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« UN RICHIAMO AGLI AMICI D...E' POSSIBILE LA SALVEZ... »

PASSO DOPO PASSO, COSA FARE PER ARRIVARE A CONSEGUIRE LA VITA ETERNA

 

“Dio, infatti, ha così amato il mondo da dare il suo Figlio, l'Unigenito, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna” Gv.3:16.

     Diciamocelo subito e apertamente, anche per non creare false aspettative in chi legge: la salvezza non si consegue in modo frettoloso, improvvisato e a casaccio, ma, come tutte le cose ben fatte di questa vita, segue un proprio sviluppo, del tutto determinato e ordinato, evolutivo direi, di passo in passo, gradino dopo gradino, fino alla sua naturale conclusione. Non per nulla, ogni religione che si rispetti, fa seguire al neofita un percorso più o meno lungo di formazione, prima della sua adesione definitiva; e così fece Gesù con i suoi apostoli, istruendoli e vivendo con loro per un certo tempo in disparte.      -Partiamo perciò dall’umiltà: la prima, delle successive tappe necessarie, che ci porteranno alla voluta mèta finale. Non c’è niente da fare, senza l’umiltà non si costruisce alcunché di risolutivo e non si va in nessuna direzione sicura. Riconoscerci un niente, bisognosi di tutto o quasi, sentire su di noi la nostra finitezza e la nostra miseria, il bisogno di essere salvati dal baratro che ci si presenta innanzi, è un aprirci coscientemente all’Altro, all’assolutamente Altro; è un grido disperato d’aiuto verso Colui che solo può liberarci dalla nostra sofferenza e precarietà umana. L’umiltà è stata, non solo largamente raccomandata da Gesù ai suoi discepoli, ma anche esercitata, a modo d’esempio, da egli stesso nei loro confronti, mettendosi, egli per primo, al loro servizio, durante il suo ministero su questa terra, fino al gesto estremo della lavanda dei piedi, da lui compiuto, verso i Dodici, durante l’Ultima Cena (v.Gv.13:1-11).     -Dall’umiltà alla fede in Dio. Senza la fede, come ci ricorda l’apostolo Paolo, è impossibile piacere a Dio (cfr.Eb.11:6), e Gesù stesso ci esorta fraternamente ad avere fede nel nostro Padre celeste e in lui, in quanto Figlio di Dio (cfr.Gv.14:1ss.). La fede è, possiamo dire, il completamento, l’ovvio sbocco dell’umiltà. L’umiltà, difatti, come si può vedere chiaramente nella religione cristiana, apre il suo orizzonte sulla fede, e questa la riveste di dignità e di onore innalzando la creatura, da bassa quale si riconosce, fino alla vetta del suo Creatore, che gli dona il dono immenso della sua figliolanza divina. Ma la fede ci richiede, talvolta, in partenza, non solo la misura del piccolo granello di senapa, per poter essere operante, o dei semplici, purché significativi, gesti quotidiani, bensì pure ribaltamenti estremi, rotture estreme, risposte estreme; cioè, un completo e fiducioso abbandono alla volontà di Dio, e questo anche quando tutto appare ancora compromesso e niente vi è di sicuro per colui che vi aderisce. Basti pensare, fra i tanti personaggi biblici che possono essere richiamati alla memoria, alle figure di Abramo, di Maria, di Gesù, veri e propri giganti della fede, che, senza esitare, hanno messo in gioco le loro vite contro ogni apparente buon senso, ma che poi hanno vinto, cambiando così le vicende loro e dell’umanità. Insomma, la fede non è per i meschini, per i corrotti, gli sfiduciati, gli affaristi, per coloro che tendono al compromesso, che amano patteggiare, calcolare, che non vedono più in là del proprio naso, che temono il futuro e, perciò, si aggrappano saldamente al presente, arraffando, o tentando di arraffare quanto più possono, anche e spesso a danno del loro prossimo. No, per costoro non c’è posto, e direi per fortuna, nel Regno dei Cieli di evangelica menzione, né per chi dissipa i talenti ricevuti in dono da Dio, o li lascia infruttuosi.      -Ma non basta credere, bisogna sapere anche in chi si crede. Di fatto esistono molte religioni, che presentano divinità con caratteristiche spesso difformi tra religione e religione, e allora dobbiamo apprendere, discernere, e allora dobbiamo fare ordine nella nostra mente, mettere le idee nella loro giusta collocazione, progressivamente e per grado di importanza, perché i nostri avversari non ci colgano impreparati e nel disordine mentale, e ci confutino, ma possiamo rendere, invece, a chiunque, ragione della nostra fede. Quando Pietro e Giovanni, come ci narrano gli Atti degli apostoli nel c.3, v.1ss., guarirono uno storpio che mendicava a una delle porte del tempio di Gerusalemme, agli abitanti della città, stupefatti ed attoniti per tale miracolo, Pietro disse che era stato, non un dio qualsiasi, ma il Dio dei loro Padri, il Dio, cioè, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ad operare tale miracolo per mezzo di Gesù; quello stesso Dio, appunto, che aveva risuscitato il suo servitore Gesù da morte e che lo aveva ora posto assiso alla sua destra, in attesa della restaurazione di tutte le cose. Penso che, con tale esempio, il concetto espresso non abbia bisogno di ulteriori esplicazioni, ma sia sufficientemente chiaro a chiunque. Non l’astratta, quindi, e filosofeggiante affermazione di una vaga credenza in un vago dio; non l’isolata ed estenuante meditazione di uno scarnificato guru, alla ricerca incessante dell’unione della propria anima (atman) con il fondamento dell’universo (brahman); né l’estinzione del nostro io, cosciente e personale, in un nulla assoluto, o, come altri intendono, in una beatitudine eterna, comunque asettica e indistinta (nirvana); né, tanto meno, l’improvvisa, e illuminante rivelazione ricevuta dall’alto da un, troppo spesso, intollerante ed esaltato inviato, ma la netta testimonianza di una fede provata e dimostrabile con fatti concreti in un Dio calato e resosi vivo nella storia, in cammino a tu per tu con l’uomo, come lo è stato e lo è tuttora Gesù Cristo (“Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla consumazione del secolo” Mt.28:20), questa deve essere la vera natura della vera fede, il vero oggetto della nostra credenza, sebbene, come vedremo in conclusione al nostro lavoro, di fronte al muro inespugnabile della libertà umana, della nostra libera adesione al piano di salvezza che Dio ha su ciascuno di noi, che può giungere, in tal modo, persino al rifiuto netto ed inesplicabile di Dio da parte nostra, né fede, né ragione, né miracoli possono alcunché, ma solo l’intervento diretto di Dio, come avvenne a Paolo sulla nota via di Damasco, e che ne mutò radicalmente il destino.     -Soffermiamoci adesso sulla coesione, l’unità, la compartecipazione che deve esserci tra i fratelli, tra coloro, cioè,  che sono membri di una stessa fede. Se manca la coesione, se si apre una breccia in qualche parte della famiglia religiosa, perché qualche membro della comunità defeziona dalla fede, allora è facile per il nemico entrare e portare lo scompiglio nell’interno, depredando e distruggendo quanto in esso vi trova. Soprattutto nel Vangelo e nella prima Epistola del discepolo prediletto da Gesù, viene posto con forza l’accento sull’amore che deve esserci tra i seguaci di Cristo; un amore talmente forte da spingerli, là dove occorresse, sul modello del loro precettore e Signore, fino al gesto estremo della donazione della propria vita per l’altro.     -Ed eccoci ad argomentare sulle relazioni che il fedele deve tenere con il mondo esterno. Esse devono essere improntate, anzitutto, al reciproco rispetto e al dialogo, come si conviene tra persone civili. Ma il cristianesimo, sulla scia della religione che l’aveva preceduta, l’ebraica, comanda molto di più: oltre al dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, secondo il grado e il ruolo che riveste in questa società, esso comanda d’amare il prossimo come noi stessi, allargando però il concetto di prossimo, prima ristretto nell’ambito, o familiare, o della stessa nazione, o della stessa fede religiosa, anche ai diversi, ai lontani ed ai nemici. Al proposito, per chiarire meglio il concetto in questione, ci viene in soccorso la parabola, magistralmente raccontata da Luca nel suo Vangelo, del buon samaritano (Lc.10:29ss.), e a cui si rimanda il lettore.      -E con l’amore, senza se e senza ma, riversato abbondantemente sopra i nostri simili, come ordinatoci dal comandamento di Dio, siamo così arrivati anche alla parte terminale del nostro percorso da noi definito, al suo inizio, evolutivo, e di tipo prevalentemente etico-religioso; ovvero, siamo allo svelamento del Mistero, alla comprensione della Verità trascendente che sta sopra di noi, che ci abbraccia dall’alto, che si rende presente a noi nella rivelazione, e che rende compiuta la nostra esistenza nel progetto d’amore che Dio ha su ciascuno di noi, col dare un senso alla vita, apparentemente vacua ed inutile, indicandoci il nostro fine ultimo. Questa Verità, evidentemente, non è frutto, o approdo di speculazione, sia filosofica che religiosa, bensì è, innanzi tutto, partecipazione, comunione, legame stretto ed intenso col Dio vivo, rivelatosi e sceso in mezzo a noi poco più di duemila anni fa, nella persona di Gesù da Nazaret, e di cui, dopo la sua ascesa al cielo, ne attendiamo fiduciosamente il glorioso ritorno.      -Mentre nel corso dei secoli e a sua testimonianza per tutti gli uomini, Dio ha lasciato tracce di sé nella natura, che svela nelle sue opere il marchio, l’impronta indelebile del suo Creatore, come pure nella legge morale o coscienza, insita nel cuore di ogni uomo, sino a far capolino nella storia col chiamare a sé un popolo, rivelandogli il suo nome e fornendo ad esso profeti, affinché preparassero poco a poco la sua manifestazione definitiva, avvenuta poi nella “pienezza del tempo”, come ci ricorda l’apostolo Paolo in Gal.4:4, nella seconda persona della Trinità: il Figlio, il Verbo divino; Dio, appunto, nella stessa persona di quel Verbo si è per noi incarnato, prendendo possesso dell’umanità intera, assumendola su di sé e liberandola dalla schiavitù del peccato, col riscatto della sua morte redentrice avvenuta sulla croce e la successiva risurrezione. Dio vuole, perciò, perché l’uomo consegua la vita eterna, ed il sacrificio del suo unigenito Figlio non sia avvenuto invano, che egli anche creda a questo messaggio di salvezza e si adegui alla sua santa volontà: “Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui, abbia la vita eterna, e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” Gv.6:40. Quindi, il termine ultimo di questo nostro cammino è la nostra adesione alla sua rivelazione (adesione, questa volta, prevalentemente affettiva e apportatrice di buoni frutti e non più soltanto concettuale e sterile, come quella da noi concessa in precedenza, e che si raggiunge, come si è visto, dopo la pratica dell’amore esercitata verso il prossimo in generale e i propri fratelli nella fede in particolare, cfr.1Gv.4:20-21). Il passo conclusivo del percorso fin qui intrapreso è, perciò, una persona: Gesù Cristo; la nostra fede in lui, nella sua divinità. “Ora, la vita eterna è questa, che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” Gv.17:3. Solo in lui, difatti, la divinità si fa realmente e integralmente manifesta e non camminiamo più a tastoni nella ricerca di essa, e anche le altre religioni possono così trovare nel cristianesimo, il loro sbocco più confacente, il loro approdo definitivo, la piena luce, che scacci le loro molte ombre e lati oscuri.     -Con la sola ragione, e con la religione speculativa, come ci stanno a ricordare gli insuccessi umani, non arriviamo a niente. Solo la rivelazione, che la divinità fa di se stessa all’uomo, può condurci a mèta sicura. E ad oggi, nessuna religione, se non la cristiana, ci ha presentato un Dio fattosi anche uomo, o un uomo dichiaratosi anche Dio. Nessuna religione fa sacrificare la propria divinità col supplizio più atroce e nel modo più obbrobrioso per l’umanità intera, come la cristiana, e poi ne proclama la risurrezione. Nessuna religione comanda l’amore per i propri nemici, e valorizza il pacifismo più estremo, la povertà, la non reazione alle offese, la castità, l’umiltà, la propria insufficienza, il sacrificio, la rinuncia agli affetti familiari e alla propria vita, il senso del peccato, il perdono, ecc., quanto il cristianesimo; tutti non valori per le società opulente e materialiste, basate sull’apparenza e sulla visibilità forzata, e svuotate dei veri valori quali sono le nostre paranoiche e schizofreniche società occidentali, eppure trovando esso, nel corso dei secoli, milioni e milioni di adepti, e facendo innumerevoli martiri, ben contenti di morire (e non certamente di ammazzare gli altri) a motivo di Gesù. Ed è proprio grazie a Gesù se i cristiani, unici fra tutti, possono, anche nel nostro tempo, dal più grande al più piccolo, dal più santo al più peccatore, rivolgersi a Dio con il familiare e tenero titolo di Padre (cfr.Mt.6:9-12; 23:7-10).     -Una religione che per molti suoi detrattori rasenta l’assurdo e il masochismo, ma chi si converte ad essa ne dà però una testimonianza del tutto diversa, dicendo di avere trovato soltanto lì la vera pace e la vera ragione di vita, capace come essa è di cambiare completamente l’uomo, di rivoltarlo come un calzino, di trasformarlo da dentro e da fuori, come ce ne da accertato rendiconto la sua stessa e ben documentata storia di figure di santi e martiri, nonché di grandi operatori sociali ed umanitari appartenuti anch’essi alla chiesa. Del resto, come rimanere insensibili od inerti di fronte ad una figura come quella di Gesù. Una figura radicale e che non ammette compromessi, ma che ti carica le spalle di un giogo soave e di un fardello leggero, com’egli ebbe a dire, e che non ti lascia solo un istante lungo il tuo cammino. Un personaggio, che, per la prima volta e unico nella storia delle religioni, si esprime con autorità, in prima persona, con quell’ “AMEN (IN VERITA’), IO VI DICO”, che non vuole lasciare adito a dubbi, in chi ascolta, sull’origine della sua persona e sulla natura delle sue parole.     -Egli si proclama luce del mondo, risurrezione e vita, via e verità e vita, e unico mezzo per arrivare al Padre. Inoltre afferma che chi vede lui vede il Padre e la sua unicità con esso. Assimila la sua carne e il suo sangue al pane e al vino, dichiarando la sua carne vero cibo e il suo sangue vera bevanda, con grande scandalo per i suoi uditori giudei; che la sua morte è sacrificio unico e necessario per riscattare l’umanità dal gravame del peccato e ricondurla riappacificata a Dio, e altre espressioni simili, che se si estrapolassero da tutto il contesto in cui sono state dette, i Vangeli, potrebbero apparire frasi di un folle, anche se non credo che un folle si sia mai spinto a proferire tanto. Ad ogni modo un folle non troverebbe e non ha trovato mai tanti consensi e seguaci quanti ne ha trovati e continua a trovarli Gesù nel corso dei secoli: di ogni condizione sociale, di ogni statura intellettuale, sia uomini che donne, di ogni età e di ogni continente, ecc., che non solo gli hanno donato le proprie energie e i propri averi, ma anche la loro stessa vita. Quindi, se non è un pazzo lui, non resta che arguire che siamo degli imbecilli noi a non credergli, a non fidarci di lui, a non lasciarci guidare dalla sua parola. Ma non penso, a parte qualche caso, che i più siano degli idioti allo stato puro. Magari stessero così le cose! Almeno la nostra salvezza non ne sarebbe compromessa: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!”, esclamò Gesù sulla croce, di fronte ai suoi carnefici (Lc.23:34).     -Purtroppo, oltre le ragioni della mente ci sono anche le cosiddette ragioni del cuore di pascaliana memoria, e queste possono essere e sono, di fatto, di ben più difficile apertura e comprensione delle prime: mi riferisco alla durezza del cuore, così tanto stigmatizzata da Gesù durante il suo ministero terreno, e che, in fondo, ne ha determinato il rifiuto e la sua messa a morte da parte del suo stesso popolo. Perciò, non trovo conclusione migliore, alla fine di tutto questo nostro percorso di fede, che riportare le stesse parole che Gesù rivolse amaramente a quei giudei avversi ancora al suo invito alla conversione e a credere in lui, nonostante i segni sin lì da lui compiuti. E Gesù disse: “Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, affinché quelli che non vedono ci vedano, e quelli che vedono diventino ciechi”. Alcuni dei farisei, che erano con lui, udirono ciò, e gli dissero: “Siamo forse ciechi anche noi?”. Gesù disse loro: “Se foste ciechi, non avreste peccato; ma ora dite: -Noi ci vediamo!-; così il vostro peccato resta” Gv.9:39-41.

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                 giuliobozzi53

Poggibonsi, 21/07/2011

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