Prologo.
Ci sono cose che sembrano accadere apposta per poi rincorrerti nel tempo. I miei primi tempi all’università sono stati segnati da un professore tremendo. Era capace di spaccarti l’autostima in due con un’ironia talmente pesante, che di notte sognavi ubriacature di alka seltzer per riuscire ad alzarti al mattino e presentarti a lezione con l’orgoglio un po’ meno ammaccato della volta prima. Quando gli mostravi i tuoi disegni, te li guardava in assoluto silenzio, allontanandoli da sé con il tipico gesto che fanno i presbiti per vederci meglio, mentre tu dall’altra parte attendevi il responso all’erta, spostando nervosamente il peso, ora sull’uno, ora sull’altro piede, come fanno i bambini quando devono far pipì. Immancabilmente, alla fine, se ne usciva con una delle sue sparate che facevano più morti che feriti – e quelli in fila dietro di te che si sbellicavano dalle risate. D’altra parte, non ho mai capito – né saputo – se il suo fosse uno show a beneficio degli astanti o se fosse un particolare modo di essere che esprimeva anche quando era dal dentista. A me è capitato, piuttosto banalmente, di vedermi buttare il foglio quasi in faccia ed essere apostrofata bruscamente con un “Ma che sei, un lanciatore di coltelli? Hai disegnato delle frecce che paiono delle baionette”. A me sembravano delle normalissime frecce. Ma chi se le scorda più.
Il fatto.
Ci sono cose che, dicevo, nel tempo, sembrano rincorrerti. Alcuni giorni fa, infatti, la stessa scena si è ripetuta, quasi identica, nel mio studio. Riuniti attorno ad un tavolo, il mio capo ed un giovane architetto neoabilitato, appena entrato a far parte della nostra ‘scuderia’, discutevano tranquilli attorno ad un progetto, quando, ad un certo punto, il mio capo ha levato urla tanto disumane che sembrava dovesse venir giù il soffitto. Allarmata, ho subito pensato che il mio giovane collega dovesse averne combinata una davvero grossa, tipo mettere il bagno al centro della sala da pranzo, tanto per dirne una. E invece, quando mi sono avvicinata al tavolo, ho avuto una stranissima sensazione di dejà-vù alla vista di un paio di frecce circondate da un segnaccio rosso. Eccole lì, le frecce incriminate. Le mie ex frecce. Ho alzato lo sguardo, immediatamente comprensiva, verso il volto paonazzo del povero ragazzo, che ha fatto spallucce, come a dire “che cavolo hanno, stè frecce, che non va”. Eh, ragazzo. Dillo a me.
In seguito, in macchina, diretti verso un cantiere, mi azzardo a far notare al mio capo che, forse, la sua reazione è stata un tantino esagerata (la memoria delle umiliazioni è tenace). Per un paio di frecce - e vabbè che abbiamo l’occhio clinico. Al che lui, ancora urtato, mi fa notare che “sono i particolari, che mi fanno capire tante cose dei miei collaboratori”.
Mi scappa un “Eh” talmente intriso di ironia, che lui mi guarda di traverso e mi affretto a modificare l’espressione della mia faccia in una più adeguata, comprensiva, e faccio sissì con la testa. Mi chiedo se anche lui ha avuto un professore come il mio. A guardarlo, sono sicura di sì. Anzi, il suo dev’essere stato peggio, vista l’intransigenza (esagerata) che ha sulla grafica delle frecce. Allora divento comprensiva sul serio, poveraccio. E penso: che c…, ehm, che fortuna che ho avuto.
Epilogo.
Che volete che vi dica. Il mio capo non è pazzo (almeno lo spero; esagerato, lo è sicuramente), né lo era il mio professore (non oso immaginare cosa possa essere diventato oggi). È che quello che noi mostriamo agli altri - di solito particolari che riteniamo insignificanti - dice molto di ciò attraverso cui siamo passati, ed è ciò che, per molti ma non per tutti, fa la differenza. Quelle frecce, da un lato la dicevano lunga sul grado dell’attenzione e dell’interesse per i particolari del mio povero collega, che nel nostro campo è fondamentale; dall'altro, erano la prova dell’insegnamento ricevuto e della volontà/capacità di apprendere ciò che gli era stato insegnato. Come sempre, sono le piccole cose che rivelano di noi più di quanto immaginiamo. E che o ci fregano o fanno la nostra fortuna.
Ho un caratteraccio ma anche il mio è frutto di esasperazione. Buona giornata Lu.
Per quanto riguarda te, mio dolce angelo Gioialuccicante, hai capito bene cosa volevo dire tra le mie zottate da Attila: esiste una gran quantità di superficialità tra i subordinati, semplicemente perché ritengono che un maggior impegno non porti una lira di più nelle tasche. Sembra che la soddisfazione di aver fatto bene non sia una merce appetibile. Ognuno, va da se, parla secondo la propria esperienza. Io quando ero agli albori della mia carriera ero anche più pignolo di ora: volevo emergere tra gli altri. Sai, non sono figlio d'arte ed ogni gradino della mia scala l'ho sudato fino in fondo. Con piacere e passione. E buona notte.
A proposito: zot zot zot!
Ed infatti non hanno visto l'errore madornale di grammatica. :(
io ricordo e sono grata solo a quelli che mi hanno insegnato i dettagli. non si insegna lo scibile, non si insegna il metodo. o meglio: lo si insegna attarverso i dettagli. e più la lezione ha colpito nel vivo, più si è certi che sarà stat imparata.
passo per essere una gran rompiscatole (e dotata di una certa dose di cattiveria) da parte dei miei allievi, ma dio sa se imparano!