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INTERVISTA A FRANCESCO FORGIONE-COMMISSIONE PARLAMENTARE ANTIMAFIA

Post n°24 pubblicato il 15 Ottobre 2007 da gccalabria

Mezzogiorno, vittima anche
di una cultura subalterna
Intervista al presidente della Commissione parlamentare Antimafia Francesco Forgione che per una volta
non vuole parlare di magistrati o inchieste giudiziarie, ma del suo punto di osservazione da uomo del Sud

Gemma Contin
Francesco Forgione è il presidente della Commissione parlamentare antimafia. Da quando è stato chiamato in quel ruolo si è messo a girare in lungo e in largo il Mezzogiorno d'Italia, ma anche la Lombardia e la Toscana e il Lazio, perché in tempi di globalizzazione la "linea della palma" continua a spostarsi assieme ai flussi finanziari e alle piste del business.
Un'analisi sul Mezzogiorno non poteva dunque non partire che da un'intervista al presidente dell'Antimafia e da un ragionamento a 360 gradi che Forgione ha sviluppato prima di tutto da "uomo del Sud".

Partiamo smontando l'equazione Sud uguale mafia, che di sicuro non si attaglia ai ragazzi di Locri, a quelli di Addio Pizzo, alle migliaia di giovani siciliani calabresi pugliesi lucani o campani costretti ad andarsene.
Partiamo dal Sud e diciamo che serve un'analisi condivisa e nuove categorie di lettura della realtà, di che cos'è avvenuto negli ultimi quindici anni di politiche liberiste nel rapporto tra la società e il potere, tra i poteri, tra la politica e i bisogni della gente; di come il processo di modernizzazione capitalistica, anche nel Mezzogiorno, ha cambiato "il paesaggio sociale".

Modernizzazione capitalistica in Calabria, in Sicilia?
Chi attraversa oggi la Sicilia vede una campagna moderna, un'agricoltura organizzata, nuove produzioni agricole di qualità. Poi però vede, attraversando l'area di Milazzo piuttosto che quella di Gela devastate da industrie inquinanti, i processi di deindustrializzazione. La stessa cosa a Gioia Tauro: vedi un porto con tre milioni di container all'anno ma non vede la 'ndrangheta, e la 'ndrangheta lì controlla tutto. Io parlo di un grande processo che ha trasformato il paesaggio sociale. Vorrei per un attimo non ragionare di magistrati, di azioni giudiziarie o penali, sennò noi non facciamo né antimafia né riproponiamo una politica meridionalista per il Mezzogiorno. E il primo luogo comune da combattere è la riduzione della questione meridionale a una questione criminale o, ancora peggio, della questione mafiosa come a una questione meridionale, mentre noi dobbiamo riproporre una grande questione sociale nazionale.

Una modernizzazione senza sviluppo e con molte distorsioni.
E' vero. Il Mezzogiorno è stato attraversato da un grande processo di modernizzazione distorta, fatta dal saccheggio delle risorse, dalla dissipazione di tutti i finanziamenti pubblici che sono arrivati a fiumi, dello stupro dell'ambiente del territorio e delle coste, della cementificazione selvaggia, della distruzione di ogni sistema di diritti esigibili, di un processo di privatizzazione della politica che si è intrecciato con una trasformazione sociale e ha modificato totalmente il rapporto tra la politica e i bisogni, andando ben oltre il vecchio e tradizionale clientelismo meridionale.

Nonostante i fondi europei e gli aiuti alle imprese?
Sì, perché il Mezzogiorno in questi anni è stato segnato anche dall'assenza di un'idea di politiche pubbliche e di intervento qualificato, perché tutti quei fondi sono stati il frutto di un rapporto diretto con il primato dell'impresa, senza una logica di programmazione, che ha attraversato destra e sinistra. Penso ad Agenda Duemila, attorno a cui si sono definiti e compattati veri e propri blocchi di potere a cavallo tra imprese, studi di progettazione, società finanziarie, consulenze e mafie. L'incidenza sul tessuto produttivo reale più che bassa è nulla. A conclusione del primo ciclo di interventi europei c'è una grande ripresa dei flussi migratori dal Sud verso il Nord, soprattutto di giovani qualificati.
Quegli interventi dovevano prevedere soprattutto la creazione di un tessuto produttivo e sociale qualificato, per investire in occupazione buona, di qualità, ad alta formazione intellettuale. Invece i flussi di emigrazione che hanno ripreso a scorrere sono formati da un lato da "braccia" che vanno a lavorare in nero nei cantieri edili del nord, dall'altro da alte potenzialità professionali e intellettuali.

Un bilancio tutto negativo?
Un bilancio degli interventi nel Sud lo dobbiamo fare, ma non lo possiamo fare senza tenere conto della presenza delle organizzazioni criminali, che hanno condizionato l'indirizzo di questi interventi, ne hanno segnato il corso e di fatto li hanno gestiti. Se penso alla legge 488, la legge di sostegno alle imprese, e faccio un'analisi delle aree industriali del Sud, da Termini Imerese a Carini, da Gioia Tauro a Taranto, e faccio una mappa dei capannoni abbandonati - lo dico perché ci stiamo lavorando come Commissione Antimafia - e associo ad ogni capannone uno stanziamento della 488, io verifico che l'attività di quel capannone si è realizzata esclusivamente per il tempo di espletamento delle procedure di finanziamento. Finita la procedura di finanziamento, quell'attività o non si è mai realizzata o è morta dopo aver pagato progettisti e consulenti. Per questo al Sud abbiamo il più alto tasso di natalità e di mortalità d'impresa.
Ma quel capannone industriale in quell'area, penso a Gioia Tauro, rappresenta anche un'area occupata. Chiunque voglia venire a investire al Sud e non trova aree deve fare i conti con quell'area che è già occupata. E quasi sempre o la mediazione o il rapporto diretto avviene con la 'ndrangheta con la camorra e con la mafia.

Avere politiche pubbliche serve a mutare questo scenario?
Sì, perché ricostruire politiche pubbliche vuol dire prima di tutto riqualificare il concetto di "pubblico" nel Mezzogiorno. Concetto che è così tanto degradato per effetto della gestione di tutti gli interventi pubblici che ne hanno fatto le classi dirigenti. Se non affrontiamo questo in modo radicale, e non collochiamo il salto di qualità delle mafie dentro questo nuovo rapporto e dentro le grandi trasformazioni intervenute tra la società, il potere e i poteri - questi poteri economici che hanno assunto un primato e un condizionamento anche sui poteri politici - noi non capiamo cosa sono le mafie, che sono soggetti dinamici del processo di modernizzazione. Soggetti che si sono fatti impresa e controllano l'economia legale. Certo controllano anche le attività illegali, e noi abbiamo un problema di riconquistare alla democrazia, non solo alla legalità, intere aree del territorio. Però noi dobbiamo cercare le mafie nei punti alti dello sviluppo del Mezzogiorno, nei punti alti degli investimenti, nei punti alti delle attività produttive e della finanza. Perché lì si sono ricollocate.

Se ne sono accorti anche gli industriali. Nasce da qui l'appello di Sicindustria?
L'iniziativa della Confindustria siciliana va bene ma, attenzione, per ora è solo un'iniziativa siciliana. E' da quando mi sono insediato che chiedo a Confindustria di dare un segnale netto. Non c'è dubbio che la Confindustria fino ad oggi ha convissuto con le mafie, e non solo ha convissuto ma il sistema imprenditoriale è stato un pezzo del blocco di potere dominante nel quale le mafie esercitano la loro egemonia.
Quando noi abbiamo detto "si espellano dalla Confidustria tutti gli imprenditori che sono già stati condannati per mafia con sentenze passate in giudicato", per dare un segnale e invitare gli altri a ribellarsi, non abbiamo fatto un atto di propaganda, abbiamo chiesto al sistema imprenditoriale un atto di rottura.

In concreto cosa vi aspettate?
Un atto di rottura di questo tipo significa un'assunzione di responsabilità in termini di legalità sociale. Primo: riusciamo assieme a rompere il sistema degli appalti che con il meccanismo del massimo ribasso la realizzazione dell'opera arriva così sottocosto che l'impresa non può che realizzarla a due condizioni: o sfruttando in nero la manodopera e i lavoratori, oppure riciclando denaro? E spesso l'una e l'altra, in terra di mafia, con l'aggravante che in quelle aziende il sindacato non entra e non entra la legalità.
Secondo: il futuro passo di Confindustria può andare in direzione del riconoscimento dei diritti dei lavoratori, in una grande campagna contro il lavoro nero, per la sicurezza sul lavoro e, insieme, per la trasparenza sugli appalti? Si può fare un nuovo patto tra imprenditori e sindacati, interrogando la politica e il Parlamento sulle modifiche legislative e normative negli appalti?

Un vasto programma politico.
Infatti. Quando io penso alla lotta alla mafia, penso a un grande dimensione sociale che prosciughi il brodo di coltura nel quale la mafia rigenera potere e consenso. Se arriva un imprenditore del Nord in provincia di Caltanissetta per produrre vino, e la prima cosa che fa, dopo aver comprato mezza provincia di Caltanissettta, è assumere il capomafia di Riesi nella propria azienda, è chiaro che il segnale che manda quell'imprenditore, ancorché grande industriale settentrionale, è un segnale inequivocabile. Quindi non parliamo solo delle imprese del Sud, parliamo anche di un rapporto strutturato tra il sistema delle imprese nazionali e i territori nei quali è diventato "normale" nel mondo economico patteggiare con la mafia.

Confindustria cosa dice?
Per la prima volta nella storia della Commissione il presidente della Confindustria Montezemolo è venuto davanti all'Antimafia per essere audito sulla responsabilità degli imprenditori nella lotta alla mafia. E' un risultato che io rivendico, come quello di aver portato in Commissione antimafia, dopo tredici anni, il governatore della Banca d'Italia Draghi, perché non c'è dubbio che il sistema bancario è l'altra faccia del reinvestimento dei capitali illeciti nelle attività lecite. Inoltre, il sistema bancario in Italia, in particolare al Sud, da un lato pratica tassi quasi al limite con i tassi a usura, e dall'altro fa una politica che non vede, non sente e, soprattutto, non parla: non c'è una banca che denunci le operazioni sospette.

Per non parlare del disinvestimento delle banche locali.
Esatto. Nei processi di accorpamento finanziario il Sud è solo terreno di raccolta per le grandi banche. Questo è un elemento non secondario della crisi della politica degli investimenti e nei meccanismi di trasparenza dell'economia, perché l'assenza di denuncia di operazioni sospette, che per legge dovrebbero fare le banche, è un punto cruciale che alla fine fa concentrare nella banca anche i terminali dei meccanismi dell'usura che, di fronte a un processo di impoverimento generale della società meridionale, e anche del sistema del piccolo e medio commercio e delle piccole e medie imprese, diventa strumento di potere enorme di controllo della criminalità organizzata su intere aree economiche e produttive.

Non è l'unico meccanismo di trasferimento di fondi destinati al Sud. Avviene anche per le infrastrutture.
Devo dire a questo proposito che c'è bisogno di un recupero di autonomia politica e culturale anche della sinistra nel Mezzogiorno. Quando si ottiene un risultato straordinario come quello del No-Ponte anche noi, anche Rifondazione, lo valorizziamo poco. La cancellazione del Ponte sullo Stretto, fino alla chiusura della società che per anni ha pompato miliardi dallo Stato italiano, dovrebbe essere un dato da valorizzare. Se per la prima volta quest'estate non si è fatta una manifestazione contro il Ponte, è anche il risultato di quei movimenti che per anni si sono battuti e hanno scavato dentro il centrosinistra fino a far cancellare la costruzione del Ponte sullo Stretto dall'elenco delle priorità nella politica delle infrastrutture di questo Paese.
Poi però serve l'autonomia politica e culturale della sinistra e dei movimenti del Mezzogiorno. Perché andava sviluppata in positivo la seconda iniziativa vertenziale sui soldi destinati al Ponte: su come avrebbero dovuto andare a incidere nello sviluppo del territorio.

Invece?
Invece, ottenuto il risultato del NoPonte, il movimento è morto, e la subalternità del centrosinistra alla nuova egemonia della "questione settentrionale" ha fatto sì che quelle risorse venissero drenate e convogliate verso altre opere e altre aree del Paese, quando lì bisognava aprire una vertenza con i movimenti, gli Enti locali, i sindaci, i sindacati e le forze politiche perché la fine della costruzione del Ponte diventasse invece il terreno di una nuova incidenza sul sistema infrastrutturale del Mezzogiorno. Perché non si può negare che un problema di infrastrutturazione di qualità nel Mezzogiorno esiste: c'è un problema che riguarda il sistema dei porti, c'è un problema che riguarda la Salerno-Reggio Calabria, non a caso in quelle condizioni perché la 'ndrangheta ha deciso che sia in quelle condizioni.
Noi, come Commissione antimafia, andando in Calabria per la prima volta, anche simbolicamente abbiamo iniziato la nostra missione da dentro il porto di Gioia Tauro, perché quel porto può essere lo spartiacque di due idee del ruolo del Mezzogiorno nel Mediterraneo: da un lato un porto che parla di un altro sistema di relazioni tra Nord e Sud e tra le sponde rivierasche del Mediterraneo in un sistema di cooperazione internazionale; oppure, dall'altro, un grande affare per le cosche che lì controllano quasi tutte le attività, dalle assunzioni fino alle società di trasporto, fino al trasporto su gomma dei container. Insomma una vera "zona franca": o per la legalità o per le mafie. Noi abbiamo cominciato la nostra missione da lì, da dentro il porto di Gioia Tauro. Sono segnali che capiscono tutti. Vorremmo che li capisse anche la politica. Noi faremo la nostra relazione: è la prima relazione dell'Antimafia sulla 'ndrangheta, che oggi è l'organizzazione mafiosa più potente più pericolosa e più segreta: la più forte anche nella sua dimensione imprenditoriale e internazionale.

 
 
 
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