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I comuni e la trappola dei costi standard (fonte voce.info)

Post n°30 pubblicato il 02 Agosto 2014 da IsolaRizzaInforma

In autunno ci aspetta una manovra sui comuni basata sui fabbisogni standard? È uno strumento da utilizzare con cautela. Perché se è una buona idea mettere a disposizione dati e informazioni per un confronto sulle modalità di offerta dei servizi, altra cosa è pensare di servirsene per fare cassa.

IL FABBISOGNO STANDARD

Tra le manovre che il Governo si preparerebbe a varare in autunno, si fa strada con sempre maggiore insistenza un intervento sugli enti territoriali, comuni in primis. La novità è che si pensa di intervenire utilizzando le nuove stime dei fabbisogni standard, la cui metodologia di calcolo è stata recentemente approvata dal Consiglio dei ministri.
L’idea in linea di principio è sacrosanta: se ridurre si deve, invece di applicare i soliti tagli lineari e colpire nel mucchio, è meglio chiedere maggiori sacrifici a chi spende di più rispetto a quanto sarebbe necessario, il suo fabbisogno standard appunto. Se l’idea è giusta, l’applicazione però potrebbe risultare perniciosa, almeno alla luce di quanto ora noto sulla metodologia usata per il calcolo dei fabbisogni. In sostanza, così come sono ora, i fabbisogni vanno bene per qualche operazione di benchmarking; non per far cassa.

LA BANCA DATI

La stima dei fabbisogni standard per i comuni delle Regioni a statuto ordinario nasce col decreto legislativo 26 novembre 2010, n. 216, che assegna a Sose, la società di proprietà pubblica che già si occupa di stimare gli studi di settore, l’identificazione delle soluzioni metodologiche proprio per la determinazione degli standard di spesa. Secondo il decreto, Sose si deve avvalere della collaborazione scientifica di Ifel, il centro studi dell’Anci, mentre alla Commissione per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff) spetta l’approvazione delle soluzioni via via individuate. In una prima fase, la collaborazione tra Sose e Ifel ha generato una gigantesca operazione di raccolta dati, tramite la somministrazione di questionari ai singoli comuni, sulla organizzazione interna e sulle modalità di produzione dei servizi. L’operazione si è conclusa nel 2011. La banca dati raccolta è straordinaria per ampiezza e livello di dettaglio e integra quanto già noto dai bilanci. Sono gli stessi dati che, dopo essere stati controllati e rivisti da Sose e da Ifel, sono stati messi ora a disposizione dei comuni (non ancora dei cittadini) tramite OpenCivitas e che costituiscono le informazioni elementari a partire dalle quali sono stati poi determinati gli standard. Sono informazioni utili, anche se naturalmente un po’ datate, alla luce di tutto quello che è successo con la crisi dal 2011 a oggi.

LE STIME

Fin qui, comunque, tutto bene. È ciò che succede dopo che genera i maggiori dubbi. L’approccio che si decide di seguire all’inizio è quello della “funzione di costo” di servizi comunali, che dovrebbe consentire di determinare il minimo costo necessario per produrre un certo livello di servizio. Ma questo approccio si scontra subito con alcune difficoltà. Tralasciando gli aspetti più prettamente tecnici (come la determinazione per legge delle macro-funzioni per le quali determinare gli standard, che non ha molto senso da un punto di vista economico, o la mancanza di analisi di robustezza nelle stime), la prima questione è che gli scostamenti per alcuni municipi rispetto al benchmark risultano essere così ampi che si preferisce stimare un costo medio standard invece che un costo minimo.
La seconda è che per molti servizi non è facile identificare una “misura” del prodotto offerto, per non parlare di una “misura” della qualità. Per fare un esempio, mentre è relativamente facile misurare il prodotto del servizio di raccolta dei rifiuti (le tonnellate raccolte), è più complesso pensare a una misura dei servizi prodotti dall’ufficio anagrafe o dai vigili urbani. Nel caso dell’Anagrafe, per esempio, si può ricorrere al numero di certificati emessi, ma è probabile che i cittadini siano invece più interessati ai tempi necessari per ottenere un certificato o alla possibilità di ottenerlo online, tramite una qualche procedura che “smaterializza” il rapporto con l’ufficio.
Viste queste difficoltà, si decide dunque di stimare una “funzione di spesa”, che dovrebbe consentire di ottenere il fabbisogno medio standard di risorse per produrre un servizio per dati indicatori di bisogno del comune (ed eventualmente dati standard di prezzo per gli input), ipotizzando che quel servizio venga poi effettivamente erogato. È un aspetto cruciale per capire le stime sui fabbisogni standard elaborati, poi ampiamente riprese dalla stampa. Per esempio, risulta che tra i comuni con più di 60mila abitanti, Perugia è la città peggiore: spende il 31 per cento in più rispetto al suo standard; mentre Lamezia Terme è la migliore, con una spesa inferiore allo standard del 41 per cento. Fra i capoluoghi di Regione, la maglia rosa spetta a Campobasso, la cui spesa è inferiore del 15 per cento rispetto allo standard; la maglia nera (dopo Perugia) va a Potenza, con una spesa in eccesso del 24 per cento. In generale, le stime mostrano come al Centro-Nord si spenda meno dello standard per quanto riguarda i servizi di amministrazione generale e più dello standard per i servizi sociali e l’istruzione; l’opposto al Sud. Solo che i servizi sociali (fra i quali per esempio rientrano anche gli asili nido) sono offerti molto meno al Sud.

I RISCHI

È evidente che usare questi numeri per separare gli “spendaccioni” dai “risparmiosi”, senza tenere conto di quantità e qualità dei servizi offerti, può generare disastri. Si rischia cioè di identificare tra i risparmiosi quelli che non offrono i servizi e tra gli spendaccioni quelli che invece i servizi li offrono. Inoltre, le stime sono state fatte senza tener conto di capacità e sforzo fiscale. Per cui un comune che ha, legittimamente, deciso di tassare di più i propri cittadini per offrire più servizi rischia di passare come spendaccione, mentre un comune che ha deciso di non offrire i servizi, e dunque di non tassare, è per definizione un risparmioso. Ma se la nozione di autonomia ha un senso, è appunto quello di consentire a sindaci e consiglieri comunali di scegliere la combinazione tasse, tariffe e servizi che più gli aggrada, soggetti al giudizio dei propri elettori.
In conclusione, mettere a disposizione dati e informazioni per operazioni di benchmarking sulle modalità di offerta dei servizi è un’ottima idea, anche quando le informazioni sono incomplete, come in questo caso. È utile per i cittadini ed è utile soprattutto per gli amministratori comunali, che hanno uno strumento in più per imparare a far meglio confrontandosi con gli altri. Dove esiste un output misurabile e qualificabile è utile anche per finalità di controllo della spesa e dovrebbe essere utilizzato a tal fine. Dove però questo non c’è, il procedimento è rischioso. Pur in una situazione di crisi finanziaria, il Governo dovrebbe resistere alla tentazione di usare strumenti non pensati a questo scopo per far cassa.

Massimo Bordignon,Gilberto Turati

 
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