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QUESTIONE MERIDIONALE

Post n°23 pubblicato il 15 Ottobre 2007 da gccalabria

Riccardo Realfonzo
Altro che "questione settentrionale": i dati ufficiali chiariscono che la vecchia "questione meridionale" è più viva che mai. Sempre di più, nel nostro Paese, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero si concentrano nel Mezzogiorno.
E infatti il divario con il Centro-Nord non solo non cala ma riprende a crescere. Lo dimostrano inequivocabilmente i dati relativi al prodotto interno lordo pro capite nelle regioni del Mezzogiorno che resta inferiore al 60% del valore registrato nel Centro-Nord; e non potrebbe essere diversamente, considerato che il Mezzogiorno è cresciuto negli ultimi quattro anni meno della metà del resto d'Italia (l'1,4% contro il 3,7%).
D'altra parte il ritardo del sistema produttivo è ben sintetizzato dal dato relativo al deficit commerciale meridionale, che raggiunge il 16% del Pil. Non stupisce quindi che prosegua lo stato di emergenza sociale, con gli indicatori del mercato del lavoro che rilevano valori bassissimi dei livelli occupazionali (risultano occupate il 46,6% delle persone in età da lavoro, contro il 64,2% del Centro-Nord) e dei livelli di partecipazione al mercato del lavoro (il tasso di attività registra nel Sud ben quindici punti percentuali in meno rispetto al Centro-Nord). La disoccupazione giovanile dilaga, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è tra le più basse d'Europa, e coloro che trovano un posto di lavoro entrano quasi sempre nella "trappola della precarietà", per cui a un contratto atipico segue un altro contratto atipico.
Chi avesse ancora dubbi è invitato a sfogliare il recentissimo rapporto Istat sulla povertà, dal quale si evince che il 65% delle famiglie povere italiane si trovano nel Mezzogiorno, con alcune regioni che registrano circa un terzo delle famiglie in stato di povertà. Non stupisce che i flussi migratori interni verso il Centro-Nord si siano vigorosamente riattivati e stiano rapidamente avvicinandosi ai massimi storici raggiunti nella metà del Novecento.
E dire che solo pochi mesi fa in molti ancora si affollavano a sostenere che il Mezzogiorno avesse ormai inserito la marcia giusta, grazie alla "nuova programmazione per il Mezzogiorno". In realtà si trattava solo di un giudizio affrettato in merito alla temporanea riduzione nella divergenza dei tassi di crescita tra Mezzogiorno e Centro-Nord, registrata nella seconda metà degli anni '90. Un tragico abbaglio dovuto alla circostanza che le due partizioni del Paese rispondevano con modalità e tempi diversi alla fase ciclica: il Sud incassava più lentamente i colpi della recessione europea, perché più chiuso agli scambi con l'estero e quindi temporaneamente protetto.
Ormai quanti andavano raccontando, anche nel centrosinistra, che occorreva accantonare la lettura dualistica dell'economia italiana sono rimasti senza parole. Ma non senza responsabilità, visto che è anche a causa di quella vulgata che la "questione meridionale" è stata sempre più derubricata dalla agenda delle priorità di politica economica del Paese.
A questo punto sarebbe giunta l'ora di sbarazzarsi definitivamente del mito delle "vocazioni locali", dello "spontaneismo" e delle "politiche dal basso". La "nuova programmazione per il Mezzogiorno", che ha seguito gli anni dell'intervento straordinario, si è fin troppo trastullata con le logiche bottom up, nel presupposto che il mercato sia in grado di selezionare da sé operatori e progetti imprenditoriali, e che le politiche pubbliche debbano solo limitarsi a "incoraggiarlo", mediante azioni di tipo "orizzontale", come quelle che hanno caratterizzato i Por del periodo 2000-2006. La programmazione negoziata ha deluso le aspettative. Essa ha infatti determinato una serie di finanziamenti "a pioggia", per lo più diretti alle imprese dei settori tradizionali del "made in Italy", con risultati tangibili in termini di profitti ma nulli sul piano dello sviluppo.
Ancora una volta, i dati mostrano che le ridotte esportazioni meridionali sono alimentate dalle grandi imprese figlie degli anni dell'intervento straordinario, che operano nei comparti del petrolchimico, della farmaceutica, della metallurgia e della meccanica. Altro che vocazioni locali e settori del "made in Italy".
Certo, lo scarno dibattito che ha accompagnato la definizione del Quadro Strategico Nazionale e le linee delle programmazioni regionali per il 2007-2013 presenta segni di consapevolezza della necessità di cambiare direzione e reinventare una qualche strategia di sviluppo centralizzata. Ma nel complesso siamo ancora molto lontani dal recupero di una seria politica industriale, fondata sulla programmazione economica e la pianificazione territoriale.
D'altra parte, il rilancio di una politica industriale seria per il Mezzogiorno è ostacolata anche dalla diffusa convinzione che le risorse destinate al Mezzogiorno siano eccessive e vadano contenute.
A questo "sentire" hanno purtroppo contribuito i casi di clientelismo e inefficienza, che hanno recentemente aperto dubbi sulla partecipazione della sinistra ad alcune giunte del Mezzogiorno in cui si governa da molti anni. Ma la realtà è che la spesa andrebbe riqualificata, certo non tagliata. A ben vedere, infatti, la spesa nel Mezzogiorno è già sensibilmente più bassa che nel resto d'Italia. Chiunque può verificare, dati ufficiali alla mano, che la spesa pubblica in conto capitale nel Mezzogiorno si è fortemente contratta, che anche gli stanziamenti previsti dal Qsn (Quadro strategico nazionale) ma per il 2007-2013 confermano il trend decrescente della spesa, che la spesa pubblica pro capite continua ad essere significativamente più bassa rispetto al Centro-Nord.
E poi non si può invocare una riduzione della spesa, anche per il Mezzogiorno, funzionale al cosiddetto "risanamento" della finanza pubblica, in nome dei dogmi liberisti del bilancio del pareggio. Appare infatti del tutto evidente che la spesa nel Mezzogiorno è assolutamente insufficiente a contrastare le forze dello squilibrio operanti sull'intera scala europea. È infatti ogni giorno più chiaro che l'assetto macroeconomico e istituzionale dell'Unione Europea sta accentuando la tendenza alla concentrazione dei capitali nelle regioni "centrali" e al progressivo depauperamento delle regioni "periferiche". Si tratta di fenomeni di sviluppo dualistico su larga scala, che possono essere combattuti unicamente spingendo le aree "periferiche" a compiere un "salto" nei modelli di specializzazione produttiva, che non può che essere provocato, sostenuto e indirizzato dallo Stato. Sotto questo punto di vista, il risibile bilancio dell'UE (appena più dell'1% del Pil dei Paesi membri) non consente minimamente alla politica dei fondi strutturali di contrastare la tendenza alla polarizzazione.
La gravità della "questione meridionale" richiede che i miti neoliberisti dello sviluppo endogeno e del pareggio del bilancio siano rapidamente e definitivamente accantonati. E che si riprenda a ragionare sul rilancio delle politiche industriali e su un nuovo modello di sviluppo, fondato sull'equilibrio ambientale, sulla qualità del lavoro e sulle nuove tecnologie. In caso contrario, resterà aperta la strada alle strategie confindustriali e il Mezzogiorno si troverà a pagare un prezzo sempre più alto in termini di contrazione dello stato sociale, precarizzazione del lavoro e caduta dei livelli salariali.

 
 
 
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