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Post n°50 pubblicato il 14 Ottobre 2008 da shardana0
Non si può andare ad Alghero senza visitare le fantastiche e spettacolari Grotte di Nettuno, a Capo Caccia. Le Grotte sono raggiungibili in due modi: percorrendo un bellissimo sentiero lungo il mare attraverso una scala di ben 656 gradini, chiamata Escala del Cabirol; oppure con una favolosa escursione con i barconi che partono dal porto di Alghero e ormeggiano all'ingresso della grotta. Io ho preferito fare la bella e faticosa passeggiata attraverso la scogliera. La Grotta di Nettuno, è ubicata alla base della maestosa falesia occidentale, che oltre ad essere la maggiore per estensione, con i suoi 1.300 metri di sviluppo, è sicuramente anche la più famosa ed interessante. Ha uno scenario di incomparabile bellezza creato da eccezionali concrezioni e dalla trasparenza del suo lago interno. E’ una grande grotta che ha uno sviluppo totale di 2.500 metri, con numerose sale, ampie gallerie, limpidi laghetti, profondi pozzi, angusti cunicoli che la rendono molto complessa. Nel suo interno riunisce una serie di peculiarità naturalistiche senza eguali che la rendono una delle più interessanti e pregevoli dell’intero bacino del Mediterraneo. Geologicamente il promontorio di Capo Caccia appare costituito da rocce del periodo Cretaceo, la cui età è compresa tra 135 e 65 milioni d’anni. La grotta fu nota all'uomo sin dalla preistoria; infatti, all'interno della stessa sono state rinvenute sicure tracce di vita umana risalenti al neolitico, come graffiti, manufatti metallici e in ceramica. La formazione della grotta potrebbe risalire, quindi, a circa 2.000.000 di anni fa. Una remota e prolungata fase di stalagmitizzazione ha portato alla edificazione di alcuni tra i più poderosi ammassi colonnari di circa 20 m. di circonferenza, e si sarebbe verificata in seguito alla piovosità interglaciale Mindel-Riss. La grotta, insomma, è stata scavata dalla forza erosiva dell'acqua dolce. L'ingresso si presenta con un'ampia apertura poco sopra la battigia; subito dopo, la volta s'innalza fino a formare una gigantesca caverna interamente occupata, sul fondo, dal bellissimo lago La Marmora, di 130 metri di larghezza e dedicato all'esploratore e geografo Alberto La Marmora, il quale per primo tracciò le carte geografiche e geologiche dell'Isola. La sua profondità oscilla da uno a dieci metri; l'acqua salmastra entra da un condotto posto ad una decina di metri sotto l'ingresso, sottoponendo il lago al flusso di marea e provocando un sensibile moto ondoso durante le mareggiate. All'interno e sul bordo del lago svettano colonne e stalagmiti alte fino a 10-15 metri, e altre immerse nell'acqua sino a una certa profondità. Sulla destra del lago si può seguire uno stretto sentierino che porta alla Stanza delle Rovine, all'interno della quale vennero rinvenuti gli oggetti appartenenti agli uomini preistorici. Da quest'ultima è possibile accedere ad un'altra "stanza", una delle più grandi e chiamata La Reggia, caratteristica per la presenza di spesse colonne di stalagmite e di stalattite che sostengono il tetto della grotta e per la sua pavimentazione, disegnata dai riflessi delle maestose formazioni sull'acqua immobile e pura del lago Lamarmora. Sul lato destro della riva del lago si trova una piccola spiaggetta, la quale un tempo era frequentata dall'ormai estinta foca monaca, uno dei rari esemplari del Mediterraneo centrale. Continuando la visita della grotta è possibile ammirare anche la Stanza dell'Organo o Sala Smith, contenente una enorme colonna di stalagmite nel suo centro. Poco oltre, la Sala della Cupola, avente una stalagmite di tale forma e, infine, la Piattaforma Musicale, la quale spesso viene adibita a palco per la rappresentazione di fantastici e magici concerti di musica classica organizzati dal Comune di Alghero. La piattaforma è il punto più alto della grotta dal quale è possibile ammirare tutte la sale citate. |
Post n°47 pubblicato il 23 Luglio 2008 da shardana0
La Necropoli di Anghelu Ruju è un complesso tombale prenuragico situato a 10 km da Alghero, sulla strada per Porto Torres. La necropoli di Anghelu Ruju venne scoperta casualmente nel 1903, nel corso di lavori di cava di materiale che doveva servire per la costruzione di una casa colonica. Nel corso di scavi per la costruzione di una casa colonica. Fu trovato un cranio umano e un vaso tripode. Antonio Taramelli, da poco arrivato alla direzione dell’Ufficio delle Antichità della Sardegna inizio ai primi scavi nel 1904 e trovò 10 ipogei ulteriori scavi hanno permesso di trovare altre tombe e oggi si possono visitare 38 domus de janas: sono grotticelle funerarie scavate artificialmente nella roccia d’ arenaria calcarea distribuiti in maniera irregolare in una zona pianeggiante, nei pressi di un piccolo torrente. Si tratta di una delle più vaste necropoli della Sardegna ed è una delle aree archeologiche più importanti del Mediterraneo. La necropoli, nella quale si praticava l'inumazione di popolazioni dedite alla pesca e all'agricoltura, risale al neolitico recente al periodo della Cultura di Ozieri (3000 a. C.). Le groticelle hanno planimetrie con schemi articolati, per lo più complesse (fino a 11 vani), mentre solo una tomba, la 26, è monocellulare. Presentano prevalentemente soffitti tabulari. Sono del tipo a proiezione verticale e orizzontale, ossia accessibili attraverso un pozzetto verticale o un lungo corridoio (o "dromos") discendente, talvolta di dimensioni monumentali, quasi sempre provvisto di gradini che immettono nel vestibolo. L'evoluzione architettonica, avvenuta nelle diverse fasi di utilizzo della necropoli, è messa in risalto dai vari tipi di tombe, ed è visibile nelle differenze di accesso (la più antica a calatoia, la più recente a dromos) e negli ambienti a forma rettilinea o curva. Le pareti di alcune tombe ed in particolare la 28° e 30° presentano decorazioni architettoniche: false porte, pilastri, colonne e bassorilievi rappresentanti protomi taurine, ovvero teste di toro, animale sacro per gli uomini della Cultura di Ozieri che proteggeva il sonno eterno. La necropoli ha restituito reperti molto significativi, tra cui vasi, , armi, vaghi di collana ed altro piccoli idoli femminili, statuette di dea madre, che permettono di datare l'impianto della necropoli al Neolitico finale (cultura di Ozieri, 3200-2800 a.C.) e attestano il suo utilizzo fino nell'età del Rame e del Bronzo (culture di Filigosa, Abealzu, Monte Claro, del Vaso Campaniforme, Bonnanaro: 2800-1600 a.C.). Tuttavia, secondo alcuni studiosi occorrerebbe comunque retrodatare le varie epoche. A riprova di quanto detto Patricia Phillips, in "La preistoria d'Europe" ha scritto che: la presenza di ossidiana Sarda nel sud-est dell'isola di Corsica (ma anche nel nord Italia), viene datata all' VIII millennio a.C., e precisamente al 7.700 a.C., misurazioni effettuate nel 1972 da Bailloud. Altre nuove e sostanziali modifiche alle datazioni preistoriche delle civiltà megalitiche europee (comprensive del nuragico Sardo-Corso) sono da attribbuire a Colin Renfrew. |
Post n°46 pubblicato il 26 Giugno 2008 da Brighela71
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Post n°45 pubblicato il 01 Giugno 2008 da shardana0
Questo villaggio è molto probabilmente il sito archeologico più famoso della Sardegna. Per raggiungerlo si attraversa la valle del Lanaittu inoltrandosi in un mondo di calcare, di ginepri e di lecci, in cui è nata la secolare e silenziosa civiltà dei pastori-guerrieri. In questi luoghi la vita scorre nascosta: l'acqua abbondantissima nei fiumi sotterranei, gli animali (le aquile reali e i mufloni) e gli uomini nei canyon, immersi in foreste secolari e nelle spelonche o in luoghi come l'incredibile rupe che si apre nel monte Tiscali, con le rovine del villaggio nuragico più spettacolare della Sardegna. Al villaggio si arriva, tenendo sempre la sinistra, ai piedi del monte Tiscali, che si erge come una gigantesca e minacciosa bastionata, interrotta a nord dalla voragine di Tiscali, chiamata "Curtigia de Tiscali", originata sicuramente da uno sconvolgimento tettonico che ha poi dato luogo all'omonima dolina, dividendo la montagna in due monconi. L'arrampicata fino al villaggio di Tiscali è uno dei percorsi preferiti dai turisti, anche perché è un occasione fantastica per fare una "full immersion" di natura incontaminata e paesaggi spettacolari. Si percorrono i vecchi sentieri dei carbonai, ci s'inerpica per pendenze al limite del percorribile, poco prima di arrivare al villaggio si passa attraverso una fenditura nella roccia alta e profonda diversi metri ma larga poco più di uno, rendendo il passaggio angusto anche ad una sola persona. Nell’ enorme dolina che ha sprofondato la sommità arrotondata di un monte di calcare luccicante, che ricorda molto realisticamente un cratere vulcanico. All'interno di questo cratere ancora un'altro cedimento della roccia, stavolta sulla parete rivolta ad ovest, ha creato un'enorme balconata che guarda la vallata sottostante. Il villaggio si trova all'interno di una dolina di crollo, formatasi in seguito allo sprofondamento del soffitto di una grotta carsica. Un enorme frammento della volta si è conficcato verticalmente nel terreno assumendo l'aspetto di un Menhir. Qui gli antichi e gli indomiti abitatori, perseguitati dagli invasori, pensarono di costruire un nucleo di abitazioni, riparate da giganteschi soffitti di roccia per proteggersi anche intemperie dei rigidi inverni del Supramonte. Per alcuni versi il villaggio di Tiscali ricorda gli insediamenti rupestri dell'America Latina o certi "pueblos" indiani, edificati entro i canyons. Infatti agglomerati costruiti sotto immense pareti di roccia possono ritrovarsi nel Colorado o nell'Arizona. Così la dolina divenne un vasto riparo, sicuro e molto comodo, che consentiva di controllare l'esterno: circa 3000 anni fa lo abitarono antiche popolazioni sarde che vi edificarono un villaggio nuragico. Circa cinquanta capanne costruite pressappoco a semicerchio intorno a questo, in maggioranza circolari, ma anche rettangolari, sono divise in due quartieri e sono addossate alle pareti della dolina, esse sono in parte crollate, ma si possono notare ancora le fondamenta. Tutte le strutture attualmente visibili (del IX-VIII sec. a.C.) sono realizzate con pietre calcaree legate con malta d’argilla, a formare murature di capanne sia circolari che rettangolari, oggi fortemente degradate per i crolli e le azioni vandaliche. Gli architravi di tutte le costruzioni sono in legno di terebinto o ginepro e non in pietra, come accade invece normalmente nelle capanne nuragiche. Le due capanne circolari conservate meglio all’epoca del Taramelli avevano un’altezza tra i 3 e i 4 metri, pareti spesse circa un metro e diametro interno di circa 3 metri. Originariamente la copertura dei vani doveva essere realizzata con travi lignee e/o frasche come nelle attuali pinnettas. Ancora in discreto stato una capanna (con diametro esterno di circa 5 metri) che conserva una nicchia, alcuni stipetti e l’originale architrave in legno di terebinto. Originariamente la copertura conica doveva essere realizzata “a scudo”, con travi radiali ricoperte di frasche. Architavi in legno di ginepro, capanne di piccola e media dimensione, realizzate con impasto grossolano di fango e piccoli conci; le superfici interne intonacate con un impasto argilloso rifinite con una consistente tinteggiatura in grassello di calce. Una tecnica edificatoria decisamente affrettata! Si presuppone sia nato sul finire della civiltà nuragica o durante il dominio dell’impero romano, data la posizione strategica che rendeva il villaggio invisibile e imprendibile. Come già detto l’unica via d’accesso è la diaclasi, una strettissima spaccatura nella roccia che è l'unica via d'accesso al villaggio, ci piace ancora credere a questa versione e pensare, con un sottile brivido, gli indomiti guerrieri che difendevano strenuamente la loro indipendenza vietando quel passaggio agli invasori. Queste sono le tracce più affascinanti lasciate dall'uomo nel Supramonte, legate a quell’epoca. Ora sono rimasti solo resti, cumuli di macerie con appena qualche accenno di quella che doveva essere la struttura originaria su cui purtroppo si è accanita l'ingordigia, il vandalismo e l'ignoranza di orde di scavatori abusivi. Peccato davvero perché per posizione, scenografia naturale e cornice paesaggistica il villaggio di Tiscali è unanimemente considerato un'autentica meraviglia, che vale proprio la pena di visitare. |
Post n°44 pubblicato il 24 Maggio 2008 da cuoremiodgl
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Post n°43 pubblicato il 23 Aprile 2008 da shardana0
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Post n°42 pubblicato il 14 Marzo 2008 da Ichnusa3
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Post n°41 pubblicato il 07 Marzo 2008 da shardana0
L’acqua si è ritirata di 60 metri, della vecchia oasi resta una pozzanghera. La zona umida, classificata come Sito di interesse comunitario, si consuma giorno dopo giorno L'acqua si ritira, quasi una fuga disperata, e dietro rimane solo fango e sabbia. Si spegne lentamente il lago di Baratz, l'unico naturale della Sardegna, tanto che nei giorni scorsi il Corpo forestale e di vigilanza ambientale ha lanciato l'allarme con una informativa inviata all'assessorato regionale alla difesa dell'Ambiente. Decametro alla mano gli agenti hanno tracciato una linea che indica la drammaticità della situazione: la zona umida, classificata Sito di interesse comunitario (Sic), si consuma giorno dopo giorno. Un arretramento che trasmette tristezza: 60 metri dal punto originario censito all'inizio dell'inverno, una decina persi solo nell'ultimo mese con una progressione che fa paura. Di questo passo, del lago potrebbe restare solo una pozzanghera. E' una emergenza ambientale, sicuramente la più grave degli ultimi trent'anni nel lago che, per la sua specificità, ha da sempre una condizione di forte criticità. La situazione attuale, però, aggiunge il timore di una crisi irreversibile, tanto da fare temere per la sua stessa sopravvivenza. Per questo occorre capire che cosa sta succedendo, decodificare gli indizi e studiare le alterazioni pesanti che stanno rendendo sempre più fragile il contesto del Baratz. Ieri mattina gli agenti del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione - che ormai da diverse settimane stanno monitorando la situazione nel bacino - sono tornati sul posto e hanno effettuato una serie di controlli. Binocoli, macchina fotografica e strumenti per i sondaggi del terreno, hanno compiuto un lungo giro di perlustrazione per rendersi conto di quel che sta accadendo. Hanno visto, così, le carpe in difficoltà (forse l'ultima specie ittica rimasta nel lago), le folaghe e le garzette concentrate nello specchio acqueo dove ancora è possibile la presenza dei volatili. «Situazione difficile - hanno spiegato l'ispettore Salvatore Sanna e l'assistente Vittorio Pili - bisogna fare qualcosa al più presto. Se si continua di questo passo, d'estate resterà solo una pozza d'acqua al centro. Forse si potrebbe favorire l'apporto di acqua grezza attraverso le condotte del Consorzio di Bonifica della Nurra, è la cosa che in questo momento si può fare con maggiore tempestività». Sfruttato per tanti anni, «derubato» della sua risorsa più preziosa anche dall'industria, il lago di Baratz ora ha disperatamente bisogno d'acqua. Non può più donare, ha necessità urgente di trasfusioni, deve lottare per salvarsi e per tutelare le specie faunistiche che ospita. Nel rapporto inviato all'assessorato regionale alla Difesa dell'ambiente, il Corpo forestale ha provato anche a ipotizzare le possibili cause dell'emergenza che ha colpito l'unico lago naturale della Sardegna situato tra Porto Ferro, l'Argentiera e Alghero: intanto la diminuzione della piovosità, ma anche la presenza di numerosi invasi di intercettazione e raccolta realizzati lungo il percorso del Rio dei Giunchi e utilizzati dalle aziende agricole per uso irriguo. Così, lentamente, il bacino ha perso i contributi d'acqua. La falda si è abbassata, ridotta al lumicino. E basta un giro attorno a quel che resta del lago per rendersi conto della «desertificazione» che avanza. Il Baratz sembra quasi volersi difendere, indietreggia per cercare la salvezza e si lascia dietro strisciate interminabili di fango e sabbia. Cespuglietti verdi che con il passare dei giorni si colorano di grigio fino a seccarsi. Intorno i cinghiali colonizzano ogni spazio, scavano e demoliscono come pale meccaniche. Nei sentieri che dal lago portano alla pineta ricca di macchia mediterranea (dove emergono anche diverse specie di orchidee selvatiche) si notano i segni dell'abbandono, dell'ambiente non curato nei modi che merita un parco, anzi un Sito di interesse comunitario. Le passerelle in legno sono in larga parte inaccessibili perchè invase dalla vegetazione (già una normale azione di pulizia risolverebbe il problema), disagi anche per raggiungere i punti di osservazione. Una condizione complessiva di precarietà, resa ancora più triste dalla grave situazione del lago. Al centro c'è l'isolotto preferito dai cacciatori: prima ci arrivavano da terra con una barchetta, si appostavano lì e sparavano alle anatre. Ora ci possomo tranquillamente giungere a piedi, l'acqua non c'è più e l'imbarcazione non serve. Per terra cartucce di ogni colore: rosse, blu, verdi e gialle. Come regola dovrebbero essere raccolte, invece fanno bella mostra in mezzo alla sabbia. Una sfida per affermare che intanto ognuno può fare ciò che vuole e che non bisogna avere nessuna pietà di quel lago agonizzante. Bisognerebbe portare l'ossigeno, avviare la rianimazione. Invece quelli che ci vanno riescono ancora a sparare. Così si uccide l'unico lago naturale dell'isola. di Gianni Bazzoni |
Inviato da: lunasmastros_ls
il 14/10/2008 alle 14:59
Inviato da: icknos
il 22/07/2008 alle 18:40
Inviato da: icknos
il 22/07/2008 alle 18:28
Inviato da: Brighela71
il 18/06/2008 alle 00:11
Inviato da: Anonimo
il 23/03/2008 alle 15:27