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Creato da graphitis il 27/11/2008

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« LA BALLATA DI RECULOLAPIS - parte seconda. »

IL LAPIS HA COLPITO ANCORA

Post n°20 pubblicato il 30 Aprile 2012 da graphitis

Care Amiche e Amici,

la "grafite", frenesia dello scrivere, mi ha colpito ancora, portandomi a trascurare questo blog. Riprendo ora a farne spazio di diffusione informale dei miei ultimi scritti, per chi non ha modo di leggerli altrimenti.

Qui il mio ultimo, appena dato alle stampe: LAPIS, un dialogo "platonico" in sedicesimo.

Buona lettura!

graphitis

 

LAPIS - Il dilemma di Antigone

Oddiu, s’avissi un labbisu,
sapissi la scrittura…

ANGELO

  

 Camminava a piedi nudi sul sentiero parallelo alla spiaggia, dalla sabbia fine e dura, più compatta dell’asfalto della stradina che lo prolungava, frantumata in cento crepe e fossette che le prime acque scavavano e il sole implacabile slabbrava. Sarebbe stato meglio abbandonare la strada al suo destino, dando alle buche il compito dei cordoli artificiali, di rallentare la corsa delle automobili per la tranquillità di campeggiatori e bagnanti, non fosse per la polvere lavica che, appena più distanti dal lago, si levava pesante e corrosiva.  Ai bordi del sentiero, da un lato i canneti e la breve spiaggia, dall’altra, recinzioni in rete metallica e cancelli, ognuno con la sua età e colore. Appena più in là il lago sciabordava pigro, contagiando d’indolenza i pochi bagnanti.

Angelo andava elastica e voluttuosa; accanto a lei un bell’uomo come scolpito nell’ulivo, le fattezze di un pescatore senza tempo. Si fermarono a salutare il nuovo venuto, perché erano amici.

“Mi accompagni?” – chiese Angelo quando furono soli. Lui era sceso a riprovare il tramonto, rubare al lago vibrazioni di luce, gorgheggi agli usignoli; ma far due passi con lei fino al cancello di legno, fino alla capanna era tutto questo insieme. 

“Da quando sei qui?” – chiese mentre percorrevano la striscia di prato inselvatichito – una volta era il padre a badarci o uno zio, un amico; ora qualcuno aveva frettolosamente sfrondato le erbacce, perché Angelo sarebbe venuta e amava la capanna a due passi dal lago. Certamente era quella semplicità selvaggia, agli antipodi della città dove viveva, che l’attirava, insieme ai sogni di ragazza e alle speranze di donna. Non si capiva se Angelo vivesse meglio nella città iperattiva o in quell’angolo silente; forse poteva lavorare freneticamente perché di tanto in tanto, non appena possibile, si scioglieva nell’immobilità senza tempo, in riva al lago d’acciaio.

Il sole era tramontato, gli usignoli cantavano ad uso esclusivo dei loro simili e lei ripercorreva, sorseggiando il tè, un disegno a due mani, un dialogo di segni e chimere.

“Credi che avremo un futuro?”

 

Quel giorno, della presenza di lei aveva avuto una premonizione fugace, non così intensa come nei giorni passati quando aveva sostato ad osservare il cancello in legno sbilenco, la porta della capanna chiusa. Si era chiesto, allora, se ancora non sentiva nostalgia, e si era meravigliato dell’intensità dei suoi pensieri. Da troppi mesi era mancata. L’ultima volta l’aveva vista contro i canneti, nell’insenatura dopo il ruscello, i lineamenti un po’ induriti dalla tramontana, dal sole basso sull’orizzonte. Taceva e suggeva il mistero dell’ora. Angelo, pensava, aveva fame di silenzi, di pensieri prima che di parole: quelle che ogni giorno spendeva, al telefono, per internet, erano di lucido metallo, denti d’ingranaggi vorticanti in ogni angolo del mondo perché tutto funzionasse, a partire dall’impossibile, a concludersi nel compianto. Angelo era la formula risolutiva di un problema, il collante di mille imponderabili lontani tra loro. Raccogliere, collegare, organizzare. Certamente occorreva denaro: senza il denaro, tutto sarebbe rimasto nel limbo del desiderio, nel grembo del destino; tanto denaro, eppure non più del necessario, rapportato ad ogni situazione e necessità. Che un ragazzo cadesse in un crepaccio durante una scalata sull’Himalaia o affogasse in una grotta cubana, per Angelo valeva il desiderio della famiglia di averne il corpo e la capacità economica di soddisfarlo. Se questi due elementi coincidevano, iniziava il suo compito organizzativo. Non che Angelo si occupasse solo di cadaveri, anche il recupero di feriti rientrava nelle sue competenze: solo che i feriti spesso possono aiutarsi da soli e raccolgono la solidarietà delle istituzioni. Così i defunti rientravano nella sua competenza specifica: per la loro sopravvivenza emotiva, anche dopo la morte. L’ultimo incontro, il quietarsi del dolore in seno alla famiglia, era per Angelo come per l’artista lo sguardo ad occhi socchiusi sulla sua Pietà, l’appagamento che trascende il guadagno.

 

Colse la vibrazione del telefonino nella tasca. Lesse il messaggio, una notizia insolita, perché mai dall’ufficio l’avrebbero disturbata in vacanza. Richiuse l’apparecchio, ma rimaneva pensierosa. “Scusami” – disse. “Deve essere urgente”. Chiamò.

“Angelo, non volevo disturbarla. La disturbo?”

“No, mi dica”. Era il principale.

“In casi normali non avrei turbato le sue vacanze; ma mi son detto che forse le circostanze potrebbero essere propizie, mentre in futuro non sappiamo”. Angelo taceva. Il capo continuò un po’ a disagio. “Sa, l’Armonia?”

“La nave?” – chiese Angelo.

“Sì. Se non sbaglio, è ancora arenata, non lontano da lei. C’è la richiesta di un cliente. La figlia dovrebbe essere su quella nave, e di lei si sono perse le tracce”.

“Non hanno fatto ricerche tramite la capitaneria?” – si meravigliò Angelo che da quando era a Volsinia aveva seguito le notizie del disastro, avvenuto la notte precedente al suo arrivo.

“Non vogliono rendere pubblica la notizia”. Dunque si temeva uno scandalo.

“Così dovremo agire in segretezza. Ma vuol dire interessarsi ad ogni superstite o vittima del naufragio”.

“Inizialmente, sì. Potrebbe far qualcosa?”

“Lei sa che di questa vacanza ho bisogno” – rispose Angelo dopo un lungo silenzio. L’ultimo impegno l’aveva portata ai limiti della resistenza.

“Lo so. Ma non le chiedo d’interessarsene a tempo pieno. Basta che segua la cosa senza trascurare le vacanze, per il tempo che le sarà necessario”.  Angelo ponderò le sue energie. Poi rispose di sì. “Le manderò le informazioni per e-mail” – concluse frettolosamente l’imprenditore. “Grazie!” – aggiunse poi come se le firmasse un assegno in bianco.

 

 

Angelo era riuscita a circoscrivere l’inatteso impegno, relegandolo al giorno seguente. Ora voleva godersi la sera. Ma appena rincasata, quando le pareti di casa - una casa abitata di rado, intrisa di solitudine – non le diedero più l’usata serenità, aprì di malavoglia il laptop. Meglio ora che più tardi, meglio subito che stanotte! E ritrovò l’elasticità abituale.

Il materiale fotografico dell’Armonia era pressocché infinito. Forse avrebbe dovuto catalogare le immagini tra quelle dei media ufficiali e quelle della rete. La interessavano le riprese all’interno della nave e quelle da sottobordo anche se amatoriali. Tutti cercavano le vittime, dando alla ricerca priorità assoluta. Ma aveva senso? La nave si era distesa su un fianco e scivolava sulla scogliera, inizialmente di qualche millimetro al giorno, poi più velocemente, perché il mare ingrossava. Nel gran ventre, intanto, marcivano cadaveri e generi alimentari, colavano acidi, oli, detersivi. Confrontando le prime immagini con le più recenti, Angelo aveva le sensazione di un mutamento visibile: il mare lentamente inghiottiva il gigante ferito, anche se il capitano – ma era vero? – diceva d’averla portata ad incagliarsi sugli scogli per limitare il disastro.

Si era stesa sul letto, ma non riusciva a staccarsi da quelle visioni: molto meno si era soffermata sulle scialuppe calate troppo tardi, sul disperato abbandono degli ultimi passeggeri in bilico sulle costole della nave, su quella geometria assurda che faceva delle pareti pavimento e del pavimento insormontabile murata. Stesa sul letto: se fosse stata in una cabina bloccata dall’acqua che inesorabilmente l’invade! Non era stata mai in crociera: non era il genere di vacanze che preferiva; ma per motivi di lavoro, anche se raramente, aveva affrontato viaggi per mare. In navigazione, andava incontro a mille ritardi; ma almeno poteva raccogliere conoscenze ed esperienze, capire la gente di mare come a Volsinia cercava di capire i pescatori del lago.

Silvano, ad esempio, dalla capanna non lontana dalla sua, rabberciata proprio sulla riva, difesa con mille espedienti contro le mareggiate: cucine, frigoriferi interrati, palizzate, inferriate, tronchi e sassi a formare un molo al cui riparo dormiva la barca più bella del lago.  E, ai margini, cespi di mentuccia che danno sapore al pesce.  Silvano, con i gatti dolci e selvaggi che lo amano, che con ogni tempo, non ostante l’età avanzata, getta le reti dove solo lui sa, in pesca solitaria, sulla barca villanoviana dal ventre piatto, i remi sfalsati, eppure con un entro-fuoribordo ormai d’obbligo per ragioni di sicurezza - ma non basterebbe se la tramontana precipitasse dai monti, increspando appena e sospingendo l’acqua a settentrione per scaraventarla urlando a mezzogiorno. Messaggio di morte, la tramontana, se ti sorprende al largo, da non ignorare neanche quando si veste di brezza! Angelo amava la brezza che inganna il sole rovente dell’estate. La sua barca, una tavola da surf: distesa, remigava con le mani fino al largo; poi si rigirava sul dorso, donandosi al sole. Forse passava una barca di pescatori; ma l’avevano vista bambina e poi crescere un po’ selvaggia: nessuno l’avrebbe infastidita e lei non era un avannotto da pescare con reti sottili, piuttosto uno di quei pesci di scoglio che tra le pinne nascondono l’aculeo.


 
 
 
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