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Post N° 45

Post n°45 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


La contestazione e il
terrorismo



gli scontri di Battipaglia del 1968. Il 1968 pone
bruscamente fine al balletto di una serie di governi di
centro-sinistra che, pur avendo cercato di mediare una
situazione politica bloccata, non hanno sostanzialmente
risposto alle esigenze di una società più avanzata. Il
movimento di protesta parte dalle università californiane e si
estende con grande rapidità in Europa. Il "maggio francese" è,
per le università italiane, un'esperienza indimenticabile. Gli
studenti esprimono tutta la loro ribellione nei confronti di
un sistema scolastico ossificato e sorpassato. Sono ben decisi
a non svolgere un ruolo passivo: prendono l'iniziativa per
reinventare in un'onda di disordinata creatività e protesta il
modo stesso di vivere e studiare.


Il mondo del lavoro, cresciuto
all'ombra di un boom economico che non aveva tenuto conto delle sue
esigenze sociali, entra in fermento. Le rivendicazioni economiche
si saldano ai dibattiti e alle lotte intorno alle condizioni in
fabbrica, alla struttura dell'organizzazione del lavoro (ritmi,
controlli, straordinari e impatto delle innovazioni tecnologiche
nella catena produttiva), al diritto alla casa contro la
speculazione del mattone ed ai trasporti di massa. Le prime lotte
hanno origine in zone periferiche. L'azienda tessile Marzotto a
Valdagno è testimone di manifestazioni spontanee contro i nuovi,
massacranti ritmi di lavoro e contro la minaccia di 400
licenziamenti. Ad Avola e a Battipaglia i braccianti reagiscono
duramente all'intervento della forza pubblica e gli scontri
provocano quattro morti e alcune decine di feriti. Nel febbraio
1968 campeggiano le foto della battaglia di Valle Giulia, a Roma,
un momento di svolta nel movimento studentesco ed un suo passaggio
ad una fase più violenta. La polizia era riuscita a sgomberare la
facoltà di Lettere occupata dagli studenti, ma questi avevano
spostato il peso della loro presenza sulla facoltà di
Architettura.


Anche qui le forze di polizia
tentano di allontanarli ma vengono impegnate in uno scontro
durissimo. Macchine ed autobus sono dati alle fiamme. 46 militari
finiscono in ospedale e diversi studenti si fanno curare di
nascosto. à il trionfo dell'esaltazione di giovani che in scarpe di
tela volteggiano nella guerriglia urbana. Pasolini innesca una
rovente polemica sottolineando alcune evidenti contraddizioni del
movimento.



"... lo no, cari./ Avete facce di figli di papà/ ... / quando
ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/ io
simpatizzavo coi poliziotti./ Perché i poliziotti sono figli di
poveri,/ vengono da subtopaie, contadine e urbane che
siano.",


recitava una sua contestatissima
poesia.


Da allora nella cultura giovanile la
violenza, vista anche come una risposta ai duri interventi
governativi, viene rapidamente accettata come inevitabile e
giustificata in quanto rivoluzionaria. Si fanno strada i teorici
della violenza proletaria e sono in voga slogan come "Il potere
nasce dalla canna del fucile', Violenza contro violenza", "Guerra
no, guerriglia sì" sullo sfondo dei miti di Mao, Che Guevara e del
Vietnam.


SI PASSA ALLE ARMI. Chi ha
ancora visto di recente dal vivo o sui mass media i volti e gli
atteggiamenti dei protagonisti della stagione del terrorismo
italiano non può, specie se non partecipe diretto di quegli eventi,
che essere assalito da un vago senso di smarrimento. Queste signore
e signori ormai di una certa età, con l'aspetto segnato dalle loro
diverse culture politiche sono proprio quelli che hanno messo le
bombe o gambizzato o rapito e ammazzato?


Eppure in quegli anni tremendi il
senso dello scontro e dell'odio politico erano davvero palpabili e
la violenza dei picchiatori era una minaccia costante e concreta
nelle città grandi e piccole.


La sfida di questo decennio viene
raccolta dall'Arma con tre strumenti. Quello più ovvio è
rappresentato dal servizio di ordine pubblico. Meno visibile, ma di
maggiore importanza per l'azione preventiva, è il servizio
informativo.


gli incidenti del 1968 nall'università di RomaAltamente spettacolari sono le
cosiddette operazioni Setaccio, create in risposta ad un serio
aggravamento della criminalità comune. Mai dalla fine della guerra
si sono visti rastrellamenti di questa ampiezza e l'operazione
Setaccio più massiccia dura dal settembre al dicembre 1971. Tre
divisioni (Pastrengo, Podgora e Ogaden) mettono in campo un totale
di 35mila uomini, appoggiati da altre forze dell'ordine, per
controllare 90 province. Gli arresti sono centinaia, le denuncie
migliaia e le contravvenzioni decine di migliaia. Nel frattempo il
terrorismo "rosso" e "nero" comincia a mietere le sue vittime. Tre
carabinieri saltano in aria ed uno resta gravemente ferito nei
pressi di Peteano. Il pomeriggio del 31 maggio 1972 una telefonata
anonima informa i Carabinieri di Gorizia che c'è nei pressi del
villaggio una macchina sospetta con due colpi di pistola sul
parabrezza. E' un agguato: il solo esecutore materiale, il fascista
Vincenzo Vinciguerra, viene condannato all'ergastolo.


DUELLO CON LE BR. La
formazione più agguerrita e temibile nella nebulosa del terrorismo
di sinistra è indubitabilmente quella della BR (Brigate Rosse),
costituitesi come partito armato nel maggio del 1972 e passate alla
clandestinità.


il generale Carlo Alberto dalla Chiesa che creò il nucleo investigativo dell'Arma contro il terrorismoMentre a
livello di vertici politici si perde tempo in sterili
battaglie di competenze, i CC creano, per iniziativa del
generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un primo nucleo
investigativo. All'interno di questa formazione di punta
spicca il vecchio maresciallo Felice Maritano.


Nato nel 1919 a Giaveno (in
provincia di Torino), padre di tre figli, Maritano ha partecipato
alla guerra nei Balcani e dopo l'8 settembre 1943 è stato internato
in Germania fino alla fine del conflitto. Nel 1941 era stato
promosso appuntato per meriti di guerra, poi decorato con croce al
Valor Militare nel gennaio 1941 sul teatro dei Balcani. Nel corso
del suo lungo servizio di 10 anni a Rivarolo (Genova) gli erano
stati concessi 10 encomi solenni. La gente lì lo conosceva con
l'affettuoso (e significativo) nomignolo di "sceriffo".


Una foto ce lo mostra con i suoi 35
anni di servizio: un vecchio maresciallo aitante coi baffi
brizzolati, la schiena dritta, lo sguardo fermo e limpido. Le
Brigate Rosse hanno rapito da poco (aprile 1974) il giudice
genovese Mario Sossi, dimostrando sia la loro capacità
organizzativa che la loro determinazione nel condurre la lotta. Il
giudice verrà rilasciato, ma la caccia dell'Arma era appena
iniziata e si stavano ancora mettendo a punto le tecniche più
idonee. Maritano avrebbe potuto andarsene tranquillamente ed
onoratamente in pensione, ma il 22 maggio 1974 si costituisce il
nucleo e due giorni dopo Maritano chiede al suo colonnello Giuseppe
Franciosa di entrarvi. Il 27 ne entra a far parte in considerazione
delle sue doti e della sua collaudata esperienza. Fin dai primi
giorni il suo ascendente nel reparto è altissimo. Ricostruisce la
biografia di uno dei membri delle Brigate Rosse e il suo lavoro lo
porta a contatto con amici, parenti e conoscenti del brigatista
ricercato; alla fine la pista porta al covo di Pianello Val Tidone
(Piacenza). L'operazione si risolve con l'arresto dei terroristi
Carnelutti e Sabatino e la disfatta della colonna lodigiana delle
Brigate Rosse.


Poco dopo Maritano si offre anche
volontario per l'operazione che nei pressi di Pinerolo porta
all'arresto di capi storici delle Brigate Rosse come Curcio e
Franceschini, bloccandoli armi in pugno insieme ad altri (8
settembre 1974). Dal paziente vaglio del materiale rinvenuto nel
covo di Pianello si arriva alla base brigatista di Robbiano di
Mediglia.


UN APPIATTAMENTO. Al momento
di far scattare l'operazione a Robbiano, il Nucleo speciale ha già
al suo attivo un bilancio rispettabile per la sua breve esistenza
operativa: 34 arresti; 43 denunzie; 193 perquisizioni domiciliari;
160 accertamenti bancari; 93 sopralluoghi; 456 rilievi fotografici;
1.050 informazioni richieste. Un segno del dinamismo del generale
che l'ha creato e dell'impegno dei suoi componenti. Visto che il
covo quando i carabinieri arrivano è vuoto, si decide di
organizzare un appiattamento, ossia di nascondere alcuni militi
all'interno dell'appartamento in modo da trasformare un rifugio
ritenuto sicuro in una vera e propria nassa. E' un servizio
sfibrante che richiede molta pazienza e sangue freddo. Sentiamo che
cosa ne dice il colonnello Franciosa (oggi generale) in
un'intervista radiofonica al Giornale Radio del 17 ottobre.

"Il sottufficiale non faceva questione di turni: rimaneva in piedi
tutta la notte. Era l'unico di tutto il nucleo che non aveva fatto
alcun giorno di licenza, diceva che l'avrebbe fatta quando sarebbe
finita questa storia... All'interno dell'appartamento erano al
buio, ma nelle scale c'era la luce".


I carabinieri pensavano che ci
potesse essere un conflitto a fuoco?


"Evidente che se lo aspettavano,
tanto è vero che gli uomini in attesa nell'atrio della casa, si
erano organizzati con una piccola stufetta elettrica che avevano
trovato nella stessa casa anzi, scherzando, dicevano che la
bolletta della luce l'avrebbero pagata i brigatisti. Maritano era
un uomo di 56 anni in compagnia di altri sottufficiali che avevano
25/26 anni e li teneva svegli per il semplice fatto che lui era
sveglio. Era un po' per tutto il reparto un simbolo, non perché
aveva i capelli grigi, ma perché aveva la vivacità e l'entusiasmo
spesso non riscontrabili in un giovane".


Non pensa che fosse anziano per
questa operazione?


"Certo che era anziano, però tenga
presente che era lui stesso a chiederlo. Il soggetto fisicamente
era efficientissimo, tanto efficiente che nell'inseguimento ha
superato gli altri due molto più giovani di lui... A parte il fatto
che l'anzianità dicevo che non incideva per niente sulle sue
qualità fisiche essendo un tipo asciutto, scattante, dinamico."


A CAPOFITTO PER LE SCALE.
L'operazione a Robbiano è stata disposta dal generale Dalla Chiesa
che comandava la 1° Brigata Carabinieri di Torino. Le indagini,
partite dai nuclei investigativi di Torino, Genova, Milano sono
passate al nucleo speciale. I controlli a tappeto in via Amendola
(il covo era al n. 10) sono avviati all'inizio di quella settimana.
Dotati di foto segnaletiche i militi setacciano ogni appartamento.
Venerdì pomeriggio alle 14 scatta l'operazione. La porta viene
sfondata, l'appartamento è vuoto: si pensa quindi di tendere una
trappola ai tre. Nell'appartamento si trova materiale investigativo
di notevole interesse (tra cui mitra e pistole utili
all'identificazione dei terroristi implicati nel rapimento del
giudice Sossi), esplosivi e munizioni. Viene anche rinvenuta
un'agenda di Sossi, un documento BR firmato da Sossi. Nel covo uno
Sten, due mitra, un moschetto, un revolver, un carabina, tre bombe
a mano tedesche (le temute Stielhandgranaten), molti silenziatori, decine di metri
di miccia e molti documenti falsi (passaporti, carte d'identità,
eccetera).


I tre brigatisti arrivano uno alla
volta: sembra facile, ma è un affare altamente rischioso. Alle 13 e
alle 21,30 due brigatisti, armati di pistola con il colpo in canna
(calibro 7,65 mm), vengono arrestati. Non avendo partecipato alla
cattura di Bassi, il primo brigatista, Maritano ottiene di
partecipare ai turni di piantonamento successivi ed insiste a
rimanere perché non vuole lasciare soli i più giovani nei momenti
più rischiosi. Vista la sua esperienza si accetta la sua richiesta
in modo che serva da elemento di continuità e coesione nelle
rotazioni del personale. Alle 21.30 partecipa alla cattura di
Bertolazzi, che tenta di estrarre una 7,65, ma viene bloccato dai
militi. Alle 3.20 dopo un breve riposo nella branda del covo, si
sente uno scalpiccio sulla tromba delle scale. In servizio di
appiattamento si trovano Maritano e i brigadieri Calapai e Furno.
Furno sente i rumori, avvisa Maritano e si piazzano sul
pianerottolo.


Quello che successivamente sarà
identificato come il brigatista Ognibene arriva a pochi metri e si
accorge della presenza dei carabinieri. Maritano intima "Alt,
Carabinieri", ma Ognibene si dà alla fuga lungo la tromba delle
scale, inseguito dai tre militi. Il silenzio della notte è lacerato
dai colpi della Smith & Wesson calibro 38 special del
terrorista. I colpi raggiungono il maresciallo che però non molla.
Maritano scosta Calapai e spara contro il brigatista, lanciandosi
al suo inseguimento. Continua a sparare con la mano sporca di
sangue appoggiandosi alla parete, finché quattro colpi non
neutralizzano il brigatista. I due arrivano al piano terra.
Ognibene stramazza al suolo e Maritano gli si accascia vicino, come
se volesse controllarlo. Quasi esanime esorta i due sottufficiali a
catturare il brigatista. Muore durante il trasporto
all'ospedale.


UN FUNERALE BLINDATO. La
morte del valoroso maresciallo desta una profonda emozione anche
nell'Italia indurita dall'asprezza della lotta politica. A parte
tutte le manifestazioni ufficiali di cordoglio, giungono al Comando
Generale numerose testimonianze di solidarietà e di fiducia. Ma il
clima è davvero pesante e non risparmia nemmeno le esequie ad un
morto. La notte precedente arrivano telefonate minatorie contro chi
vuole partecipare al funerale. Scritte minacciose sono tracciate
sui muri della chiesa e nelle vie adiacenti. In risposta a queste
intimidazione all'uscita del feretro dalla chiesa tutte le sirene
del porto di Genova hanno suonato. Lo Stato è presente: al funerale
ci sono Sandro Pertini, presidente della Camera, Paolo Emilio
Taviani, ministro degli Interni, il Comandante Generale, Enrico
Mino. Maritano viveva a Rivarolo ed è stato sepolto lì. Gli
abitanti si ricordano ancora la sua eccellente conoscenza della
zona ed il fatto che lui cercava di aiutare la gente in difficoltà
e di comporre le liti. Lui non si tirava indietro nel lavoro e non
guardava di che partito si fosse: "Basta che sono persone oneste,
per me sono tutte uguali", diceva.


"Il carabiniere lo si conosce
solamente quando muore" ? aveva detto il colonnello Franciosa.


FACCIA A FACCIA CON MARA.
Ognibene, che all'epoca aveva vent'anni, dichiara una falsa
identità quando viene ricoverato in ospedale con una prognosi di
venti giorni. La copertura dura poco e verrà processato per
direttissima. Qualche mese dopo (il 19 febbraio 1975) una mesta
cerimonia di solidarietà ricorda alcuni caduti sul fronte del
terrorismo, compresi i tre caduti per la bomba di Peteano (il
brigadiere Antonio Ferraro ed i carabinieri Franco Dongiovanni e
Donato Poveromo), oltre al maresciallo maggiore Felice Maritano. Il
4 giugno 1975 viene rapito lungo la provinciale piemontese
Cassinasco-Canelli l'industriale Vittorio Vallarino Gancia. I
Carabinieri, ormai temprati dall'amara esperienza di quegli anni,
si muovono rapidamente. Alle 15,30 viene arrestato Massimo Maraschi
(22 anni) da Lodi che aveva avuto un incidente un'ora prima a circa
200 metri dal luogo del rapimento. Dopo aver tentato un accordo con
l'altro conducente coinvolto nell'incidente, si era dato alla
fuga.


Scatta un'ampia battuta e si trova
la vettura a Canelli con a bordo un individuo che tenta la fuga in
un cantiere. Viene fermato e portato alla caserma. L armato con una
pistola 7,65 con il colpo in canna, l'auto è rubata e i documenti
sono falsi. Nella notte stessa in collaborazione con il Nucleo
speciale si appura che: l'uomo è identificato come noto brigatista,
già inquisito dal Nucleo; il documento d'identità falso appartiene
ad un blocco di documenti trovati nel covo di Robbiano; Maraschi ha
partecipato al rapimento di Gancia, bloccando la strada con la
vettura. Studiata la zona si ordina un controllo a tappeto di
località isolate, cascine e abitazioni sospette.


Il 5 giugno 1975 il tenente Umberto
Rocca, comandante della compagnia di Acqui, dopo aver celebrato la
ricorrenza del 161° anniversario dell'Arma, verso le 10,30 decide
di effettuare ispezioni in località e cascine già note e
sorvegliate (ma ancora senza esito). Sono con lui il maresciallo
maggiore Rosario Cattafi, comandante della stazione di Acqui Terme;
l'appuntato Giovanni D'Alfonso, l'appuntato Pietro Barberis. I
primi tre in uniforme e l'ultimo in abito civile. Arrivati nella
località di Arzello del comune di Melazzo (10 km da Acqui) alle
11.30 Rocca giunge alla cascina Spiotta, da più mesi posta sotto
sorveglianza perché segnalata come luogo saltuario di ritrovo di
persone sospette.


SENZA ESCLUSIONE Di COLPI.
L'ufficiale controlla l'interno delle vetture e detta gli estremi
dei libretti di circolazione quando Barberis segnala al tenente di
aver sentito voci e rumori nella cascina. Rocca si avvicina alla
porta, constatando la presenza di alcuni individui all'interno
della cascina. Ordina che la vettura si piazzi sulla strada per
bloccare il traffico, ma defilata da eventuali tiri da porte e
finestre; D'Alfonso si piazzi in posizione tra i capannoni,
defilato, ma pronto a intervenire; Barberis chieda subito rinforzi
alla centrale operativa via radio e controlli la parte posteriore
della cascina. Il tenente Rocca, con Cattafi, compie una rapida
ispezione dell'immobile, per appostarsi poi allo spigolo destro con
il suo mitra per controllare due lati, e ordina a Cattafi, che ha
già bussato, di mettersi all'estremità di un casotto in muratura di
fronte alla cascina. Al piano superiore si affaccia una donna che
guarda nel cortile e rientra in silenzio. Rocca allerta a gesti i
suoi dipendenti. Cattafi ad alta voce invita più volte il dottor
Caruso (il nome che risulta dalla targhetta alla porta) a uscire
fuori. Un uomo apre la porta e invita con fare arrogante i militi
ad entrare. Cattafi ripete l'invito, ma l'uomo lancia un bomba e
richiude la porta. Si scatena l'inferno. La bomba investe in pieno
Rocca, gli trancia il braccio sinistro e gli ferisce l'occhio
sinistro. Cattafi si prende numerose schegge sul lato destro, ma
spara con la pistola contro finestre e porta. Poi si accorge delle
gravi ferite dell'ufficiale Rocca. Smette di sparare e, benché
ferito gravemente, lo solleva di peso e lo mette al riparo
trascinandolo per 100 metri di terreno ripido e aspro fino alla
provinciale. Ferma un'auto di passaggio e chiede al conducente di
portare Rocca all'ospedale di Acqui. Nel frattempo sta arrivando
un'altra pattuglia di cui rifiuta il soccorso, invitandola a
raggiungere la cascina.


Sarà caricato a bordo di
un'ambulanza poco dopo.

Nella cascina un uomo e una donna tirano un'altra bomba a mano (a
vuoto) ed escono dalla porta per andare ai capannoni. D'Alfonso
avanza per bloccarli con il fuoco della pistola, ma viene centrato
da una raffica alla testa, al torace e all'addome. Nonostante i
colpi ricevuti, spara a sua volta un intero caricatore, forse
ferendo due volte la donna che è salita in macchina. Ormai i due
sono in fuga. La strada è però sbarrata dall'auto dei carabinieri
dove Barberis si era tempestivamente messo al riparo. Le due
macchine dopo un tamponamento escono di strada. Barberis spara, i
brigatisti rispondono e l'uomo esce fuori dalla vettura
arrendendosi "Siamo feriti, ci arrendiamo". Il solito vecchio
trucco. Barberis smette di sparare, li invita ad alzare la mani e
ad andare verso una radura. Ma dopo pochi passi l'uomo si fa scudo
della donna, estrae dal giubbetto una bomba e la lancia verso
Barberis che, con grande prontezza, si slancia in avanti e riesce a
sparare colpendo a morte la donna nonostante la bomba gli esploda a
pochi metri di distanza. Il terrorista superstite si tuffa nella
boscaglia e Barberis, preso un caricatore a D'Alfonso, lo insegue.
Ne perde, però, le tracce. Torna indietro e assiste D'Alfonso
ferito a terra.


Dopo alcuni minuti arrivano con
l'autoradio tre colleghi.


Il vicebrigadiere Frati, che
comandava il gruppo, prima di ispezionare la cascina, lancia un
candelotto lacrimogeno. Da un piccolo vano a piano terra sentono
gridare aiuto. E' Gancia, rapito il giorno prima. La donna uccisa è
Margherita Cagol (conosciuta con il nome di battaglia di Mara),
moglie di Renato Curcio. Lo scontro si è risolto in un'autentica
carneficina. Rocca è mutilato, D'Alfonso è morto, ma i carabinieri
tengono duro. Cattafi viene trovato dai giornalisti mentre sta per
tornare a casa con numerose schegge in corpo. Mostra la divisa
sforacchiata: "Potrei scolarci la pasta", dice, "ma comunque mi è
andata bene".






Approfondimento: Perchè all'esterno dell'Arma


Molti si chiedono per
quale motivo il Comandante Generale dei Carabinieri non possa
provenire dalle file dell'Arma, ma venga nominato tra i Generali di
Corpo d'Armata delle altre Armi dell'Esercito. In realtà
l'Istituzione, nel corso della storia, ha avuto 13 Comandanti
tratti dalle sue stesse file, l'ultimo è stato il Generale Angelo
Cerica dal 23 luglio all'11 settembre 1943.


Il Decreto Luogotenenziale del 26
aprile 1945 n. 230 prevede che la carica di Comandante generale
debba essere affidata ad un Generale di Corpo d'Armata, grado non
previsto per gli ufficiali dei Carabinieri se non all'atto del
collocamento in ausiliaria. Infatti la Legge 9 maggio 1940 n. 368
sull'ordinamento del Regio Esercito, fissa il grado massimo
raggiungibile in servizio attivo nella "Benemerita" in Generale di
Divisione.


Per la verità, il successivo Regio
Decreto Legge dell' 8 febbraio 1943 n. 38, all'articolo 1 istituì
anche per i Carabinieri il grado di Generale di Corpo d'Armata e
infatti lo erano gli ultimi due Comandanti prima dell'armistizio:
Azzolino Hazon, perito nel bombardamento di Roma del 19 luglio 1943
e, il già citato Angelo Cerica. Ma il Decreto Legislativo del 20
gennaio 1948 n. 45 ha poi ripristinato la precedente normativa del
1940. Va precisato che il Vice Comandante Generale porta sulle
spalline tre stellette, ma la terza, bordata di rosso, è
"funzionale" in relazione all'importanza e al prestigio
dell'incarico, non costituisce però un grado a tutti gli
effetti.

 
 
 
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