sistema di rating denominato Basilea 2, che ha reso conveniente riconsiderare la struttura dei bilanci per presentare situazioni patrimoniali credibili ed ottenere condizioni di credito adeguate.
I piccoli imprenditori, dunque, hanno ribaltato la passata tendenza a sottrarre risorse alle aziende, tendenza incentivata dalla normativa fiscale, ed hanno chiesto ai governi (attuale e precedente) un provvedimento - in linea con tale impostazione - che non penalizzi la rivalutazione degli immobili strumentali (quelli utilizzati esclusivamente per l'esercizio dell'attività) dal valore iscritto a bilancio – spesso quello storico - ad un livello congruo con i prezzi di mercato. In tal modo le imprese acquisirebbero una maggior solidità, facilitando l'ottenimento di condizioni creditizie più favorevoli, dal momento che il sistema bancario vedrebbe aumentate le garanzie. Una misura di questo tipo, però, ha possibilità di successo solo se il costo dell'operazione è nullo (coerentemente con il non costituire una distribuzione di reddito) o molto basso: si è ritenuta accettabile un'aliquota del 2%.
Inoltre, specie in un contesto di generale incertezza e difficoltà, logica vorrebbe che i proventi di tale operazione fossero rimessi in circolo nel sistema produttivo: l'intervento prospettato dai rappresentanti della PMI si sostanzierebbe in una detassazione degli utili mantenuti in azienda – a titolo di investimenti o di riserva – per un importo di pari entità, tenendo conto del fatto che anche tali risorse non costituiscono distribuzione di reddito. Si potrebbe trattare, in sostanza, di una partita di giro, cioè di un'operazione complessivamente a costo zero per lo Stato, che otterrebbe due importanti risultati, sia – come detto – in termini di patrimonializzazione e quindi di rapporti con il sistema creditizio, sia dal punto di vista della liquidità, mantenendo risorse in azienda, preziose in un momento di drammatico calo degli ordinativi e – attenzione – di grande difficoltà ad incassare i corrispettivi del venduto.
Ciò è tanto più vero in situazioni che vedono numerose piccole aziende impossibilitate a stabilire i budgets richiesti dalle banche per il 2009, dovendo fare i conti – sono le parole di una collega lombarda – con il blocco improvviso degli ordini, che dovrebbe costringere a prevedere un fatturato dimezzato rispetto al 2008, oppure realtà, anche mirate a targets di alto livello, nelle quali il lavoro dell'imprenditore – questo è un collega ed amico veneto - non è nemmeno più quello di girare il mondo per andare a vendere, ma quello di farlo allo scopo di farsi pagare quanto già consegnato, sperando di non ricevere, invece, annullamenti a catena. Interventi di tal fatta, tra l'altro, dovrebbero essere considerati estremamente urgenti, in un momento che si sta presentando talmente difficile da spingere un numero rapidamente crescente di voci - in un moto razionalmente calcolato di auto-difesa - a dichiarare la scelta di non pagare IRES ed IRAP, pena lo sprofondamento in un circolo vizioso che s'innescherebbe qualora la sofferenza finanziaria si riversasse nel mancato pagamento dei fornitori, con le inevitabili conseguenze sia in termini di contingentamento dei materiali necessari alla produzione, sia di ulteriore stretta del credito bancario: in pratica, l'inizio della fine.
A questo punto, non appaia inopportuna una piccola postilla polemica – di carattere etico-filosofico - relativa al fatto che non si capisce l'equità della pretesa di tassazione per un reddito che non viene distribuito - cioè che di fatto non esiste – se non in un'ottica vetero cattocomunista, secondo la quale “i ricchi devono piangere” e l'impresa è un male necessario ma i veri valori sono altri. Sarebbe alquanto istruttivo apprendere chi, quest'illuminati pensatori, ritengano sia in grado di produrre quella ricchezza che dev'essere distribuita (rigorosamente a prescindere dal merito, ma in virtù del solo fatto di dichiararne la necessità), posto che il valore si realizza solo nel momento della vendita a fronte di adeguato corrispettivo ...
Sta di fatto, comunque, che nel decreto impropriamente definito “anticrisi” si prevede la possibilità di rivalutare i beni strumentali, ma con un'aliquota del 10% e senza alcuna traccia di detassazione degli utili mantenuti in azienda che ad essa – come spiegato - dovrebbe esser legata: è facilissimo prevedere che la misura otterrà pochissime adesioni e risulta evidente come, ancora una volta, lo scopo dell'azione governativa sia solamente far cassa, sempre naturalmente a spese di un sistema produttivo già caricato di oneri imparagonabili a quelli gravanti sui competitors internazionali. Anche il pagamento dell'IVA al momento dell'incasso relativo al bene venduto, anziché della fatturazione, fa parte del pacchetto di proposte avanzate dalle PMI: il motivo è facilmente comprensibile e risiede nel miglioramento della liquidità, evitando di consegnare all'erario risorse ancora non disponibili o - nell'ipotesi peggiore, ma non improbabile in un momento di notevole aumento degli insoluti - senza nemmeno riuscire a monetizzare il credito. Il governo sostiene di aver provveduto, ma la decisione non ha, nell'immediato, alcun effetto se si dichiara (erroneamente, in quanto l'articolo 66 della direttiva 2006/112/CE consente agli Stati membri di collegare l'esigibilità al pagamento, senza richiedere alcuna preventiva autorizzazione) di dover attendere gli otto mesi necessari ad ottenere il benestare europeo. Teniamo anche conto del fatto che ancora non conosciamo il reale peso della misura, giacché sarà un successivo decreto ministeriale a fissare il volume d'affari dei contribuenti nei cui confronti si applicherà l'IVA “di cassa”, ma le voci più ricorrenti lo prevedono a quota 300,000 euro: un fatturato da artigiano, non certo da PMI con un minimo di struttura industriale.
Inoltre, a fronte di un modesto innalzamento delle soglie relative alla detassazione dei premi di produttività, è stato deciso di non confermare la detassazione degli straordinari. La scusa è che, in un momento di crisi economica, non si fanno straordinari ….. ma, allora, nessun onere ne deriverebbe per i conti pubblici, quindi tanto vale mantenere il provvedimento. In realtà, una tale decisione dimostra, ancora una volta, che non si conosce il mondo delle piccole aziende – nonostante la cosa sia stata più volte spiegata – nelle quali le ore straordinarie non sono legate solo alla produzione, ma anche alle manutenzioni. Queste, abitualmente, vengono svolte fuori dall'orario produttivo canonico, per motivi legati sia alle interferenze, più probabili in spazi ridotti, sia alla disponibilità di personale specializzato, che deve adempiere anche ad altri compiti, sia, infine, al fatto che gli addetti sono i collaboratori migliori, cioè i più esperti, volonterosi e legati (anche affettivamente) ai destini aziendali, in altre parole i più meritevoli di ottenere preziose risorse economiche aggiuntive.
Già che ci siamo, poi, è opportuno ricordare come assoluta priorità abbia la richiesta di abolizione della norma introdotta – dal governo Prodi - con la legge finanziaria per il 2008, che ha limitato la deducibilità degli interessi passivi: l'ampliamento della deducibilità dall'attuale 30% al 40% del ROL (Reddito Operativo Lordo = valore della produzione - costo della Produzione + ammortamenti + canoni di leasing), secondo la richiesta formulata – purtroppo - da Confindustria è del tutto insufficiente e può essere utile solo a riassorbire l'intervenuto aumento dei tassi di interesse sui finanziamenti rispetto all'anno prima, ma basandosi sul presupposto che le imprese abbiano comunque un ROL positivo. Con la crisi in atto, moltissime PMI avranno, invece, ROL piatto o negativo e, quindi, l'innalzamento proposto sarebbe ininfluente e verrebbe interpretato solo come una beffa: tale norma va cassata o, almeno, dev'essere fissata un'ampia franchigia fino al raggiungimento della quale sia consentita la deduzione, a prescindere dalla percentuale sul ROL.
A proposito di beffa, ad un altro capitolo del decreto è sufficiente riservare poche parole, giusto per non dar l'impressione di trascurarlo: se qualcuno annuncia, magno cum gaudio, che le aziende possono godere di una riduzione dell'anticipo IRES (che passa dal 100 % al 97 %, tra l'altro con una formulazione che, non si sa se per errore o pressapochismo, richiede comunque il completo pagamento entro il 31 dicembre …...), è bene sappia che tale misura è vissuta come irrilevante ed addirittura offensiva, una vera presa per i fondelli che nemmeno è il caso di perder tempo a spiegare, giacchè non capisce solo chi non vuole. Furbesca, infine, appare la parziale deducibilità dell'IRAP dall'imponibile IRES, misura attuata in ossequio alla quasi certa sentenza della Corte Costituzionale, che sancirà – a breve – l'obbligo di prevederla integralmente, sconfessando la nativa impostazione dell'ineffabile Visco, che così volle senza considerare che la sua infausta creatura andava a sostituirne altre prive di tale caratteristica. Anche quest'intervento, quindi, non ha valore: è solo una minima anticipazione di quanto avverrà in seguito alla predetta sentenza ed avrebbe dovuto, evitando annunci demagogici, almeno tracciare un percorso certo verso la meta che tra poco il governo sarà obbligato a concedere, in attesa di quella abolizione che le imprese chiedono da tempo, ricordando l'anomalia internazionale che essa costituisce.
Intanto, il ritardo di pagamento ai fornitori accumulato dalla P.A. ha raggiunto l'allucinante cifra di 70 – dicesi settanta - miliardi di euro, in stridente contrasto con quanto il mercato concede alle PMI, facendo così pendant con le lungaggini dei rimborsi d'imposta ed, in particolare, dell'IVA che avvengono normalmente in tempi compresi tra i 10 ed i 24 mesi, in aperta violazione della norma che stabilisce tre mesi dalla richiesta: ciò si configura come un prestito forzoso all'erario, remunerato col tasso di interesse legale (da confrontarsi con quanto richiesto, tra interessi e penali, nel caso opposto di inadempienza temporale del contribuente, ça va sans dire …..), che provoca un danno legato al fatto di dover ricorrere al credito bancario a costi più elevati. Si chiede o, meglio, si pretende di porre un immediato stop a tale indecenza che, tra l'altro, inficerebbe l'eventuale – più volte promessa e mai attuata - modifica della norma sulla compensazione di crediti e debiti erariali, alla quale oggi è imposto un iniquo tetto, che dev'essere progressivamente tolto, almeno iniziando dal raddoppio degli attuali 516.000 Euro.
Possiamo anche fermarci qui, per ora, ma (in un territorio nel quale la somma della pressione fiscale e contributiva reale è la più alta d'Europa - si veda l'indagine Paying Taxes 2009 della World Bank – a fronte di una bassa qualità dei servizi ed in aggiunta ai cospicui oneri derivanti dalle inefficienze burocratiche) il discorso andrebbe ampliato ulteriormente prendendo in esame tutta una serie di norme vessatorie, inique e disallineate con i partners/competitors a noi vicini, ad esempio per quanto riguarda le spese di funzionamento/rappresentanza, sulle quali magari torneremo, se e quando sarà finalmente firmato il decreto attuativo, da tempo annunciato e costantemente rimandato senza veri motivi. Senza dimenticare, naturalmente, che l'italica amplificazione dei problemi globali ha la sua genesi dalla storica assenza di vero mercato in settori fondamentali dell'economia – e che, quindi, lì sta l'impervia via maestra da percorrere – ma volendo limitare l'analisi alla gestione dell'emergenza.
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Possibilmente senza elemosine di stato, quello anacronisticamente etico che par tanto piacere al tributarista più in vista del Belpaese.

 
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