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Post N° 29

Post n°29 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Rodi, in fondo al
mediterraneo



Un gruppo di soldati italiani
in una luminosa isoletta dell'Egeo dentro una linda caserma tirata
a calce. Fiori e piccoli orti ingentiliscono il piccolo edificio
militare. Potrebbe essere una scena del film "Mediterraneo" di
Gabriele Salvatores, se non fosse per il fatto che questi uomini
portano sul berretto la caratteristica fiamma dell'Arma.


il plotone mitraglieri ciclisti. I pezzi pesanti sono su moto, i leggeri sono a spalla.Rodi ed altre
isole minori del Dodecanneso erano state occupate nel lontano
1912 dall'Italia per premere sul governo ottomano in modo da
concludere alla scelta la guerra in Libia. Doveva essere
un'occupazione provvisoria, ma che secondo la bizzarra legge
della provvisorietà finì per diventare permanente.


Il trattato di Parigi del 1920 aveva
previsto che le isole fossero consegnate alla Grecia, ma l'Italia
aveva nel marzo 1921 occupato anche l'isola di Castelrosso.

I Carabinieri, prevedendo lo sganciamento italiano da quei
possedimenti, avevano prudenzialmente creato un corpo autonomo di
polizia, denominato Corpo dei Carabinieri di Rodi e Castelrosso.
Questo corpo era prevalentemente formato da elementi locali, spesso
di origine ortodossa, inquadrati da sottufficiali italiani agli
ordini di un tenente.


carabiniere ciclista di Rodi in uniforme di servizio (tavola di Giorgio Cantelli).Il corpo rimase
in vita per un anno appena: la guerra in Anatolia aveva
spezzato la potenza greca in Asia minore e le isole rimasero
italiane. A questo punto tornò a funzionare a pieno organico
la compagnia dei CCRR dell'Egeo.


Si trattava di un compito faticoso.
Scrisse nelle sue memorie il capitano Guido Grassini "C'è lavoro
per tutti nelle caserme dei Carabinieri dell'Egeo, come del resto
anche in quelle d'Italia. Ma laggiù, a differenza che nel Regno,
tutto si assomma e si conclude nell'opera dei carabiniere: dal
servizio d'istituto vero e proprio ad un'infinità di altre mansioni
che fanno dei nostri militari i maestri d'italiano, gli ufficiali
postali, doganali e marittimi, i giudici conciliatori, i notai, i
consiglieri e i protettori della popolazione indigena. E' una
processione continua di popolani, di ogni età e di ogni sesso, che
si recano alla caserma per avere aiuto, assistenza, consiglio".






Approfondimento:Nasce il museo


Che cosa è
un'istituzione senza i suoi ricordi e l'orgoglio delle tradizioni?
L'idea di creare un corpus di documenti e di cimeli significativi
dell'Arma era già stata formulata nel 1908 dal capitano Vittorio
Gorini, in servizio presso il Comando Generale, ma le emergenze che
i Carabinieri erano stati chiamati a fronteggiare (non ultima la
Grande Guerra) avevano logicamente rinviato l'attuazione del
progetto. Generali illustri e stimati come Carlo Petitti di Roreto
e Ruggero Denicotti ebbero il merito di tener viva l'idea, avviando
una prima raccolta provvisoria di pezzi storici.


Discreti e solerti soldati
continuarono la loro paziente opera fino al 1925 quando il Museo
Storico dell'Arma fu costituito come ente morale con un decreto
legge (3 dicembre). La sistemazione finale ebbe luogo con la
solenne inaugurazione del 6 giugno 1938 alla presenza di Vittorio
Emanuele III. Da allora il museo è la casa delle memorie di tutti i
Carabinieri, in cui ogni oggetto offre un conforto e un aiuto a
superare le difficoltà presenti e rappresenta un tacito monito a
eguagliare la dignità e la gloria dei predecessori. Il cuore del
museo è costituito da un sacrario. Una luce arde perenne e
rischiara un laconico, pesante motto: "Obbedimmo".

 
 
 

Post N° 28

Post n°28 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Verso l'impero



Il panorama politico
europeo e mondiale si modifica profondamente nel 1933 con l'avvento
al potere del capo del Partito Nazionalsocialista, dal quale
dipenderà pochi anni dopo lo scoppio della II Guerra
Mondiale





Nella primavera dei 1936 la guerra d'Etiopia è alla sua svolta
decisiva, anche se la resistenza incontrata si rivela superiore
alle previsioni della vigilia. Nel conflitto perderanno la vita
oltre 200 carabinieri Ogaden: per molti è un nome difficile da
localizzare su una carta geografica. Chi ricorda ancora che
nell'Ogaden fu combattuta (nel 1977, non cent'anni fa) una delle
più sanguinose guerre convenzionali del Corno d'Africa, quando la
Somalia sotto il dittatore Siad Barre truppe di Ras Nassibur attaccate dai carri armati italiani sulle rive del fiume Gorrah, sul fronte somalo-etiopico.tentò, con
motivazioni nazionalistiche, di strappare quell'arida regione
all'Etiopia?

Fu allora che i sovietici, ricorrendo a un imponente ponte aereo,
si precipitarono in aiuto del vacillante regime del negus rosso
Menghistu Hailé Mariam e nel giro di un anno cacciarono i somali
dalle posizioni conquistate, sconfiggendoli nella battaglia di
Diredaua e Giggiga.


Anche in quell'occasione si verificò
l'impressionante forza d'urto della moderna tecnica militare contro
eserciti piuttosto raccogliticci. Giggiga é entrata nella storia
militare come una delle più ardite operazioni aeromobili condotte
dai sovietici. Passata la breve fiammata della guerra, l'Ogaden è
precipitato di nuovo nell'oblio.


A GIGGIGA VIA GUNU GADU.
Eppure quelle assolate pietraie, seminate di arbusti induriti da
mille lotte contro la siccità, ricordavano altri eserciti ed altri
soldati, diversi dai pallidi russi e dagli agili cubani.

Avvolte le gambe nelle loro caratteristiche mollettiere, coperti
dall'inconfondibile casco coloniale, quasi sessant'anni fa
avanzavano lungo quelle strade le armate dell'Italia fascista alla
conquista di un "posto al sole" in Etiopia.


Le operazioni di guerra erano già in
corso quando a Roma si decise la costituzione di quattro bande
autocarrate di carabinieri, incaricate di puntare verso l'Ogaden.
Le bande erano formazioni di fanteria leggera a livello
battaglione/reggimento articolate su un plotone comando e due
compagnie per un totale di mille uomini ciascuna.

Vittorio Emanuele III si recò personalmente a salutare le quattro
formazioni alla scuola allievi dei Carabinieri, prima del
trasferimento a Napoli. Una foto dell'epoca mostra schierati in
bell'ondine i militi dietro i quali campeggia il motto "Nei secoli
fedele". Li attendeva una lunga navigazione sul piroscafo Sannio.
La prima tappa era prevista a Suez, nonostante il rischio di una
chiusura del canale da parte degli inglesi che lo tenevano sotto
controllo.


i resti degli eserciti di ras Cassa e ras Sejum si arrendono a Tembien nel marzo dei 1936.Il porto fissato
per lo sbarco era quello di Obbia, nella regione della
Migiurtinia. Il generale Rodolfo Graziani, responsabile di
quel settore operativo, si era incaricato di attrezzare al
meglio quello scalo perché assolvesse la funzione di base
logistica. Tuttavia uomini e materiali furono sbarcati, il 10
marzo, a un miglio dalla costa a causa del pescaggio eccessivo
della nave. Venti giorni dopo arrivarono anche gli automezzi e
le quattro bande furono a quel punto pronte ad aggregarsi alla
colonna Agostini presso la zona di concentramento di Rocca
Littorio (250 chilometri nell'entroterra migiurtino).


La cosiddetta seconda battaglia
dell'Ogaden prevedeva l'avanzata per linee parallele di tre colonne
(Nasi, Frusci, Agostini), con il compito di convergere sul nodo
strategico di Dagabur per poi avanzare sui passi di Giggiga e
sull'importante città di Harar. L'obiettivo operativo era di
frustrare un ritorno offensivo abissino guidato dal degiac Nasibù
Michael, favorito in febbraio dall'iniziativa del suo sottoposto,
il fitaurari Abatè Tafari, che era riuscito, dopo un aspro
combattimento, a eliminare il presidio di una sessantina di dubat a
Curari, permettendo la creazione di una buona base offensiva per la
riconquista dell'Ogaden.


La colonna Agostini era composta,
oltre che dalle quattro bande autocarrate, dal gruppo bande di
ausiliari coloniali dubat (agli ordini del tenente colonnello
alpino Camillo Bechis), da una coorte della milizia forestale con
annessa batteria di artiglieria campale da 65 mm e da una batteria
da 70 mm.


ufficiali dei Carabinieri delle bande autocarrate impegnati nello studio dei terreno prima della battaglia di Gunu Gadu (aprile 1936).La marcia ebbe
inizio il 16 aprile 1936, ma il primo contatto con il nemico
non avvenne prima del giorno 23, in quanto le forze abissine
sembravano completamente sparite dalla circolazione.

Questa volta i difensori abissini avevano deciso di non rischiare
una pericolosa battaglia di movimento contro forze meglio
equipaggiate, e si erano attestate nella zona Bullaleh-Sassabaneh.
Il punto forte del loro schieramento era rappresentato dalla
località di Gunu Gadu, per l'occasione potentemente
fortificata.


Gli italiani erano perfettamente
informati sulla localizzazione del nemico e si prepararono a una
classica manovra di aggiramento in modo da procedere alla riduzione
del centro di resistenza. Il punto di riferimento scelto per la
manovra era un camioncino del raggruppamento bande dubat. Rispetto
ad esso le bande del tenente colonnello Bechis dovevano spiegarsi
sulla sinistra in modo da avvolgere un lato delle postazioni
avversarie e avvicinarsi ad esse. La seconda banda dei Carabinieri
dovevi invece raggiungere il camioncino ed allargarsi ancora più a
sinistra per proteggere i fianchi delle bande dubat ed occupare
posizioni sul torrente Giarer.


La terza banda, partendo dal famoso
camioncino, doveva costituire la branca destra della tenaglia su
Gunu Gadu, mentre la quarta banda sarebbe rimasta accanto
all'automezzo come riserva insieme alla coorte della milizia
forestale. A circa un chilometro dalla linea di attacco si
sarebbero appostati il comando della colonna Agostini e le due
batterie.


ras Hapte Michael, capo dei Wollo, si arrende al viceré Rodolfo Graziani ad Addis Abeba nel giugno 1936 (Domenica del Corriere).Sulla carta la
manovra era assolutamente ortodossa: anche l'esecuzione si
svolse in modo molto ordinato. Ma l'imprevisto, in ogni
operazione militare, è sempre in agguato, e in quell'occasione
assunse l'aspetto di una guida negligente o infida. La seconda
banda, guidata dal tenente colonnello Citerni, anziché
prendere contatto con il nemico in un terreno favorevole e
coperto per l'aggiramento, si trovò (alle 7 in punto) in una
piana liscia come un tavolo di biliardo e solcata dai tiri
incrociati dei difensori abissini. Il camion di testa prese
subito fuoco. Tutti i carabinieri saltarono velocemente dai
mezzi, organizzando una difesa speditiva in quel posto
pericoloso. Non potevano partire all'attacco perché il
bombardamento era in programma per un'ora e si profilava
dunque il rischio concreto di essere colpiti dai propri
commilitoni. Così, per un'ora circa, rimasero passivi, subendo
un'intensa fucileria, senza aprire il fuoco a loro volta per
conservare preziose cartucce.


Alle 8 del mattino, finalmente, il
rombo degli aeroplani in avvicinamento, seguito dagli scoppi secchi
dei cannoni campali. La boscaglia spinosa fu sconvolta dalle
granate a grande capacità e dalle bombe da 50 chili. Si levarono
colonne di terra, annunciate dal lampo rossastro dell'esplosione,
mentre gli aerei si abbassavano a volo radente per mitragliare ogni
movimento sospetto.


Terminato il bombardamento,
destinato a indebolire le postazioni nemiche, i fanti a terra si
accorsero che la situazione non era affatto mutata. Le fucilate
nemiche non si erano diradate: si erano anzi infittite. Come mai?
Ecco le spiegazioni fornite, a caldo, dagli esperti.


Generale Graziani: "Questi
sbarramenti erano a non grande raggio, la tecnica vi aveva profuso
ogni accorgimento per raggiungere lo scopo. Appostamenti in
caverna, fiancheggiamenti e camminamenti ne facevano dei capisaldi
robustissimi: prendere di viva forza quei passaggi obbligati
sarebbe stata durissima impresa e ci avrebbe attardato".


Generale Frusci: "Le caverne, le
buche, le trincee sono blindate con tronchi d'albero e terra di
riporto e occultate completamente da un mascheramento di ramaglia
che le rende invisibili all'osservazione aerea e anche a quella
terrestre se non portata nelle immediate vicinanze, anche per la
folta vegetazione".


Tenente colonnello De Vecchi
(impegnato in prima linea): "Le buche sono perfette di costruzione
(...). Ognuna di esse è difesa da almeno altre due. Dal piccolo
ingresso e dalle feritoie si osserva un ampio campo di tiro, mentre
è estremamente difficile infilare i piccoli buchi con una fucilata.
Quelle occhiaie cave con il loro sguardo di morte sembrano
irriderci".


la colonna dei generale Geloso si apre la strada nella zona dei Galla e Sidama, nella regione occidentale dell'Etiopia (luglio 1936).Queste
testimonianze dimostrano come gli abissini avessero preparato
un ostacolo assai duro per gli invasori italiani, Non era
certo quello che i combattenti della prima guerra mondiale
avrebbero chiamato una linea fortificata, anche se aveva
ricevuto dai comandanti etiopici l'orgoglioso nome di linea
Hindenburg, il famoso maresciallo tedesco della Grande Guerra.
Niente filo spinato e paletti d'acciaio, niente cupole
corazzate o piazzole d'artiglieria, ma funzionò in modo
egregio. Merito di alcuni consiglieri militari belgi e
soprattutto di un turco che aveva già avuto modo di conoscere
gli italiani dall'altra parte della barricata. Consigliere
militare di ras Immirù, Wehib Pascià aveva combattuto prima
nella guerra di Libia del 1911-1912 e poi nella guerra di
rinascita nazionale turca (1920-1922). In entrambi i casi
aveva imparato la difficile arte dell'arrangiarsi con forze e
mezzi insufficienti.


Specialmente nelle complicate
operazioni sull'altopiano anatolico contro i greci, Wehib aveva
appreso l'arte militare da grandi comandanti turchi come Ismet
Pascià e dal generalissimo Mustafa Kemal. Wehib non aveva
l'autorità per far approvare piani strategici di grande portata,
specie con un esercito largamente feudale come quello abissino, ma
aveva dedicato un anno di lavori intensi a quella linea. Ne risultò
un dispositivo difensivo rustico, edificato con materiali facili da
reperire e che valorizzava al meglio le capacità difensive del
terreno e dei combattenti. Qualcosa di simile alle tanto temute
fortificazioni campali dei vietcong nel lungo conflitto del
Vietnam.


EROI ALL'ASSALTO. Come agli
americani in quel lontano fronte, ai carabinieri ed ai dubat non
restò che prendere di petto il problema.


Se si è particolarmente ben
equipaggiati si può scegliere tra diverse soluzioni. Un carro
armato può, per esempio, centrare con il tiro diretto le feritoie
nemiche; oppure il tricolore sventola sul castello di Gondar al termine della campagna d'Etiopia (illustrazione della Domenica del Corriere).l'artiglieria
può formare una cortina fumogena per favorire l'avvicinamento
dei fanti; o, ancora, si possono formare speciali squadre
d'assalto con genieri dotati di cariche esplosive e
lanciafiamme, armi utili e tremende in queste situazioni.
Altrimenti si deve agire con il coraggio e la perizia dei
fanti, sfruttando al massimo la copertura delle
mitragliatrici, balzando da un magro riparo all'altro e
lanciando un gran numero di bombe a mano. Il momento peggiore
si presenta quando pochi metri separano l'attaccante dal
caposaldo nemico. Dietro quelle feritoie si nasconde un gruppo
di uomini decisi a vendere cara la pelle, vincendo la paura di
fare la fine del topo. Davanti alle finestrelle compaiono
soldati protetti solo dalla loro divisa. Pochi attimi dopo, o
davanti al nido di fucilieri giacciono i corpi degli
attaccanti o al chiuso si scatena l'inferno.


La prima banda di Carabinieri Reali,
appoggiata dalla seconda, riuscii a raggiungere il margine della
fitta boscaglia di Gurru Gadu. Dalle cavernette, spesso ricavate
tra le radici di alberi secolari, gli etiopici scatenarono un fuoco
micidiale; il generale Agostini lanciò la riserva con la quarta
banda dei Carabinieri.


Appena la riserva si mosse, le
pallottole abissine fecero un morto e cinque feriti. La seconda
banda si preparò alla dura opera di rastrellamento delle posizioni
avversarie lungo il greto del torrente Giarer. Ogni feritoia era
pronta a vomitare morte da tutti i lati, ogni tana venne sconvolta
dalla furia dell'irruzione.


Fu sulla destra dello schieramento
che la battaglia infuriò in misura maggiore e la quarta banda si
precipitò in soccorso su quel versante. Nonostante le perdite,
grazie all'eccellente addestramento ricevuto in precedenza, i
carabinieri manovravano senza problemi.


Il re imperatore e il fondatore dell'imperoSi moltiplicarono gli atti di eroismo. Il capitano dei Carabinieri Bonsignore, ferito al fianco, rifiutò ogni soccorso e, con le ultime energie spinse la sua compagnia nel terribile e vittorioso assalto. Cadde il capitano Passerini, dopo aver distrutto due fortini, colpito alla bocca, all'inguine e alla gamba sinistra. Ne seguirono la sorte un vicebrigadiere e sei carabinieri, mentre un ufficiale, tre sottufficiali e otto militi se la cavarono con gravi ferite durante una violenta azione lungo il torrente Giarer.

Un grande esempio di valore fu offerto dal carabiniere Vittoriano Cimmarrusti, ferito una prima volta (e in modo grave) al braccio sinistro, decise di rientrare in prima linea appena medicato. L'ufficiale medico cercò di dissuaderlo: Cimmarrusti tornò a combattere con il braccio al collo. Durante una puntata offensiva nemica, si trova a fronteggiare da solo numerosi assalitori. Per cinquantatre volte la mano destra armò rabbiosamente l'otturatore del fedele moschetto '91, tenendo a bada i nemici. Finite le cartucce, passò alle bombe a mano. Ma altre due pallottole stroncarono la sua eroica resistenza. Gli fu conferita la medaglia d'oro alla memoria.

Un destino identico, ma ancor più doloroso, toccò al bergamasco Mario Ghisleni. Anche lui fu ferito alla gamba sinistra durante la battaglia di Gunu Gadu, ma proseguì il combattimento incoraggiando i compagni. Pagò il suo valore con un'agonia lunga un mese; la morte lo colse sulla nave ospedale Gradisca durante il viaggio di ritorno. Ebbe anche lui la medaglia d'oro.

il Vangelo del soldato (edizione del 1936).All'astuzia e al coraggio epico dei difensori abissini, gli italiani contrapposero la loro impetuosa aggressività e la tipica ingegnosità latina. Nuclei di tiratori scelti furono incaricati di puntare le feritoie nemiche: un paziente ricamo di tiri crudeli per fare abbassare la testa ai difensori. Nel frattempo sciami di assaltatori ammucchiarono fascine e legna secca all'imbocco delle caverne per appiccare il fuoco e stanare il nemico. Gli abissini non scamparono alle fiamme, all'asfissia e al fuoco di bombe e moschetti. Ma i superstiti continuarono a combattere, allungando i tempi della battaglia. I carabinieri saltavano da un anfratto all'altro, da un fortino all'altro, accompagnati dai dubat, per vincere la resistenza del nemico. Finalmente l'artiglieria campale si spostò in avanti, a stretto contatto con la fanteria avanzante. Inizialmente si era attirata addosso la beffarda fucileria abissina. Ma poi aggiustò il tiro, producendo effetti devastanti sui nidi di mitragliatrici del nemico.

LA GURRIGLIA CONTINUA. Le truppe italiane formarono un quadrato intorno alle posizioni abissine ancora attive impedendo molte sortite a partire dal tramonto e per tutta la notte. La mattina seguente continuò l'opera minuziosa di rastrellamento dalle 8,30 alle 11,30. Gli abissini preferirono farsi uccidere in campo aperto o tentare una fuga disperata, dopo una lotta accanita durata 12 ore nell'arco di due giorni. Alla fine i loro capi furono catturati o si arresero e fu così aperta la strada per il successivo balzo su Bullale e Dagabur. Ventidue appartenenti all'Arma persero la vita nella battaglia.

La notizia dello sfondamento della linea Hindenburg demoralizzò talmente le forze etiopiche che, nonostante che le posizioni di Bullaleh e Dagabur fossero altrettanto favorevoli alla difesa, le colonne italiane non incontrarono resistenza.

Il 28 aprile 1936 cadde Sassabaneh, quattro giorni dopo fu la volta di Dagabur. Il 5 maggio il tricolore fu issato su Giggiga, testimone di cento scontri, l'8 seguente capitolò Harar e ventiquattr'ore dopo le forze italiane entrarono a Dire Daua. Fu in questa città che avvenne il ricongiungimento delle armate del fronte settentrionale e di quello meridionale della campagna etiopica.

Lo stesso giorno, il 5 maggio, il comandante supremo, il generale Pietro Badoglio, fece il suo ingresso trionfale nella capitale Addis Abeba. Quattro giorni dopo lo sconfitto Negus, Hailé Selassié, parti per l'esilio a Londra. Aveva perso il trono e il suo paese aveva perso un'indipendenza lungamente e gelosamente difesa ma il sovrano continuò ugualmente a coltivare la speranza di tornare in patria. La sua attesa durò sette anni, fino alla caduta del fascismo che si trascinò dietro l'Impero, proclamato il 5 maggio del 1936.

Con la conquista dell'aspra regione del Goggiam la guerra si concluse di fatto verso la fine di maggio, anche se bande di partigiani continuarono a combattere. Brigantaggio e faide tribali aggravarono in seguito il problema dell'ordine pubblico. Nei giorni seguenti alla conquista di Addis Abeba, i carabinieri, al comando del colonnello Azzolino Hazon, arrestarono un numero imponente di criminali: 606 colpevoli di omicidi o ferimenti gravi (su un totale di 651 fatti di sangue denunciati); 825 colpevoli di reati gravi. Altri 477 individui furono denunciati.

SERVIZIO INFORMAZIONI. Il Colonnello Hazon era un Ufficiale particolarmente dotato di spirito organizzativo ed informativo. Per suo impulso venne creato un servizio di informazioni e sicurezza molto efficiente, che permise anche di valutare gli eccessi di brutalità di cui si macchiò l'occupazione fascista.

Durante un'assenza di Hazon dalla capitale, nel febbraio del 1937, il maresciallo Graziani (che era stato nominato viceré della colonia) rischiò di rimanere vittima di un attentato. Due studenti riuscirono ad avvicinare il corteo vicereale durante una grande manifestazione pubblica e a scagliare diverse bombe a mano, che tuttavia non colpirono Graziani.

Nel giugno 1936 l'Arma fermò, in una sola retata ad Addis Abeba, 1.846 sospetti, 154 dei quali furono trattenuti in arresto. Un mese dopo fu fatto l'inventario delle armi sequestrate alle bande ribelli che cercavano di organizzare la resistenza contro gli italiani: erano 300 tra mitragliatrici e fucili mitragliatori, 10.000 fucili e 30 quintali di munizioni.

I sequestri potevano avvenire nelle circostanze più diverse. Molte armi furono rinvenute nelle fascine di legna che venivano vendute al mercato o in depositi clandestini. Più singolare fu l'operazione condotta da un sottufficiale insospettito dal numero esorbitante di congiunti, amici e familiari che accompagnavano un funerale. Il sottufficiale si assunse il delicato compito di fermare il corteo funebre e aprire la bara, dentro la quale trovò, invece del caro estinto, un paio di mitragliatrici. Altre volte i rinvenimenti avvennero sulla base di precise segnalazioni del servizio informazioni immediatamente allestito dall'Arma. E fu, appunto, sulla base di una informativa che la compagnia interna di Addis Abeba si recò al mulino Salvioni con 37 carabinieri, 20 zaptiè e tre mitragliatrici.

La perquisizione di oltre 300 tucul fruttò un cospicuo bottino di armi e munizioni, ma i ribelli della zona non intendevano affitto lasciare ai Carabinieri il controllo della situazione. Sulla via del ritorno gli automezzi finirono sotto il tiro incrociato di almeno 300 resistenti. Il rapporto di forze era spaventoso (5 ribelli per ogni carabiniere) ma i militi riuscirono a ripararsi in un casolare. Otto carabinieri e sette zaptié persero la vita durante l'assedio, prima che sul posto accorresse la 6' centuria dei Carabinieri Reali che riuscì a sgominare i ribelli con una violenta carica alla baionetta.

I viaggi ferroviari costituivano un'altra avventura degna del "Far West: la linea preferita dalle incursioni abissine era senz'altro quella che collegava Addis Abeba con la colonia francese di Gibuti.
Di una di queste "avventure" fu testimone un giornalista, che si affrettò a darne notizia. Una banda partigiana, forte di 500 uomini interruppe la ferrovia in nove punti diversi, nella zona del monte Ierer e tese l'agguato fra le località di Ducam e Ada. Per fortuna dei passeggeri, sul treno si trovavano una trentina di carabinieri della 450ª sezione mobilitata. Nonostante la pesantissima inferiorità numerica, i carabinieri riuscirono a organizzare un quadrato a terra resistendo all'aggressione del nemico. Un autentico miracolo, dovuto alla grande disciplina e alla straordinaria fermezza di quegli uomini, che scrissero un'altra pagina di controverso eroismo coloniale.

Organizzata l'Etiopia in governatorati, l'Arma si costituì con un comando superiore ad Addis Abeba e sei gruppi (Addis Abeba, Gondar, Gimma, Harrar, Asmara e Mogadiscio), ciascuno dei quali formato da quattro compagnie. La struttura era completata da una scuola allievi zaptié. La forza media era di 100 ufficiali, 750 sottufficiali, circa 1.000 tra appuntati e carabinieri, circa 3.500 militari indigeni.

Nel corso della guerra d'Etiopia 208 carabinieri persero la vita e 800 furono feriti. Ai militi dell'Arma furono concesse 4 medaglie d'oro, 49 d'argento, 108 di bronzo, 435 croci di guerra. La bandiera venne insignita della croce di cavaliere dell'Ordine militare d'Italia.

 
 
 

Post N° 27

Post n°27 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


In Etiopia e in
Spagna


Premessa



Nel 1936 e nel 1937 si
svolgono le prove generali della Seconda Guerra Mondiale. Le truppe
italiane sono ancora impegnate nella guerra coloniale nell'Africa
Orientale quando divampa in Spagna la guerra civile.



La natura stessa del conflitto che esplode nella penisola iberica
fa sì che si creino in esso schieramenti ideologici contrapposti:
Germania nazista e Italia fascista al fianco delle falangi di
Francisco Franco, volontari di mezza Europa accanto ai
repubblicani, destinati a essere sconfitti. Si capisce, fin da
allora, quale sarà la posta in gioco in una eventuale guerra
totale, che appare truppe tedesche sfilano a Vienna dopo l'Anschluss nel marzo 1938 (Domenica del Corriere).tuttavia remota,
se non addirittura immaginaria, frutto degli incubi di qualche
intellettuale menagramo.



La diplomazia mondiale si dà molto
da fare ed è persuasa di riuscire a tenere sotto controllo la
prepotenza hitleriana e i sogni espansionistici mussoliniani:
l'Impero è quasi una realtà, in virtù della campagna d'Africa. e
tanto dovrebbe bastare a rafforzare il regime fascista.



Illusioni, naturalmente, come si verificherà nel 1939. Poco,
pochissimo tempo dopo. Ma non soltanto illusioni: anche errori. La
guerra civile di Spagna, così come la guerra d'Etiopia, è stata una
prova generale le democrazie europee hanno mostrato la loro
debolezza nei confronti dei fascismi, che non sono stati frenati a
tempo e che hanno ritenuto di poter realizzare le loro
ambizioni.



Monaco sarà l'ultimo errore, l'ultima manifestazione di
arrendevolezza. Che renderà ineluttabile la Grande Tragedia
Mondiale.


 
 
 

Post N° 26

Post n°26 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete

SOGNI DI
GLORIA.
Nell'autunno del 1935 il dispositivo italiano
conta in Eritrea 110.000 italiani e 53.000 indigeni, 35.000
quadrupedi, 4.200 mitragliatrici, 580 cannoni, 112 carri
armati, 3.700 automezzi e 126 aerei; in Somalia le forze sono
inferiori: 24.000 italiani e 30.000 indigeni, 8.000
quadrupedi, 1.600 mitragliatrici, 117 cannoni, 45 carri
armati, 1.850 automezzi e 38 aerei. Pronti per l'ultima guerra
coloniale del XX secolo.

A fronteggiare l'aggressione
fascista sono mobilitabili non meno di 300.000 soldati etiopici, ma
non sono inquadrati in moderne unità. E' ancora un esercito di tipo
feudale, praticamente lo stesso che ha sconfitto Baratieri ad Adua
nel 1896. Hailé Selassié, vista l'imminenza della guerra, ha fatto
ricorso al mercato internazionale degli armamenti acquistando (da
ditte cecoslovacche, danesi, francesi e svizzere) 16.000 fucili,
600 mitragliatrici, alcuni pezzi d'artiglieria (soprattutto
contraerea) e 10 milioni di cartucce. Una goccia rispetto agli
imponenti mezzi messi in campo da Mussolini. Certo le truppe sono
motivatissime e conoscono bene il terreno, possono anche disporre
di micidiali pallottole esplosive dum-dum, vietate dalla
convenzione di Ginevra, ma tutto questo non varrà a niente quando
gli italiani ricorreranno ai non meno vietati gas asfissianti.
Centinaia di combattenti abissini verranno sfigurati dall'iprite
lanciata dall'aeronautica fascista.


Il 2 ottobre 1935 scatta l'attacco
con l'attraversamento del confine segnato dal fiume Mareb. La
Società delle Nazioni, già minata nella credibilità da numerosi
scacchi internazionali, non può che condannare l'aggressione e il
18 novembre vota dure sanzioni economiche.


il generale Pietro Badoglio, comandante delle forze in Africa Orientale.Carbone e
petrolio non figurano nella lista degli articoli embargati e
l'URSS non si fa pregare nel rispettare il suo trattato
economico con l'Italia fornendo spregiudicatamente le materie
prime necessarie alla guerra imperialista; la marina
mercantile degli Stati Uniti non è vincolata giuridicamente
dalla decisione dell'organismo internazionale e la Germania
ignora l'embargo.


Mussolini organizza imponenti
manifestazioni contro le sanzioni dipingendo ai suoi sudditi
un'Italia ingiustamente strangolata dalle nazioni plutocratiche.
Viene proclamata l'autarchia economica per ridurre la dipendenza
dalle importazioni, con il ricorso a surrogati di ogni genere (per
esempio, lana di caseina e caffè di cicoria) e al riciclaggio di
tutti i rottami metallici.

Il culmine dell'esaltazione di massa viene raggiunto con la
pubblica raccolta delle fedi nuziali per sostenere le riserve auree
della nazione.


L'ondata di nazionalismo acceca
anche dissidenti come Vittorio Emanuele Orlando, Arturo Labriola,
Benedetto Croce e Luigi Albertini,La Chiesa cattolica, pur
trattandosi di una guerra contro cristiani copti scatenata da un
dittatore proclamatosi per l'occasione difensore dell'Islam,
sceglie un diplomatico silenzio. In un disperato e indecente sforzo
di evitare la guerra nel dicembre 1936 viene presentato il piano
Hoare-Laval che consiste nel cedere all'Italia gran parte
dell'Etiopia (Ogaden, Tigrai, Dancalia), conservando l'indipendenza
al resto del Paese. E' nel continente nero che si svolge la prova
generale del vergognoso accordo di Monaco a spese della
Cecoslovacchia, ma nessuno se ne accorge. Eppure l'Italia virile
vuole una gloriosa guerra contro i barbari abissini.


aerei italiani bombardano le truppe abissine.Hitler non
partecipa alla grande finzione. Esporta merci embargate verso
Roma. mostra di dimenticare le divergenze con Mussolini
sull'Austria e si prepara ad incassare il suo credito. Il 7
marzo 1936 tre miseri battaglioni tedeschi rimilitarizzano la
Renania senza colpo ferire. Francia e Gran Bretagna non si
avvedono che è stato così scardinato l'intero equilibrio
europeo.


Tre corpi d'armata dall'Eritrea
penetrano vigorosamente in terra abissina. Il primo ha come
obiettivo Adigrat, il secondo Entisciò e il terzo puntò
direttamente su Adua. Il 5 ottobre cade Adua e l'8 novembre viene
presa Makallè. L'emozione in Italia è grande e per l'occasione
viene lanciata la canzone "Adua è liberata". I carabinieri
penetrano in queste città insieme ai reparti dell'84° e del 60°
reggimento fanteria.


Contemporaneamente dalla Somalia
avanza su due direttrici (Dolo, Filtù, Neghelli, Madarà da un lato
e Scebeli, Ogaden, Harar, Dire Daua dall'altro) il corpo d'armata
misto agli ordini di Rodolfo Graziani, il pacificatore della Libia.
Alla fine di novembre De Bene viene opportunamente promosso per far
posto a un professionista della guerra come il generale Pietro
Badoglio, I Carabinieri Reali sono coinvolti presto in aspri
combattimenti. Il 15 dicembre l'armata abissina, al comando del
valoroso ras Immirù, tenta una manovra per attaccare l'Eritrea
guadando il fiume Tacazzè e risalendo verso la zona di Selaclacà.
In zona sono state costituite da poco quattro bande di irregolari
agli ordini del maggiore dei Carabinieri Giuseppe Contadini. Una di
queste, la banda Cohain (denominazione ricevuta dalla zona di
reclutamento) guidata dal carabiniere Domenico Palazzo e al comando
del brigadiere Silvio Meloni riceve l'ordine di effettuare una
ricognizione insieme al 27° battaglione eritreo nella zona di Adì
Chiltè o Adì Abò. Vengono affrontati da superiori forze abissine
alle quali tengono testa per otto ore, fino a quando i superstiti
riescono a rompere l'accerchiamento.


il carabiniere Vittoriano Cimmarrusti, medaglia d'oro a Gunu Gadu.Meloni e Palazzo
vengono feriti e catturati, ma mantengono un comportamento
dignitoso e valoroso che impone il rispetto ai vincitori,
meritando la medaglia d'argento. Il brigadiere Giovanni
Amorelli cade solo dopo essere stato ferito tre volte nel
generoso tentativo di riannodare i contatti con il battaglione
eritreo, mentre il suo collega Angelo Alaimo cade alla testa
dei suoi irregolari mentre si lancia al contrattacco (due
medaglie d'argento alla memoria).


Anche gli indigeni si comportano con
grande valore. Il bilancio delle perdite è di 28 fra morti e
dispersi e 19 feriti. Non vi sono medaglie per loro in questa
sfortunata azione.


BATTAGLIA PER IL PASSO
UARIEU.
Vista stroncata l'offensiva contro l'Eritrea, gli
abissini si asserragliano nell'aspra regione del Tembien agli
ordini dei ras Cassa e Semin e del degiac Mulughietà. Sono in
20.000, occupano posizioni favorevoli e hanno giurato di tenere
fino all'ultimo la zona, feudo personale del ras Seium. Tra di loro
vi sono moltissimi combattenti scioani ed amhara, giustamente
famosi per il loro valore, ritenuti invincibili dalle truppe di
colore degli invasori. Poiché conoscono perfettamente la regione e
godono di una buona mobilità tattica, gli abissini non hanno alcuna
intenzione di resistere passivamente, ma mirano a infiltrarsi nella
regione tra Makallè e Adua per colpire il fianco italiano. Badoglio
previene la manovra attaccando per primo a Zaban Chercatà il 20
gennaio 1936, ma gli abissini sferrano un attacco poderoso contro
il passo Uarieu, la porta del Tembien. Per quattro giorni la
situazione è critica fino a quando l'aeronautica e rinforzi del 24°
battaglione eritreo non spezzano l'assedio. Alla resistenza
vittoriosa partecipano le sezioni 302ª, 312ª e 391ª a cavallo dei
carabinieri.


Dal diario del capitano Aldo
Pucciani, capitano della 391ª sezione a cavallo: «Ore 9,45 ( ... )
Una frazione nemica, evitata la colonna eritrea attaccante, ci
sbarra il passo. Il comando di corpo d'armata prende posizione su
un'amba mentre noi carabinieri e zaptié ci schieriamo in formazione
di combattimento a fondo valle, dove il terreno permette l'uso del
cavallo. Si accende la battaglia. Gli abissini, oltre 2.000,
asserragliati nel paese di Mekenò, aprono un fuoco micidiale con
pallottole esplosive e si lanciano quindi in puntate offensive,
specialmente sulla destra attraverso il letto del torrente Aini,
allo scopo di effettuare l'avvolgimento delle salmerie e del
comando. ( ... ) I carabinieri a cavallo, con celere manovra, si
spiegano per proteggere la posizione tenendosi pronti alla carica
qualora il nemico si presenti nella breve spianata, mentre una
squadra, col comandante la sezione, forte di 20 cavalieri e armata
di mitragliatrici, si lancia verso il burrone. Gli abissini aprono
un fuoco intenso, ma i cavalieri, superato il terreno battuto dalle
raffiche avversarie, raggiungono di balzo il ciglio del burrone,
dove regolari in tenuta kaki e amhara in futa, armati di lunghi
kuradè (scimitarre), si scagliano furibondi all'attacco. I nostri,
però, li affrontano imperterriti».


E una guerra che, nell'orrore,
rivela aspetti fantastici e fiabeschi. Insieme al crepitio delle
armi automatiche e agli scoppi delle dum-dum, i sensi sono
frastornati dal balenare delle baionette e delle scimitarre.
Rotolano a terra fregi tribali di piume ed elmetti coloniali color
kaki. Da una parte squillano le trombe alla carica, dall'altra
risponde l'acuto suono del negarit abissino.


Un anonimo degiac dalla barbetta a
pizzo, in sella a un muletto bianco, mentre esorta i suoi amhara
all'attacco, viene disarcionato da una pallottola vagante. Il caldo
è insopportabile e non tira un alito di vento, ma la spietata
fatica della battaglia non arresta l'ardore degli uomini. Sono
passate quasi 6 ore e i contendenti sono ancora avvinghiati in un
stretta mortale intorno alle salmerie.


combattimento fra le truppe italiane e la guardia imperiale etiopica a Mai Ceu.«Sono le 15: il
capitano dell'Arma, presi gli ordini dal comandante il corpo
d'armata, organizza un reparto d'assalto: carabinieri e zaptié
con mitragliatrici leggere, preceduti e guidati
dall'ufficiale, si lanciano in avanti, divorano il breve
pianoro, si accrescono dei valorosi difensori del burrone e
piombano sulla sinistra nemica. La lotta si ravviva
accanitamente in un corpo a corpo furibonda ove gli abissini
rivelano tutto il loro istinto sanguinario e guerriero».


Il diario del capitano Pucciani, nel
sobrio pudore dello stile militare, non spiega che cosa sia un
corpo a corpo. Come in una rissa improvvisa i colpi grandinano da
ogni parte, budella fuoriescono dalla voragine creata da una
baionettata, una sciabola trancia un braccio, le ossa scricchiolano
per il fendente del calcio di un fucile. Ovunque urla di terrore,
ferocia e morte, che coprono il rantolo dei moribondi e l'ansimare
di chi è ancora vivo.


Alla fine sotto le scariche
implacabili dei carabinieri, gli abissini ondeggiano e si danno
alla fuga. Quattro medaglie e undici croci al valore sono la
testimonianza del prezzo del valore pagato dai carabinieri e dagli
zaptié in quella sanguinosa e terribile giornata. Sul campo restano
i corpi di 400 etiopi.


Ma la guerra non è soltanto sangue e
coraggio: è anche sudore e olio di gomiti. La vastità e la natura
selvaggia del teatro di guerra richiedono un'intendenza capace di
mantenere le sue promesse di efficiente supporto logistico per le
truppe di prima linea. I carabinieri sono lì, nelle retrovie, per
proteggere il flusso vitale e vulnerabile dei rifornimenti dalle
frequenti infiltrazioni nemiche, mantenere l'ordine e raccogliere
informazioni, Sorge così il comando Carabinieri d'intendenza e
l'ispettorato delle retrovie con undici sezioni.


Dalla seconda metà del maggio 1935
l'opera infaticabile di questi organizzatori si rivela
determinante. C'è tanto da fare: disciplinare le operazioni di
scarico a Massaua; sorvegliare la manovalanza indigena e
metropolitana; custodire magazzini e ammassi; dirigere e regolare
in senso alterno le autocolonne sulla congestionatissima
Massaia-Asmara; proteggere la linea ferroviaria dell'Asmara;
controllare gli operai in afflusso dalla madre patria e contribuire
alla formazione della rete di servizi di polizia militare nella
colonia.


Soprattutto la disciplina dei
movimenti si rivela un compito faticoso. e ingrato non solo perché
bisogna operare lontani dai propri reparti e spesso senza un
adeguato cambio tra un ciclo ed un altro, ma perché bisogna
mantenersi fermi e cortesi per far rispettare le regole della
circolazione a tutti, anche a chi pretende un trattamento diverso,
accampando urgenze particolari. Il risultato di questo lavoro
oscuro, ma determinante, è rappresentato dal movimento regolare
lungo le arterie logistiche, senza quegli ingorghi da incubo che
costano tempo, ritardi e, in definitiva, vite umane al fronte.


carabinieri mitraglieri impegnati nell'avanzata sull'Adì Abá.A volte si
verificano anche gli imprevisti come, per esempio, quando in
un nucleo di carabinieri dell'intendenza viene a conoscenza di
un'infiltrazione di un forte gruppo di abissini comandati da
un casmagnac di ras Seium. La marcia fino alla zona di Enda
Medani Alem è estremamente dura, il terreno sconosciuto ed
insidioso, ma la tenacia viene ricompensata. Dopo un'ora di
combattimento gli abissini sono volti in fuga ed il loro
casmagnac catturato. A due prodi sottufficiali e a un milite
dell'Arma viene conferita la medaglia al valore sul campo.


Se sul fronte settentrionale le
operazioni non sono facili, a sud (sul fronte somalo) il semplice
fatto di eseguire una comune avanzata è, di per sé, un'impresa
eroica. Le zone di sbarco delle truppe sono lontane dal confine
somalo-etiopico e ancor più lontani sono gli obiettivi
dell'avanzata.


Il generale Graziani, quando si
rende conto di avere a disposizione appena un centinaio di mezzi,
si impegna in un serio sforzo di lobby burocratico-militare.
All'apertura delle ostilità gli automezzi sono diventati 1.800, ma
Graziani sa che deve battere il ferro finché è caldo e ai primi del
1936 totalizza 3.400 veicoli, che cresceranno ancora fino alla
ragguardevole somma di 5.300 mezzi. Se la Fiat non riesce a fornire
gli automezzi nella quantità richiesta, Graziani (dimenticando le
regole dell'autarchia) ricorre ai mezzi delle americane Dodge e
Ford, che costituiscono gran parte del suo autoparco. Il generale
si dà anche da fare per avere unità adatte a combattere su un
fronte cosi duro, sollecitando oltre alla divisione Peloritana
anche l'invio della divisione coloniale Libia e di bande
autocarrate di carabinieri.


I suoi avversari non sono da
sottovalutare. Essi dispongono nella zona di truppe relativamente
ben inquadrate e ben addestrate, agli ordini di comandanti
piuttosto giovani, quindi pieni di ardore e di iniziativa, e
affiancati da consiglieri militari stranieri. La figura di
comandante di maggior spicco è il ras Destà Damtù, che ha una
quarantina d'anni, è un personaggio di primo piano nell'impero
etiopico, buon conoscitore dell'Europa e delle sue complesse
questioni. Anche l'Italia non gli è sconosciuta perché ha
partecipato a una missione diplomatica con il ras Maconnen e ha
visitato anche l'Asmara.


Nella sua opera di comando è
affiancato dal suo coetaneo degiac Nasibù Zamanuel, che ha
ricoperto l'incarico di console all'Asmara e per qualche tempo è
stato addetto alla missione etiopica a Roma. Esponente di spicco
del movimento nazionalista dei Giovani Etiopi, conosce molto bene
le lingue italiana e francese.


le truppe in Eritrea di ritorno dagli estremi confini dell'Impero (Domenica del Corriere).La primissima
operazione effettuata dagli italiani in Somalia ha luogo ai
primi di novembre e consiste in un'offensiva di rettifica del
fronte nell'Ogaden per conquistare migliori posizioni
d'attacco. Cadono le località strategiche di Goharrei,
Gabredarre e Hamanlei, nomi che torneranno quando si
svilupperà lo sforzo offensivo finale delle truppe italiane
con alla testa proprio i Carabinieri.


Nel gennaio 1936 si svolge la
battaglia di Ganale Doria, una ben coordinata puntata offensiva nel
settore ovest del fronte somalo. La colonna centrale, agli ordini
del colonnello Martini, si scontra con la disperata resistenza
delle truppe etiopiche lungo l'importante camionabile che congiunge
Dolo a Neghelli. All'uadi Dei Dei gli etiopici riescono a tenere in
scacco per due lunghi giorni la colonna Martini e solo dopo
combattimenti furiosi le truppe di ras Destà vengono volte in
rotta. Anche se la via per Neghelli è aperta, continuano feroci
scontri sino alla fine, quando le truppe italiane sconfiggono
definitivamente il nemico catturando un enorme bottino di armi,
munizioni e vettovaglie.


Subito dopo, il 28 gennaio, si apre
la seconda fase delle operazioni che vede il generale Bergonzoli
impegnato in operazioni di grande polizia, cioè di lotta
antiguerriglia, lungo la direttrice di Mega. La colonna autocarrata
è composta da una squadriglia di autoblindo, un gruppo squadroni a
cavallo e un battaglione di ascari somali. La colonna ha già alle
spalle sei combattimenti in quattro giorni su strade che le memorie
ufficiali non esitano a definire di carattere biblico. L'obiettivo
dei pozzi di Ueb è faticosamente raggiunto a circa sessanta
chilometri da Mega e la colonna è pronta secondo gli ordini
ricevuti a rientrare finalmente alle linee di partenza. Per inciso,
è interessante notare che la direttrice operativa è stata coperta
con una media di 10 chilometri al giorno, un segno evidente delle
asperità del terreno e del peso dei combattimenti.


Gli abissini hanno in serbo un colpo
di coda per gli invasori. Sulla via del ritorno, in una zona
particolarmente accidentata, scatta un'imboscata che falcia con il
fuoco gli elementi avanzati dei plotoni dell'Aosta. Alla testa del
reparto, il capitano De Rege si rende subito conto della minaccia
di un'infiltrazione avvolgente dei guerriglieri etiopi e non esita
a superare le posizioni avversarie per scongiurare
l'accerchiamento. Il tiro preciso degli abissini e la loro velocità
di movimento lo falciano alle spalle durante uno scontro selvaggio
e disperato. E' un momento critico. Il brigadiere Salvatore
Pietrocola capisce che deve compiere un gesto che sia d'esempio per
i commilitoni. Si slancia in una corsa folle verso il nemico,
supera le sue stesse pattuglie avanzate, combattendo in preda ad un
furore primordiale. Una pallottola gli spezza una gamba, un'altra
gli perfora il torace, eppure il brigadiere riesce ancora a
lanciare le sue bombe a mano contro il nemico, per cadere poi a
terra accanto al corpo del suo comandante.


Il generale Bergonzoli, testimone
della scena, propone la medaglia d'oro per l'eroico brigadiere.


La guerra non è ancora finita e i
Carabinieri scriveranno altre pagine di valore in questa guerra pur
ingiusta e sciagurata. Fedeli alla consegna, non sanno che non sarà
l'ultima e molti di loro faranno appena a tempo ad abbracciare i
loro cari prima di partire di nuovo per le aride terre della
Spagna.

 
 
 

Post N° 25

Post n°25 pubblicato il 08 Gennaio 2009 da giovannydelprete


Un posto al sole



La politica estera del
duce non poteva essere per la natura stessa del suo regime la
continuazione di quella del precedente regime liberale. Voleva
piuttosto proiettare un'immagine di potenza e di intimidazione
anche se questo poteva alienare simpatie e costare posizioni
preziose nel concerto internazionale.


L'assassinio del generale Tellini
alla frontiera greco-albanese (1923) offre a Mussolini
l'opportunità di sfoggiare una riedizione della politica delle
cannoniere con uno spettacolare bombardamento terroristico
sull'isola greca di Corfù.


zaptié eritrei cammellati. La reazione
britannica a questa sfida alla Società delle Nazioni è
negativa, ma Mussolini non se ne cura eccessivamente e
continua a giocare su un doppio registro: si propone come ago
della bilancia e mediatore fra le potenze europee e al tempo
stesso mina gli equilibri del 1919 per garantire una nuova
espansione imperialistica italiana.


Al primo filone di comportamenti
appartengono: il patto di Locarno (1925) per stabilizzare gli
assetti tra Francia, Belgio e Germania; il patto Kellog (1928) per
la rinuncia alla guerra; il patto a quattro (1933) per un
direttorio fra Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna che
favorisca il disarmo e la collaborazione con la Società delle
Nazioni; il trattato di non aggressione con l'Unione Sovietica
(1933); il convegno di Stresa (1935) con la Francia e la Gran
Bretagna per garantire l'integrità dell'Austria e per opporsi
all'ormai evidente riarmo tedesco.


La linea destabilizzatrice si
concretizza in una serie di altri eventi: il finanziamento delle
organizzazioni fasciste a livello mondiale; il patto di Roma (1924)
con la Jugoslavia per una revisione dei confini senza la
partecipazione della Società delle Nazioni; accordi commerciali con
potenze revisioniste come la Germania e l'URSS; ripetute
dichiarazioni secondo le quali l'Italia ha il compito storico di
esportare il fascismo nel mondo e di tornare a svolgere un ruolo
centrale nella civiltà umana come in passato. In questo secondo
filone si inseriscono le nuove mire imperialiste nel Corno
d'Africa. Inizialmente la politica italiana verso l'Etiopia era
stata di continuazione di un benevolo protettorato, confermato dal
ruolo attivo svolto per agevolare l'ingresso di Addis Abeba nella
Società delle Nazioni e da un patto di amicizia che era stato
stipulato nel 1928.


Un esercitazione di un reparto di Zaptie'.Hailé Selassié
non nasconde la propria diffidenza nei confronti del governo
di Roma. Nutre il sospetto che l'aiuto di tecnici italiani
preluda alla penetrazione economica. Per sventare la minaccia
chiama tecnici da altre nazioni e ostacola, per quanto
possibile, gli appalti alle ditte italiane per la costruzione
di strade, rallentando anche i rapporti commerciali con
l'Italia. Nel giro di pochi anni l'atmosfera si avvelena:
secondo la testimonianza di De Bono, Mussolini inizia a
meditare l'invasione dell'Etiopia fin dal 1932.


Il regime fascista sente sul collo
il fiato di una depressione economica che gli aliena i consensi
interni, già resi tiepidi dall'aumento della corruzione e
dell'inefficienza nei rami della pubblica amministrazione.
Affiorano così i discorsi sulla necessità di trovare uno sbocco
demografico all'Italia sovrappopolata, di avere diritto in quanto
razza guerriera e virile ad un impero, di conquistare un posto al
sole. Non importa come, non conti a qual prezzo, un successo
brillante e inequivocabile appare ormai urgente, anche per lavare
l'onta (mai dimenticata) di Adua.


PRODROMI DELL'ATTACCO. Quel
che occorre è il casus belli. La zona dei pozzi di Ual-Ual era
stata fortificata dagli italiani per proteggere dalle frequenti
incursioni predonesche il confine somalo-etiopico e per controllare
una ventina di pozzi, risorsa essenziale per le popolazioni nomadi
dell'Ogaden, a cavallo tra i due territori. Il possesso della zona,
però, non é pacificamente riconosciuto dall'Etiopia e, per la
vicinanza al confine con il Somaliland britannico, anche
l'Inghilterra era interessata alla questione. Il 24 novembre 1934
una commissione mista anglo-etiopica si avvicina ai pozzi,
accompagnata dalla minacciosa presenza di centinaia di abissini
armati di tutto punto.


addestramento di zaptié. Al momento nel
fortino si trovano due sottufficiali indigeni e una sessantina
di dubat, i quali sollecitano istruzioni al telefono senza
cedere la posizione. La tensione sale rapidamente. Arriva il
comandante delle bande armate confinarie, capitano Roberto
Cimmaruta, il quale si rende immediatamente conto che è meglio
fare affluire altre forze sostenute da autoblindo e mettere in
allarme l'Aeronautica. Infatti gli abissini pretendono
l'abbandono della postazione. A nulla valgono i tentativi di
negoziare sul campo una qualche soluzione insieme agli
osservatori britannici:: la tensione sale ulteriormente quando
i pozzi sono sorvolati dagli aerei italiani. Gli inglesi
esprimono una vibrata protesta e se ne vanno. Restano, invece,
le bande abissine, guidate da un audace fuoriuscito somalo,
Omar Samantar, noto per le sue azioni di guerriglia
antiitaliana.


Il 5 dicembre si verificano le prime
scaramucce. La risposta italiana, nel pomeriggio e nella mattina
del giorno successivo, è devastante. L'aviazione interviene
mitragliando e spezzonando i concentramenti abissini. Gli spezzoni
al fosforo decidono la partita: 300 morti fra gli abissini, 21
dubat morti ed un centinaio di feriti fra gli italiani.

Nel gennaio 1935 Mussolini ottiene dal capo del governo francese,
Pierre Laval, un generico assenso alle sue mire sull'Etiopia. Anche
il ministro degli Esteri inglese, Anthony Eden, mostra di illudersi
che con qualche concessione territoriale a spese dell'Etiopia,
l'unica nazione indipendente dell'Africa (membro della Società
delle Nazioni), un'intesa antitedesca possa essere imbastita.


una cartolina dell'epoca.ALLA CONQUISTA
DELL'IMPERO.
La macchina bellica fascista si è comunque
messa in moto. Il 24 dicembre 1934 il generale Emilio De Bono,
quadrumviro alla marcia su Roma, parte per l'Eritrea come alto
commissari . o per l'Africa Orientale. Tre giorni dopo
scattano le opposte mobilitazioni parziali italiana in Somalia
ed Eritrea ed etiopica nell'Ogaden.


Una settimana dopo Mussolini dirama
in segreto «Direttive e piano d'azione per risolvere la questione
italo-abissina». Due mesi dopo vengono mobilitate le divisioni
Peloritana e Gavarina, mentre a Massima affluiscono mezzi ed armi
pesanti.


Il premier inglese Eden propone
prima la cessione di parte dell'Ogaden abissino in cambio di un
corridoio al mare per l'Etiopia. Roma rifiuta. La conferenza di
Stresa appare agli occhi di Mussolini come il giusto baratto:
l'Etiopia contro l'appoggio a danno della Germania.


Il duce, nella sua smania di
conquista, non si rende conto che la partita vera si gioca in
Europa e che dalla tenuta del patto contro la Germania dipende
l'indipendenza dell'Austria, e quindi la sicurezza nazionale. Spera
di essere comunque in grado di tutelare il fronte al Brennero
mentre è impegnato in Africa. Capisce invece benissimo che l'azione
della Francia e dell'Inghilterra, lungi dall'impedire efficacemente
la sua aggressione, gli permetterà di rinsaldare il vacillante
fronte interno. Londra mostra i muscoli concentrando la
Mediterranean Fleet, ma le
informazioni a disposizione di Mussolini, grazie alle
indiscrezioni di membri del governo britannico ostili a Eden,
chiariscono che si tratta di un bluff.


una cartolina dei Carabinieri Reali spedita dalla Colonia Eritrea dell'Asmara.Un altro scontro
di frontiera rappresenta l'occasione per esaltare il valore
dell'Arma, che di lì a poco impegnerà 12.000 dei suoi uomini.
Nella notte dal 2 al 3 marzo 1932 il brigadiere Gennaro
Ventura è di perlustrazione a cavallo insieme ad un buluk
basci degli zaptié (in arabo poliziotto) nei pressi di
Om-Hagher alla frontiera con l'Etiopia. Un consistente gruppo
di abissini tende un'imboscata ferendo lo zaptié, ma Ventura
si ripara dietro un termitaio resiste da solo, costringendo
gli abissini alla ritirata dopo aver lasciato sul campo un
morto e due feriti. Una medaglia d'argento premia il coraggio
del brigadiere.


Una ventina di giorni più tardi
viene richiamata tutta la classe del 1911 e De Bono riceve il
comando di tutte le forze dell'Africa Orientale. Successivamente
viene costituito un comando superiore dei Carabinieri Reali presso
il comando superiore per l'Africa Orientale con quattro sezioni da
montagna (un ufficiale, otto sottufficiali e 70 uomini), una a
cavallo (un ufficiale, sei sottufficiali e 33 militi) e un nucleo
incarico dell'ufficio postale. Una sezione di zaptié viene
assegnata al comando del corpo d'armata eritreo.


La mobilitazione dell'Arma avviene
secondo un piano riservato, con l'anodina denominazione di Progetto
AO (Africa Orientale). I comandi di corpo d'armata e di divisione
ricevono in media due sezioni di carabinieri da montagna, una a
cavallo e un nucleo postale. Apposite sezioni vengono dedicate alle
unità di lavoratori che hanno il compito di sostenere l'immane
sforzo logistico in una terra assai accidentata.


In Somalia, infine, vengono
costituite due bande di carabinieri autocarrati forti di 1.062
uomini in gran parte indigeni, inquadrati da 23 ufficiali e 42
sottufficiali.


le truppe italiane sbarcano in Africa Orientale (Domenica del Corriere).

 
 
 

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