Gorilla

Post n°8 pubblicato il 09 Novembre 2006 da picturdgl
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Il paese delle mille colline

 

Gli unici rumori che si odono sono i colpi di machete sulle liane che impediscono il passaggio e i grugniti che la guida emette come richiamo. Tutto il resto è nel silenzio più assoluto, solo il frusciare delle foglie. È cominciata la fase più delicata e più emozionante dell'intera escursione: l’avvicinamento ai gorilla. Può durare anche mezz'ora e più, ma si conclude quasi sempre con 1'avvistamento di un gruppo e 1'incontro con uno o più componenti.

La presentazione avviene all'improvviso e lascia senza fiato. Movimenti misurati e lenti, posizione seduta o carponi, voce bassa sono gli atteggiamenti da tenere in presenza di uno o più gorilla il resto viene da sé. Siamo di fronte al gorilla nero dl montagna (gorilla gorilla beringei), che oramai sopravvive solo in questa parte del mondo: la catena dei Vulcani Virunga, spartiacque tra il bacino del Nilo e quello del fiume Congo, oggi ribattezzato Zaire.

Il prologo a questo incontro si svolge a Bologna, in casa di alcuni amici che hanno in comune la passione per i viaggi e, soprattutto, per i viaggi in Africa. La scelta cade su una zona, 1'Africa Equatoriale, che richiama subito alla mente le grandi avventure di Livingstone e Stanley, le spedizioni con centinaia di portatori e la foresta misteriosa

II viaggio-avventura inizia a Kigali, capitale del Randa, quasi esattamente al centro dell'Africa, dove noleggiamo un pulmino che ci accompagnerà per tutto il percorso senza risentire, se non in minima parte, delle condizioni veramen­te disagevoli delle strade. Queste strade attraversano in tutte le direzioni il Rwanda, che è caratterizzato da un territorio completamente collinoso, che gli vale 1'appellativo di paese delle mille colline. Non esistono grosse concentrazioni urbane, se non a Kigali e Gisenyi, sul lago Kiwu. Questo lago, uno dei poli di attrazione del Rwanda, ha una superficie che è sette volte il lago di Garda, fa parte della catena dei grandi laghi che vanno dal Malawi all'Etiopia e fa da confine tra Rwanda e Zaire. Nelle sue acque, uniche tra tutti i laghi d'Africa, ci si può bagnare tranquillamente senza rischi di malattie tropicali.

Da Gisenyi a Goma, in Zaire, il passo è breve, tanto che le due città, pur essendo in stati diversi, sembrano una unica. Da Goma parte la strada che diventa pista subito fuori dal paese e costeggia la catena dei vulcani Virunga. Il primo che si incontra, preannunciato da una gigantesca colata di lava nerissima in mezzo alla quale sta ricrescendo la vegetazione, è il famoso Niyragongo, uno dei due ancora in attività, poi gli altri, che ritroveremo in Rwanda. La pista, dopo aver attraversato numerosi villaggi ai margini della foresta equatoriale che copre tutto lo Zaire fino all'oceano Atlantico, ci porta all'ingresso del parco più suggestivo dell'Africa: il parco dei monti Virunga. Si stende parallelo alla catena dei vulcani, proseguendo verso nord, ai conimi con 1'Uganda ai piedi del Ruwenzori. Si possono scoprire ed ammirare moltissime specie di animali e di uccelli, tra cui la stupenda aquila pescatrice, immersi in uno scenario forse unico al mondo: le savane a perdita d'occhio, dalla cui erba spuntano le agili impala, la foresta, nella quale è possibile incontrare il leopardo o i leoni che si riposano tra i rami degli alberi, il fiume Rutshuru, con i suoi 3500 ippopotami e le verdissime anse o la costa a strapiombo.

Percorrendo le piste quasi introvabili della zona giun­giamo a Vitshumbi paese di pescatori alla foce del fiume Rutshuru, sul lago Amin. Questo inimmaginabile ed impro­babile villaggio è composto da un insieme ordinatissimo di capanne tutte uguali poste una di fianco all'altra fino a formare un'enorme scacchiera. La riva del fiume, qui molto largo, è completamente ricoperta dalle barche dei pescatori che scaricano il pesce, riparano le reti e i loro attrezzi, seguiti ovunque da gruppi di pellicani pronti a divorare il pesce che cade in acqua, marabù, ibis e altri uccelli che raccolgono quanto capita alla loro portata. Gli abitanti sono cordiali, offrono il pesce appena pescato e cotto su enormi griglie davanti a le capanne e si divertono moltissimo ad osservarci mentre, come trasognati di fronte ad un simile spettacolo continuiamo a fotografare per riportare a casa il ricordo di un posto così incredibile. Anche se a malincuo­re, lasciamo Vitshumbi, il parco Virunga e lo Zaire, paese

che sta vivendo uno dei suoi momenti economicamente più travagliati, dominato dalla corruzione della classe dirigente che ha contagiato ormai tutta la popolazione; ciò non gli toglie quel suo aspetto ;affascinante ed avvolgente, come la foresta che lo ricopre quasi interamente.

Non lasciamo però la catena dei vulcani Virunga, che accostiamo dalla parte del Rwanda. Arrivando a Ruhenge­ri, si profilano all'orizzonte il Karisimbi (il più alto), poi il Sabynio, il Visoke (su cui saliremo), il Gahinga e Muhabura (la cui cima è perennemente ricoperta da una nuvola che ne contorna la forma). Passiamo la notte a Kinigi, ai piedi del Visoke e la mattina presto partiamo per la spedizione più emozionante di tutto il viaggio: la ricerca di un gruppo di gorilla neri di montagna.

Fino ai piedi del vulcano attraversiamo i campi coltivati che la popolazione vorrebbe estendere ancora più su, restringendo così l'habitat dei gorilla e condannandoli all'estinzione. La creazione del parco ha impedito che ciò avvenisse, ma la battaglia per la salvezza di questi enormi cuccioloni non è ancora vinta, a causa dei bracconieri che li cacciano per prelevarne il teschio o le mani o per catturare i piccoli. Appena comincia la zona protetta, inizia la foresta, dapprima rada e poi sempre più fitta ed opprimente. Le guide aprono la strada con i loro machete, ma il percorso è ugualmente disagevole, a causa dell'intrico di liane, rami e foglie che formano un tappeto che ci costringe a camminare come sollevati da terra. L'insidia è sempre in agguato: basta mettere un piede in fallo per rimanere invischiati nella vegetazione e faticare moltissimo per uscirne. La fatica di queste ore di cammino è però compensata dall'incontro con i gorilla.

Avvistiamo prima alcuni piccoli che giocano su di un albero, poi, nascosto da un cespuglio di frasche, un grosso maschio. Riusciamo a togliere il suo riparo e restiamo senza fiato: sdraiato ed appoggiato ad un tronco, il gorilla ci sta osservando allo stesso modo con cui noi osserviamo lui. Il suo sguardo curioso e vivace passa da uno all'altro del nostro gruppo, fino a che decide di muoversi ed allontanarsi con gli altri. Li seguiamo fino a una radura in un boschetto di bambù, dove si fermano per riposare, per cui ci possiamo avvicinare, quasi sfiorarli, cercando di capire quali siano i pensieri e i sentimenti di questi animali così simili all'uomo. I loro gesti sono calmi e misurati, si atteggiano a pose che ci sono incredibilmente familiari, si sdraiano vicino a noi assumendo i nostri stessi atteggiamenti. Non hanno nulla del terribile King Kong che il cinema ci ha sempre presentato. A malincuore dobbiamo lasciare la compagnia e ritornare al campo di Kinigi, da dove inizia il viaggio di ritorno.

Sull'aereo riaffiorano i ricordi dei momenti più entu­siasmanti e di quelli più difficili, ma anche tutti gli interrogativi sulla sorte di questi Paesi. Sarà possibile mantenere questo aspetto ancora integro, quasi naif che essi possiedono? Il cosiddetto progresso, sul cui altare si sacrificano innumerevoli valori, avrà il sopravvento sugli ultimi rappresentanti di un mondo che la maggior parte degli uomini nemmeno conosce? L'importanza ecologica e ambientale che la foresta riveste per il mondo intero è oggi universalmente riconosciuta; 1'uomo, 1'unico animale che ha sviluppato un sentimento profondo di autodistruzione in nome di una fantomatica «civiltà», riuscirà a fermarsi in tempo, prima che sia troppo tardi?

 
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Alaska La grande terra

Post n°7 pubblicato il 06 Giugno 2006 da picturdgl
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"Qui, tra questi ghiacci, si impara che il, mondo, anche se già fatto, è ancora in divenire e che questo è ancora il mattino della creazione" (John Muir).

Qui tutto è enorme, potremmo dire eccessivo. 5000 ghiacciai (uno solo di essi è più grande della Svizzera), 4 milioni di ettari di foreste, 3 milioni di laghi; l'Alaska è estesa come la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna e l'Italia messe insieme e conta solo mezzo milione di abitanti.

Vitus Bering, navigatore danese al servizio dello Zar di Russia, fu il primo europeo e mettere piede in Alaska nel 1741; con le sue spedizioni aveva dimostrato che Asia e America sono separati da uno stretto che prese il suo nome.

Le spedizioni di Bering segnarono l'inizio dell'espansione commerciale russa nella regione, immediatamente invasa da migliaia di cacciatori alla ricerca delle pregiate pelli di lontra, castoro, volpe. Si spinsero sempre più all'interno mano a mano che la caccia indiscriminata riduceva il numero delle prede.

 

Anche le popolazioni locali pagarono a caro prezzo l'invasione. Furono prima soggiogate con la forza, quindi decimate dal vaiolo e dalle malattie portate dai nuovi arrivati, e di seguito assimilate nella cultura russa ad opera dei missionari ortodossi.

 

Nel villaggio di EKLUTNA sono ancora oggi visibili i segni di questa assimilazione. Nel cimitero, sulle tombe, spiccano le colorate CASE DEGLI SPIRITI dei morti, costruite secondo un costume che deriva dalla fusione di credenze e pratiche religiose degli indiani ATHABASCA e degli ORTODOSSI russi.

 

Nel 1778 il navigatore James Cook raggiunse queste latitudini e aprì un nuovo canale commerciale per nome e per conto degli Stati Uniti in concorrenza con i Russi.

 

Le genti del luogo furono costrette a schierarsi, vennero armate dall'una o dall'altra fazione con la conseguenza che il loro numero si ridusse in modo impressionante rispetto ai tempi precedenti l'arrivo degli stranieri: dal 20 al 50 % a seconda delle aree geografiche.

 

Alla fine l'impegno in Europa nelle guerre napoleoniche, il declino del commercio delle pellicce e l'enorme distanza di questi luoghi dalla madrepatria, convinsero l'impero russo a vendere l'Alaska agli Stati Uniti, nonostante gli indiani Tlingit sostenessero strenuamente che i Russi non potevano vendere ciò che non era loro.

 

Era il 1867 e il prezzo fu di 7 milioni e 200.000 dollari, 5 centesimi l'ettaro.

 

Fu l'oro a proiettare l'Alaska nel mondo, un metallo che possiede la forza di forgiare la storia. Dal 1880 impazzì la corsa all'oro del KLONDIKE, "l'ultima grande avventura", durante un periodo di grande recessione economica. La promessa di veloci ricchezze e di avventura attirarono anche in Alaska migliaia di persone che lasciarono tutto per la nuova frontiera. Sorsero le miniere e con loro molte città, a volte abbandonate in fretta e furia, all'annuncio del ritrovamento del magico metallo in un'altra regione. I cercatori che fecero fortuna furono pochi, in compenso nacquero racconti e leggende senza fine.

 

Oggi quelle miniere continuano a vivere per i viaggiatori di passaggio, testimoni di un'epoca tanto cara al mito americano della frontiera. Come INDEPENDENCE MINE, chiusa solo nel 1951 dopo aver prodotto in 45 anni di attività un valore in oro di circa 6 milioni di dollari. Le città dell'Alaska si presentano come qualsiasi città della provincia americana, ma.... nessuna malinconia o senso di abbandono; qui si ha l'impressione, vera o presunta, che le possibilità siano tante e il futuro ancora da decidere.

 

 

Ad ANCHORAGE, la capitale risiede la metà della popolazione dell'intero stato. Una città dal clima limpido dove puoi percorrere lunghe e panoramiche piste ciclabili, o fare un isolato pic-nic su un ghiacciaio.

 

FAIRBANBS è l'ultima città prima di inoltrarsi nel grande Nord. Qui appare più evidente la discriminazione tra i bianchi ed i discendeti delle popolazioni native: prevalentemente Inuit e indiani ATHABASCAN richiamati in città da un benessere a cui difficilmente potranno accedere.

 

SEAWARD è il porto di imbarco per la visita allo stupendo parco marino del Kenai Fjiords.

 

Gli incontri sono eccezionali: orche, balene. lontre,foche.

VALDEZ, così chiamata dall'esploratore spagnolo Don Salvador Fidalgo che qui sbarcò nel 1770. Quando, nel 1964, uno dei più devastanti terremoti della storia colpì l'Alaska del sud, in 4 terribili minuti Valdez non fu solo rasa al suolo, ma vide anche il terreno su cui era costruita sprofondare in mare.

 

La nuova Valdez sorge ora a circa 7 Chilometri dal luogo originario.

Valdez è il punto di arrivo della Trans-Alaska Pipeline, un ciclopico oleodotto (costruito in soli quattro anni tra il '74 e il '77) che collega la città con i campi petroliferi che si affacciano nell'immenso nord sull'oceano Artico a 2000 km di distanza.

 

Valdez ha pagato, insieme a tutta l'umanità, un prezzo altissimo per questo sviluppo tecnologico: nel 1989 le immagini del più grande disastro ecologico della storia fecero il giro del mondo partendo da qui: 42 milioni di litri di petrolio, fuoriuscii dalla superpetroliera EXXON VALDEZ, inquinarono il golfo di fronte alla città, una delle zone più importanti al mondo dal punto di vista naturalistico.

9000 persone lavorarono per mesi al disinquinamento e oggi fortunatamente le tracce visibili di quel disastro sono minime, e le lontre marine nuotano di nuovo nel porto di Valdez.

Mezzo milione di abitanti su un territorio enorme, un saldo ancora a favore della natura, 3/4 (?) dello stato destinato a parchi e zone protette, fanno dell'Alaska un'occasione mondiale forse irripetibile di gestione non devastante delle risorse naturali. Per l'Alaska, come per alcuni stati africani, possiamo dire che forse siamo ancora in tempo a mantenere un equilibrio accettabile tra uomo e natura, tra cosiddetto progresso e salvaguardia del patrimonio naturale.

 

La sensazione che la natura possa ancora vincere la si prova davanti alla maestosità dei ghiacciai perenni.

 

 
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Mana Pools

Post n°6 pubblicato il 18 Aprile 2006 da picturdgl
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Mana Pools (Zimbabwe), agosto 1992

 

Abbiamo trascorso la giornata su una pista difficile che da Binga conduce qui. Siamo nel parco di Mana Pools nel nord Zimbabwe, sulle rive del fiume Zambezi. Scarichiamo i bagagli nello spazio a noi destinato (siamo in un camp con tanto di "piazzole" numerate) e in due ripartiamo alla ricerca di legna per il fuoco; gli altri rimangono per organizzare il campo. Al nostro ritorno ci troviamo di fronte ad una scena divertente: i bagagli sono ammucchiati sotto un sicomoro gigante, i nostri amici sono lì a fianco, in attesa. Nel punto esatto destinato alle tende un enorme esemplare di elefante è intento a raccogliere da terra certe bacche che non sapevamo potessero piacergli tanto. Ogni tentativo, peraltro molto blando, di allontanare l'abusivo riesce soltanto a strappargli un barrito di sufficienza e una minacciosa scrollata di orecchi. Non c'è nulla da fare. Fino a che non ha perfettamente pulito tutta l'area, non se ne va. Due ore dopo possiamo finalmente piantare le tende.

 

L'esperienza appena vissuta non deve sorprendere. Nei parchi africani succede spesso. Si passano i giorni a cercare gli animali, si incontrano con minore o maggiore difficoltà, si vedono da vicino o da lontano, solitari o in branchi. Ci si mette in marcia all'alba e fino al tramonto la vita è fatta di ricerche, pedinamenti e attese. Fino al tramonto. Di notte invece sembra che le parti si invertano. Ed allora che tu sia in un campo recintato o da solo in tenda nella savana, sono gli animali che si avvicinano e sembra che vogliano restituirti le visite.

 

Succede spesso, dicevamo, ma in questo parco gli incontri ravvicinati sembrano particolarmente frequenti e fanno la gioia dei viaggiatori. Già un cartello ammonitore "Attenti ai coccodrilli" affisso sulla porta dei servizi, mi costringe a scrutare attentamente le tenebre con la torcia. E a sorridere perché mi balza alla mente lo stereotipo dell'esploratore che attraversa un corso d'acqua su un tronco che ovviamente si rivela essere, appunto, un coccodrillo.

 

Un altro cartello che diceva "Non disturbate l'ippopotamo" in un campo del parco dell'Akagera in Rwanda non fu tenuto in dovuto conto da nessuno del gruppo (per me si trattava del primo viaggio in Africa), ma costrinse un compagno a ritornare precipitosamente e molto agitato alle auto quando pensò di fare due passi sotto le stelle. Quella volta le tende erano già montate su un praticello di erba tenera ed evidentemente appetitosa. Infatti, lentamente e brucando meticolosamente ogni centimetro quadrato, l'ippopotamo arrivò alle tende e noi dovemmo aspettare con pazienza il suo lento passaggio Tre ore dopo, grati per avere salvato il nostro equipaggiamento, potemmo andare a dormire.

 

L'europeo non è abituato agli spazi sconfinati, alle grandi regioni quasi disabitate. Nel suo immaginario non esistono i branchi di zebre, di gnu o di giraffe liberi di muoversi nelle savane, o i grandi felini che li cacciano. Gli animali ha imparato a conoscerli eventualmente sui libri di scuola o dai documentari televisivi o, peggio ancora, allo zoo. Quando arriva in Africa stenta a credere ai cartelli che avvertono "Attenti ai coccodrilli" o "Non disturbate l'ippopotamo". Pensa che i consigli letti sulle guide su come comportarsi in caso di incontro con un bufalo o un leone o come riconoscere un sentiero usato dagli elefanti (dove, per inciso, non bisogna mai piantare la tenda) siano espedienti commerciali per attirare i turisti. Non avendoli mai visti, forse non pensa che possano davvero esistere e, tanto meno, immagina di poterli incontrare.

 

Ma in Africa gli animali fortunatamente ci sono e spesso vengono a trovarti.

 

Sono spinti dalla curiosità, molto spesso dalla fame e dove hanno imparato, come nei parchi, che nonostante i bracconieri ci si può fidare dell'uomo, gli incontri sono frequenti, spesso divertenti, sempre emozionanti.

 

Lo sciacallo dalla gualdrappa è coraggioso e furbo, ha capito che con il suo sguardo tenero e gli occhi vispi ispira fiducia e tenerezza nei viaggiatori. Così te lo trovi spesso attorno al campo, soprattutto durante i pasti. Il solito cartello ammonisce di non offrire cibo agli animali selvatici perché è facile in questo modo trasmettere loro malattie da cui non sanno difendersi e perché si abituano a dipendere dall'uomo per loro sopravvivenza. Nel parco di Etosha, in Namibia, una sera siamo andati a dormire dopo esserci difesi, durante tutta la cena, dalla solita petulanza di alcuni sciacalli. Nonostante la loro insistenza, da noi non ottennero nulla, ma la loro vendetta fu veramente speciale. Al mattino le nostre scarpe, che tutti avevamo lasciato fuori dalle tende, furono ritrovate lì intorno, in mille pezzi.

 

Se c'è una recinzione attorno al campo, allora solo gli animali più piccoli riescono sgattaiolare dentro per aggirarsi poi tra le tende. I più grandi rimangono fuori, ma si fanno sentire. In quel caso gli incontri tra uomo e animale avvengono lungo questa linea di frontiera, costituita da una rete metallica, fino a quando uno dei due non si allontana. In una situazione simile, al parco Kruger in Sudafrica, avevo di fronte un enorme bufalo. Brucava tranquillamente e ogni tanto sollevava l'enorme testa per guardarmi dritto negli occhi. Avevo la sensazione che mi guardasse con sufficienza e compassione. In fondo, per una volta, io ero chiuso in un recinto mentre lui era libero nella notte.

 

Quando gli animali vengono a cercarti, ti vengono in mente le ingiustizie e le offese che l'uomo ha riservato a questi compagni di viaggio su questa terra, le foto antiche delle stragi effettuate dai cacciatori bianchi in nome di ciò che chiamavano "sport della caccia", e di quelle più recenti effettuate dai bracconieri in nome dell'affarismo più sfrenato. E ti senti impotente e sommerso dal senso di colpa che, come rappresentante del genere umano, in quel momento non puoi scrollarti di dosso.

 

Al parco Gemsbok in Sudafrica passai una notte insonne per colpa di un leone che ruggì per ore a pochi metri dalle nostre tende. E quando all'alba lo vidi mentre si allontanava mi domandai le ragioni di quel concerto proprio di fianco al campo, mi piacque pensare che quel leone volesse semplicemente ribadire la sua esistenza e ricordarmi che il mondo non è solo mio. Non è solo dell'uomo.

 
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I grandi mammiferi in pericolo

Post n°5 pubblicato il 10 Aprile 2006 da picturdgl
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descrizione da inserire a giorni...

 
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Yukon Il fiume dell'oro

Post n°4 pubblicato il 06 Aprile 2006 da picturdgl
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Yukon

 

Breve storia

Il nome Yukon richiama subito alla mente la corsa all'oro nel grande nord del continente americano, le migliaia di cercatori , avventurieri, disperati che da ogni parte del mondo giunsero in Alaska e in Canada alla fine dell'800 per cercare di arricchirsi con il ritrovamento del prezioso metallo.

Il fiume Yukon nasce dal lago Atlin, sui monti Big Salmon nella British Columbia, e scorre per quasi 3000 km verso nord, attraverso il Canada e l'Alaska, per buttarsi nel mare di Bering, nella baia di Norton.

Attraversa pochissime città, la più grande delle quali, Whitehorse, conta circa ventimila abitanti ed è tristemente famosa per le rapide che, nel Miles Canyon, hanno fatto numerose vittime tra i cercatori d'oro che risalivano il fiume per raggiungere i giacimenti del nord.

La più famosa è invece Dawson, nel Klondike, regione il cui nome è legato strettamente all'epopea gloriosa della corsa all'oro.

 

Clima e periodo di visita

Il clima delle regioni attraversate dallo Yukon è un clima continentale freddo, con inverni lunghi e relativamente rigidi, e una brevissima estate, da giugno a settembre. Durante l'inverno le acque del fiume, che attraversa in alcuni punti il Circolo Polare Artico, gelano completamente, coma altri fiumi della regione, permettendone così l'attraversamento anche con mezzi terrestri come auto o camion. La temperatura scende, nell'interno, fino ai 50°C sotto zero, mentre nelle soleggiate giornate estive il termometro può arrivare fino ai 25 gradi.

È quindi evidente che se non si è amanti delle grandi distese di neve, se non si vuole partecipare ad una delle famose gare di slitte trainate  dai cani o non si desidera assistere al fenomeno dell'aurora boreale, si può evitare l'inverno. La stagione migliore è la breve estate, che va da giugno a settembre.

In giugno occorre essere prepararti ad affrontare un flagello naturale che affligge queste regioni: le zanzare e altre specie di insetti che letteralmente rendono la vita impossibile agli uomini e ai grandi animali selvatici come i caribù e le alci. Il mese ideale è settembre, quando la tundra e gli immensi boschi di betulle e pioppi tremuli si vestono con i caldi colori dell'autunno, rendendo il paesaggio magico e maestoso.

 

Flora

La flora delle regioni attraversate dal fiume varia dagli immensi alberi sempreverdi alle basse piante della tundra subartica, attorno a Dawson e in Alaska. La primavera ricopre la tundra e le grandi distese di carice ed equiseto con un'esplosione di fiori multicolori, inaspettati in queste regioni. Tra le piante ad alto fusto, le specie più rappresentate sono gli abeti, le betulle e i pioppi tremuli. Nelle zone umide della taiga spiccano le betulle nane, gli abeti neri e i larici.

 

Fauna

L'animale più famoso e che eccita la fantasia di tutti i visitatori dello Yukon è sicuramente l'orso bruno, o grizzly. Un incontro con questo mammifero riempie di sgomento per le sue dimensioni e, al tempo stesso, di elettrizzante emozione. L'orso grizzly, che un tempo era diffuso in tutto il Nord America, ora ha ristretto il suo habitat principalmente nell'estremo nord, in Alaska e Canada. é ancora oggetto di caccia da parte di coloro che ritengono il grizzly la preda più ambita e l'esempio più evidente del proprio coraggio. Purtroppo ciò ha fatto sì che i grizzly, oltre a diminuire di numero, si siano fatti sempre più schivi, per cui è molto difficile avvistarli, se non all'interno delle vaste aree protette dello Yukon e dell'Alaska, come i parchi di Kluane, di Denali e Katmai.

Oltre agli orsi bruni, altri abitanti di queste regioni sono gli orsi neri, le alci, i grandi branchi di caribù, i castori che contribuiscono, con le loro dighe, a modificare sostanzialmente i corsi dei fiumi minori e quindi il paesaggio circostante. Nelle zone di montagna si possono avvistare branchi di pecore di Dall e nei boschi, molto difficilmente, i lupi.

Anche gli uccelli sono ben rappresentati e colonizzano molte zone, a seconda del loro habitat preferito. I cigni e le strolaghe nella tundra, le morette arlecchino lungo le rive dei fiumi, i falchi pescatori e le aquile dalla testa bianca vicino ai grandi laghi.

 

Come arrivare

Whitehorse è il punto di partenza per visitare la regione dello Yukon, in Canada, e per seguire il fiume in uno dei tratti più interessanti e movimentati del suo corso. Whitehorse si raggiunge da Vancouver con un volo di circa tre ore o,  via terra, con un viaggio di cinque giorni.  Poiché l'itinerario è molto interessante, in quanto la strada attraversa le zone rese famose dai cercatori d'oro, è consigliata anche una deviazione per visitare Skagway, in Alaska, accessibile solo via mare o dal Canada, attraversando il White Pass.

Da queste due città è possibile preparare un itinerario che tocchi molti punti lungo il fiume Yukon, nella sua parte canadese. Le strade di questa regione sono poche e la maggior parte di queste sono sterrate e richiedono una buona abilità nella guida, soprattutto se si viaggia in camper.

Una guida utilissima al viaggiatore è il MILEPOST, una specie di almanacco che illustra, miglio per miglio, tutte le strade della regione elencando ogni dettaglio che si incontra, dal piccolo bar ai grandi parchi naturali.

 
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