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Le parole e l'ascolto

Post n°20 pubblicato il 23 Marzo 2011 da carpedieam

Le informazioni trasmesse con il linguaggio sono il prodotto conclusivo dell’elaborazione della percezione sensoriale.

Questo significa che tutte le volte che parliamo attiviamo un processo che ha una precisa sequenza temporale: comincia con un insieme di concetti, idee, emozioni e rappresentazioni interne e si conclude con la trasmissione di informazioni digitalizzate (sequenze di lettere organizzate secondo regole grammaticali a cui si attribuiscono significati convenzionali).

Per converso tutte le volte che ascoltiamo delle parole lo stesso processo ha una sequenza inversa: l’input di informazioni codificate (linguaggio) produce delle rappresentazioni interne e una serie di reazioni sensoriali.

Questa dinamica a due vie implica un continuo scambio di informazioni tra i due emisferi cerebrali; le rappresentazioni interne risiedono infatti nell’emisfero cerebrale destro mentre la capacità di trasformarle in parole e frasi è propria dell’emisfero cerebrale sinistro.

La congruenza linguistica


La congruenza della comunicazione è una conseguenza dell’effettiva corrispondenza di questo scambio di informazioni. Quando vi è simmetria tra le parole utilizzate e le rappresentazioni interne sottostanti il messaggio è attendibile.

E’ quindi possibile estrarre dalla linguistica informazioni relative al sistema di valori, di convinzioni e all’identità del nostro interlocutore; queste informazioni sono fondamentali per instaurare una sintonia profonda e comprendere ciò che è veramente importante per lui. Ci aiutiamo con un esempio.

Se una persona ci dice “…io sono un fumatore” ci descrive un aspetto della sua identità. Le rappresentazioni interne di “se stesso” sono di un “se stesso fumatore”, ben salde e riferite al proprio “essere”.
Una espressione come “….fumo 40 sigarette al giorno” ci fa capire invece che le rappresentazioni interne si riferiscono a un comportamento e sono quindi riferite ad un “fare” meno profondo e immutabile di una immagine della propria identità.
Tra le due circostanze la prima è sicuramente più radicata anche se il numero delle sigarette giornaliere fumate dovesse poi risultare inferiore.

Quando percepiamo invece che le parole utilizzate sono poco corrispondenti alle effettive rappresentazioni mentali del nostro interlocutore ci troviamo in presenza di un piccolo conflitto di emisferi. Il messaggio esprime delle incoerenze già sul piano linguistico e per comprendere il pensiero più profondo dobbiamo risalire all’informazione prima che sia trasformata in parole con il processo di digitalizzazione. In che modo?

Se una persone ci dice “… l’inquinamento è un fatto, non combatterlo solo a parole” esprime in apparenza una chiara esortazione a fare qualcosa per combattere l’inquinamento.

In realtà se ci chiediamo quali rappresentazioni interne hanno prodotto quel tipo di messaggio acquisiamo una serie di ulteriori informazioni ben più preziose e profonde:

  • “l’inquinamento è un fatto”
    • le rappresentazioni interne descrivono di una condizione statica (fatto) che non è in discussione
    • il focus della persona è sul problema (da per scontato che le cose vanno in questa direzione e che non è possibile cambiarle)
  • “non combatterlo solo a parole”
    • il messaggio è aggressivo (è implicito che sino ad oggi l’altro è colpevole di aver limitato suo agire “solo a parole”) e tende a far leva sui sensi di colpa (l’uso del termine combatterlo e coerente con l’aggressività)
    • la persona si sente deresponsabilizzata rispetto all’inquinamento o ritiene di avere già assolto al suo dovere, forse semplicemente denunciando la cosa (non combatterlo invece di non combattiamolo), adottando esattamente il comportamento che lui stesso intende censurare (combatterlo solo a parole)
    • l’uso della negazione (comprensibile solo dall’emisfero sinistro) denuncia rappresentazioni interne corrispondenti a persone che “combattono solo a parole” e anche in questo caso si da per scontato che le cose continueranno ad andare in questa direzione (l’emisfero destro legge solo il positivo, pertanto se io dico che “non” sto pensando al fuoco le immagini mentali che si formano nel mio emisfero destro sono proprio quelle del fuoco)

In sintesi ci sono buone probabilità di trovarsi di fronte ad una persona che considera l’inquinamento un fenomeno inevitabile ed è convinto che ci sia ben poco da fare per migliorare le cose, se non prendersela con gli altri. Potrebbe trattarsi di semplice demagogia finalizzata all’acquisizione di consenso o anche del risultato di una frustrazione scaturita da una presunta indifferenza degli altri verso il problema o molto più banalmente di una persona che in quel preciso giorno ha solo voglia di prendersela con il mondo perché è diverso da come lo vorrebbe lui.

Una persona che intende veramente fare qualcosa per l’ambiente utilizza espressioni differenti, ne riportiamo alcune ad esempio: “Possiamo adottare piccole soluzioni quotidiane che migliorano l’ambiente. Impegniamoci nella riduzione delle dispersioni di energia e facciamo cultura in questa direzione. Diamo preferenza nei nostri acquisti ai prodotti che tutelano l’ambiente e l’energia pulita. Come elettori e opinione pubblica possiamo influenzare le scelte dei governi. Assumiamo l’onere e l’onore di costruire un mondo migliore per noi stessi e per le generazioni future. So bene che portare avanti questa sfida richiede un impegno forse troppo grande per un singolo uomo ma restare concentrati sul tema e testimoniarlo quotidianamente con i fatti è un’assunzione di responsabilità che ognuno di noi può e deve sostenere.”

Ascoltare oltre il valore semantico delle parole significa raggiungere l’origine del messaggio, comprendere gli stati d’animo e le rappresentazioni interne che vi sottostanno. La sola linguistica, però, per quanto fornisca già un numero di informazioni rilevanti, non è sempre sufficiente, da sola, per comprendere in maniera più profonda il nostro interlocutore.

La congruenza della comunicazione


Una comunicazione avvenuta in presenza ci avrebbe fornito molte più elementi da poter interpretare. E’ possibile infatti ricercare la congruenza tra le rappresentazioni interne, la linguistica, il paraverbale (tono, volume, cadenza, etc..) e il non verbale (mimica, gestualità, postura, espressioni facciali).

Diversi studi sul linguaggio del corpo si sono concentrati sull’individuazione di precise codifiche per attribuire un significato a ciascun gesto, espressione o postura.
Tutte le ricerche convergono però su un aspetto: ogni segnale del corpo va valutato come semplice indicazione e inserito all’interno di un quadro generale più ampio.

Molto interessanti a riguardo gli studi sulle espressioni facciali del professor Paul Ekman dell’Università della California di San Francisco.
Ekman ha studiato per 40 anni le espressioni umane e, insieme allo psicologo Wallace Friesen, ha codificato 43 movimenti facciali involontari dalla cui combinazione scaturiscono circa 10.000 microespressioni indicative di particolari stati d’animo.
Gli studi di Ekman furono condotti in Cile, Argentina, Giappone e anche tra le tribù della Nuova Guinea confermando l’universalità delle microespressioni.

Le suggestive scoperte di Ekman hanno ispirato anche la fortunata serie di telefilm “Lie to me”; tra queste ne riscontriamo una che assume particolare importanza: la retroattività del meccanismo.

E’ noto che gli stati d’animo determinano le microespressioni; la scoperta di Ekman è che tentando di riprodurre una espressione facciale per lungo tempo si producono effetti sulla pressione del sangue, sul battito cardiaco e si può suscitare l’emozione corrispondente. Esiste quindi un meccanismo retroattivo che parte dai muscoli facciali e raggiunge i centri nervosi.

Questo tipo di retroattività è ancora più consistente quando è collegata alla linguistica utilizzata e alla postura in generale. Evocare a parole uno stato d’animo significa esporre in primis se stessi a questo condizionamento proprio perché “ci si ascolta quando si parla”. Il tutto ovviamente si amplifica quando vi è un meccanismo di ripetizione.

La retroattività del meccanismo è molto utile nella comunicazione perché permette di attivare processi di consolidamento di stati d’animo positivi anche quando in realtà si tratta di semplici dichiarazioni di circostanza.

Per gli stessi principi se una persona racconta una bugia un elevato numero di volte avrà prodotto sull’argomento grandi quantità di rappresentazioni interne che andranno gradualmente a confondersi con la realtà. Questo fenomeno renderà sempre meno evidente il conflitto di emisferi e di conseguenza anche la nostra capacità di svelare la menzogna. Lo stesso Ekman è giunto alla conclusione che quando una persona ha già ingannato gli altri in più occasioni comincia a credere alle proprie bugie ed è più complicato riconoscerle. Le menzogne dette per la prima volta e quelle che hanno una maggiore componente emotiva sono le più facili da svelare.

La naturale predisposizione all’ascolto


In realtà la capacità di ascoltare e di osservare sono attitudini arcaiche dell’uomo ancora ben presenti nei nostri geni.

Riconoscere un comportamento ostile era una necessità di sopravvivenza per i nostri antenati (in realtà in molte aziende lo è anche adesso, ma è molto più celato); ascoltare ci ha aiutati a comprendere l’avvicinarsi di pericoli prima che questi si rendessero visibili; il nostro udito si è sviluppato ancora prima della nascita, nel grembo materno.

Eppure Steven Covey dice “..la maggior parte delle persone non ascolta; parla o si prepara a parlare”.

Per certi versi l’espressione è condivisibile. Cosa spinge allora le persone a rinunciare a raccogliere informazioni preziose e a lasciar posto all’ansia di esprimere la propria opinione?

La capacità di ascoltare e comprendere gli altri libera un potenziale enorme sul piano della comunicazione. Rende possibile entrare in sintonia, instaurare relazioni profonde, orientare le decisioni e i comportamenti.

Un gestione matura e responsabile della capacità di ascolto combinata con le giuste tecniche di comunicazione permette di dare il via anche a cambiamenti profondi.

Le applicazioni concrete sono in tutti gli ambiti professionali: nel coaching, nel rapporto medico paziente, nell’insegnamento, nella vendita, nella gestione delle risorse umane e anche semplicemente nelle relazioni interpersonali come il rapporto di coppia o quello genitori/figli.

 
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Leaderschip

Post n°19 pubblicato il 23 Marzo 2011 da carpedieam

Offrire una proposta di valore unico Essere i più bravi o essere unici Spesso il vantaggio competitivo è inteso come la capacità di fare meglio dei concorrenti come, ad esempio, produrre lo stesso prodotto a costi più bassi o con caratteristiche superiori. Questo tipo di leadership, per quanto evidenzi la presenza di “best practices”, non soddisfa pienamente la definizione di strategia competitiva. I vantaggi competitivi, infatti, non possono essere “congelati” e devono essere costantemente incrementati per non essere erosi. Difendere una leadership di prezzo o di prodotto dall’attacco dei concorrenti diretti e di altre forze competitive (nuove tipologie di competitors, servizi o prodotti sostitutivi, potere contrattuale di clienti o fornitori) richiede lo stanziamento di risorse che contribuiscono a ridurre progressivamente i margini incidendo direttamente sul ritorno degli investimenti. Tendenzialmente i mercati relativi a prodotti che soddisfano bisogni già emersi sono quelli che presentano arene competitive più estese con una quantità infinite di aziende che si sfidano quotidianamente. L’elevato numero di “challengers” rende altamente probabile che una posizione di vantaggio competitivo venga attaccata e superata, talvolta anche eludendo regole. Questa dinamica spinge il prezzo in basso riducendo sempre più i margini. A quel punto la domanda che una azienda deve farsi non è più “Quanto vale il mio prodotto o servizio?” ma è “In che modo posso diminuire i prezzi per battere la concorrenza?”. La risposta a questa domanda è molto spesso ridurre i costi, migliorare l’efficienza eliminando le disfunzioni e aumentare le quote di mercato per compensare la riduzione di marginalità con volumi maggiori. Chiaramente, con consumi stabili per ogni azienda che incrementa la sua quota di mercato, ve ne sono una o più che vedono i propri fatturati ridursi. Il meccanismo determina così la marginalizzazione delle aziende soccombenti che, a loro volta, alimenteranno un circolo vizioso difendendosi con una sempre maggiore propensione al non rispetto delle regole. Cosa bisogna fare allora per avere un posizionamento strategico? Una proposta di valore unica (incomparabile) è il risultato di una disamina dei bisogni che un prodotto o un servizio possono soddisfare; vi sono più strade da percorrere per individuarla, oltre quella dell’ innovazione e dei brevetti. Proposta di valore e margini I criteri per l’esplorazione dei bisogni sono quello spazio/temporale, quello delle gerarchie dei bisogni, quello delle funzionalità indirette e consequenziali, quello della parcellizzazione, quello dei bisogni accessori e complementari. Il vantaggio di una proposta di valore unico è insito nella possibilità di determinare i margini dovendo soddisfare una sola condizione: “Quanto i consumatori sono disposti a pagare per la soddisfazione di questo bisogno?” Un esempio tipico di proposta di valore unico è rappresentato dall’Harley Davidson. Negli anni ‘70, la maggior parte delle aziende produttrici di motociclette ha dovuto misurarsi con l’invasione dei produttori giapponesi. I marchi europei e americani soffrivano una concorrenza a cui non erano abituati: le moto giapponesi erano più veloci, più affidabili e più economiche. L’Harley Davidson rinunciò alla battaglia con gli altri produttori e investì sulla sua proposta di valore unico. La maggior parte dei produttori di moto dell’epoca scomparvero (salvo il recupero dei soli marchi avvenuto molti anni dopo). I giapponesi ancora oggi detengono una quota di mercato enorme e ingaggiano battaglie di prezzo/prestazioni che hanno ridotto i loro stessi margini al minimo, mentre la Harley Davidson continua a produrre e commercializzare una moto che rappresenta uno stile di vita, un modello comportamentale. L’azienda ha una sua quota di mercato ben protetta, continua a decidere i prezzi di vendita delle sue moto svincolata da meccanismi di concorrenza e conserva margini di tutto rispetto. Un altro percorso può essere esplorare quello che un altro docente di Harvard, Clayton M. Christensen, definisce il mercato del non consumo. Si tratta di prodotti o servizi che soddisfano bisogni anche importanti di cui però i consumatori non percepiscono ancora l’urgenza. Un esempio estremo, ma che ci può essere utile a inquadrare il concetto, è quello dei piccoli estintori ad uso domestico. Si tratta di prodotti dal costo contenuto, che non sono soggetti a ricarica, ecologici e atossici ma soprattutto si tratta di prodotti che tenuti in casa o in auto possono, all’occorrenza, avere un valore che può andare ben oltre il denaro. La loro importanza, però, non è solo correlata alla eventuale necessità di utilizzo, che appare fin troppo evidente. Vi è un ulteriore controvalore rappresentato dalla tranquillità che genera il solo fatto di sapere di averne uno in casa, anche e soprattutto nell’auspicabile caso in cui non lo si debba affatto utilizzare. Pur essendo importante è un bene che raramente è presente nelle case e nelle auto degli italiani. Il punto è, che nel momento in cui diviene urgente averne uno a disposizione, non c’è più il tempo per andare ad acquistarlo!! Posizionamento strategico – determinazione della proposta di valore La ricerca di un posizionamento strategico è un processo strutturato per la costruzione di una proposta di valore unico ed è anche e soprattutto un modello di pensiero. Si tratta, infatti, di andare spesso controcorrente. Tendenzialmente si preferisce “seguire il mercato”, investire sui “prodotti che si vendono”, sui bisogni già emersi, o anche si preferisce emulare i modelli di riferimento. Quelle, però, che in apparenza appaiono come le strade più sicure conducono in realtà verso i comparti dove le dinamiche competitive sono già esasperate e i margini teorici in condizione di totale efficienza sono tendenti a zero. Caratterizzare la proposta di valore, invece, è una percorso più complesso ma allo stesso tempo più sicuro e profittevole!! Il processo di esplorazione dei bisogni per la determinazione della proposta di valore unico può concretizzarsi in un prodotto o in un servizio, o anche più semplicemente in una modalità di distribuzione, che individuino nuove prospettive di mercato. Caratterizzare la propria proposta di valore e differenziarsi sul mercato è utile, inoltre, a intercettare in anticipo cambiamenti di scenario derivanti dalle forze competitive e nel change management, per orientare e condurre l’intera organizzazione verso nuovi obiettivi e risultati. Al vantaggio competitivo, derivante dall’oceano blu di un mercato senza competitors, si aggiunge in questo modo la capacità di trovarsi sempre un passo avanti rispetto ai cambiamenti. Massimizzare la percezione finale della proposta di valore richiede anche uno sforzo di allineamento della rete distributiva. Come ogni impianto industriale anche la vendita è un processo ben definito, sebbene abbia dinamiche e logiche diverse da quelle della produzione di un bene materiale. Conoscere e governare le variabili di processo della distribuzione, significa detenere il controllo di una delle aree decisive per la produzione dei ricavi, stimare esattamente dimensionamenti e approvvigionamenti e presidiare la corretta comunicazione della proposta di valore. Quante aziende attraverso la distribuzione hanno acquisito posizioni di comando in mercati dove i rivali potevano vantare prodotti o servizi più competitivi? Sviluppare una catena di generazione del valore articolata Processi e best practices La catena di generazione del valore è l’insieme delle attività necessarie per progettare, produrre, vendere e consegnare un prodotto, nonché per porre in essere adeguate forme di assistenza alla clientela successiva alla vendita. Si tratta in pratica del complesso mondo dell’impresa, logistica in entrata, produzione o trasformazione, logistica in uscita, marketing e vendite e servizi post vendita al cliente e di tutte la attività a supporto dei flussi interni ed esterni. Una catena di generazione del valore articolata, efficiente, granulare e ricca di best practices rende la proposta di valore unica e “inimitabile”, in quanto qualsiasi competitor si troverebbe, per compensare il vantaggio competitivo che ne consegue, a dover investire risorse ingenti avendo però tempi, modi e circostanze differenti. Un esempio di catena di generazione del valore difficile da imitare è quella della DELL. Si tratta di un comparto “saturo e altamente competitivo” come quello dei computer, presidiato da colossi mondiali come IBM, Compaq, HP, Acer, etc…. Con questo scenario la DELL ha definito una proposta di valore che in apparenza può sembrare imitabile. Il livello di competenze e di dettaglio raggiunto in tutte le fasi dei processi aziendali, però, fa sì che la proposta di valore DELL sia ancora unica e che l’azienda abbia raggiunto in poco più di un decennio una quota di mercato nella vendita dei personal computer superiore al 50%. Il modello organizzativo DELL è visibile, pubblicizzato ed è oggetto di specifica comunicazione interna e al mercato. Questo aspetto ci fa comprendere bene quanto l’azienda si senta protetta da tentativi di imitazione e ci da anche la misura dell’attenzione riservata alla fase della commercializzazione, ritenuta un momento chiave per la percezione corretta della proposta di valore. Questo risultato si ottiene sviluppando qualità in ogni singolo processo aziendale (e nei raccordi tra i vari processi) con un approccio granulare utile a individuare ogni piccolo dettaglio che generi un plus e arricchisca la proposta di valore unico dell’azienda. Vendita e generazione del valore L’attività di vendita è quella che maggiormente beneficia della proposta di valore ed è anche quella che ha la responsabilità di favorirne la percezione corretta presso l’utente finale. In alcuni casi, anche in presenza di proposte di valore simili, la capacità della rete distributiva di aumentare la percezione di qualità, può generare vantaggio competitivo. Nella vendita dei programmi di risparmio assicurativi, ad esempio, è abbastanza probabile incontrare un agente che evidenzi l’utilità di disporre in futuro di riserve finanziarie; è molto raro, invece, incontrare un agente che metta in evidenza il vantaggio di poter subito destinare ai consumi quanto non accantonato, traendone totale pienezza di godimento, grazie anche alla consapevolezza di aver già accantonato le giuste risorse per le esigenze future. In questo secondo caso, il valore prodotto dall’utilizzo di una argomentazione commerciale “indiretta” è molteplice: •la manifestazione di utilità dell’acquisto si sposta dal futuro al presente; •le rappresentazioni interne sono positive (spendere e trarne godimento) e rassicuranti (so di aver accantonato quanto serve, quindi non ho conflitti interni); •l’argomentazione utilizzata “sorprende” l’interlocutore, sbilanciando le naturali resistenze e le contrapposizioni tipiche delle dinamiche negoziali. E’ chiaro che una semplice argomentazione non può da sola sciogliere il nodo della vendita, ma quali effetti si possono ottenere sviluppando decine di argomentazioni indirette o consequenziali? Quanto un approccio di questo tipo incide sulla percezione della proposta di valore? Posizionamento strategico – catena di generazione del valore La catena di generazione del valore si realizza sviluppando best practices coerenti con la proposta di valore unico. Occorre, quindi, analizzare ad un livello di dettaglio sempre più granulare i singoli processi (e i loro raccordi) e individuare le aree di generazione del valore. Ricercare le eccellenze e modellarle e fare Coaching ed Empowerment L’efficienza, l’iniziativa, la creatività, si manifestano con comportamenti eccellenti. Alcuni di questi comportamenti sono ragionati e processati mentre altri sono il risultato di adattamenti resi necessari dai contesti ambientali che si sono poi consolidati con il tempo. L’attività di modeling consiste nell’individuare questi comportamenti eccellenti e nell’estrarre il sistema di valori, convinzioni, credenze e competenze che li hanno prodotti. Il risultato più evidente ottenuto con il modeling è l’acquisizione da parte del “modello di riferimento” di un livello di consapevolezza e di fiducia nei propri mezzi più elevato. Modellare l’eccellenza, inoltre, significa sviluppare un know how che, condiviso internamente con i tempi e le modalità giuste, attiva dinamiche esponenziali di generazione di valore. Per ottenere risultati occorre un mix organizzato di motivazioni, competenze e convinzioni. L’attività di coaching consiste nello stimolare riflessioni in queste tre direzioni. Trovare le risposte giuste è semplice quando ci si pone le domande giuste. Definire un obiettivo, verificarne l’effettiva compatibilità con il sistema di credenze, valori e convinzioni personali e aziendali, procedere ad un graduale allineamento, ricercare le risorse interiori e potenziarle, sviluppare determinazione e convinzione di autoefficacia, pianificare le attività e i sistemi di verifica dei risultati, rinnovare le motivazioni e renderle persistenti e durature, (…..) sono alcuni degli effetti che l’attività di coaching produce e facilita. L’empowerment è un processo graduale di rilascio alla propria organizzazione di competenze, autonomie e responsabilità. Per individuare le eccellenze ai più piccoli livelli di dettaglio occorre attivare dinamiche che coinvolgono direttamente la base esecutiva. Solitamente, coinvolgere chi ogni giorno opera, comporta dover ascoltare e raccogliere una grande quantità di suggerimenti e di informazioni. Molti di questi suggerimenti sono il risultato di visioni parziali, strettamente attinenti alla mansione e difficilmente collegati al resto del contesto. Altre volte si tratta di lamentele dettate da una personale insoddisfazione, oppure costituiscono l’occasione per sottolineare quanto si sia bravi a rimediare a tutta una serie di disfunzioni organizzative. Una corretta attività di empowerment produce il risultato di attivare dinamiche costruttive e di stimolare le riflessioni del team, valorizzando comunque il contributo di tutti, indirizzandole verso valutazioni di fattibilità e di compatibilità con i valori e processi aziendali. I risultati di questo approccio si sono rivelati sorprendenti: •produzione di tecnologie; •condivisione di know how all’origine; •motivazione e gratificazione professionale; •comprensione delle dinamiche aziendali più ampie; •sviluppo di senso di appartenenza e responsabilità; •identificazione nella vision aziendale e nella mission individuale. Definire i “Trade-off” Scegliere a quale business rinunciare La ricerca di una proposta di valore unico richiede la capacità di individuare un obiettivo di business e la fermezza di decidere a quali altri business si intende rinunciare. Tenere il focus sulla propria strategia è una condizione essenziale per raggiungere il risultato e qualsiasi divagazione o opportunità che distolga energie e risorse può rivelarsi estremamente pericolosa. Un esempio, che la natura ci fornisce per comprendere meglio il concetto di trade-off, è quello della strategia di caccia del ghepardo. Preventivamente, il predatore osserva il branco e individua il suo obiettivo, poi si avvicina il più possibile senza rivelare la sua presenza e sferra l’attacco. Il branco spaventato fugge e tutti gli animali corrono all’impazzata. In realtà uno solo di loro è in pericolo perché è nel focus del ghepardo; se anche un altro animale del branco si trovasse in sua prossimità lui lo ignorerebbe per continuare a inseguire la sua preda. L’istinto del ghepardo gli ha insegnato a non disperdere le energie. Molto spesso le aziende seguono le tendenze del mercato e si lasciano tentare da opportunità, anche valide, che però comportano un danno maggiore del beneficio perché producono distrazione e rallentamento nell’applicazione di una strategia. La scelta dei trade-off è anche fondamentale per la definizione del quadro strategico. Una azienda che intende investire in ogni ambito della sua produzione corre il rischio di appiattire i suoi margini. La compagnia aerea Vueling ha scelto destinazioni europee e nord africane e si rivolge a passeggeri con solo bagaglio a mano. Il risultato di questa strategia è un notevole risparmio sui servizi di terra relativi alle operazioni di sbarco dei bagagli e la possibilità di offrire un volo con alti standard di sicurezza ad un prezzo imbattibile. A fronte di questa leadership c’è però la precisa rinuncia ad un target di passeggeri con bagaglio (per il quale è previsto un costo aggiuntivo per singolo bagaglio se prenotato preventivamente che raddoppia in mancanza di prenotazione). Rinunciare alle rotte lunghe ha anche permesso di organizzare i voli in maniera da consentire al personale il rientro al proprio domicilio, con un ulteriore risparmio dei costi di soggiorno, di pernottamento e di indennità al lavoratore. In pratica, con piccoli accorgimenti al quadro strategico e con dei precisi trade off, la Vueling si è ritagliata un proprio ambito di business, con clientela fidelizzata e una marginalità che la concorrenza “generalista” non può intaccare. Adeguamento del quadro strategico Modificare il quadro strategico con le attività a regime richiede valutazioni specifiche, una corretta pianificazione e la gradualità necessaria per allineare tutte le funzioni aziendali. E’ possibile gestire la transizione organizzando dei processi ex novo e migrando gradualmente i volumi e le funzioni, oppure, intervenire sui processi già in essere, implementandoli progressivamente. Dare continuità temporale con orizzonti di medio periodo Comunicazione interna, fiducia e credibilità Un approccio strategico richiede continuità di applicazione e una direzione ben definita. Con i giusti orizzonti temporali i vantaggi competitivi si amplificano, la strategia si rafforza e gli utili si incrementano progressivamente. E’ fondamentale, quindi, comunicare la strategia a tutte le risorse impegnate nell’organizzazione. E’ compito del Leader coinvolgere e compartecipare l’intero complesso aziendale alla realizzazione del disegno strategico, affinché tutti convergano verso un obiettivo comune e si sentano attori protagonisti di un opera unica. Ciascuno potrà, in questo modo, dare una collocazione alla mission individuale, essere consapevole del valore del proprio ruolo e interagire correttamente con i colleghi e le altre figure aziendali. La strategia va comunicata in maniera capillare per far si che tutti gli attori comprendano il perché di scelte controtendenza e contribuiscano a rafforzare la catena di generazione del valore. Garantire continuità temporale ad una strategia richiede abilità nella comunicazione, nella leadership, nella gestione delle risorse umane e nel change management. Attivare processi di “Mutually reinforcing activities Sinergie e dinamiche cooperative Ogni strategia competitiva, per quanto vincente, va costantemente implementata. La piattaforma da poco sviluppata è un punto di arrivo ma è anche una nuova partenza per altri progetti. Quando una tecnologia è efficace, diviene fondamentale che vi sia all’interno la capacità di condividerla e di applicarla in ambiti differenti, dove, verosimilmente, i nuovi adattamenti produrranno ulteriore valore e know how. Questa dinamica di “reciprocità e convergenza” produce risultati esponenziali perché ogni nuova ricerca o implementazione è fortemente agevolata dalle competenze acquisite precedentemente. Si assiste, così, ad un rapido allargamento della forbice del vantaggio competitivo e ci si garantisce una costante revisione della catena di generazione del valore. Capacità di operare in Team Ogni gruppo di lavoro vive le sue fasi critiche e, per quanto la capacità di lavorare in team sia abbondantemente sbandierata in ogni curriculum vitae, accade frequentemente in molte aziende che si sviluppino logiche competitive, conflittuali e di tesorizzazione della conoscenza. Attivare quindi dinamiche di cooperazione, quando non già presenti, diviene di fondamentale importanza. Stimolare la generazione di valore Quando la generazione di valore è una costante di processo, le attività, le metodologie, le tecniche utilizzate, gli approcci, si combinano e si consolidano reciprocamente. I risultati appena ottenuti divengono in questo modo un nuovo punto di partenza per sviluppi e applicazioni che potranno giovarsi di un patrimonio di competenze e di esperienze più esteso. Ogni ciclo richiede tempi di ricerca progressivamente più brevi e produce risultati di sempre maggior rilievo determinando così, in presenza di un minor dispendio di energie, vantaggi competitivi e dinamiche di sviluppo esponenziali

 
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stili di comunicazione

Post n°18 pubblicato il 23 Marzo 2011 da carpedieam

Il leader stabilisce il grado di maturità del collaboratore, stimandone impegno e livello di competenza specifica, quindi sceglie lo stile più adeguato alla situazione, ponderando orientamento al compito e alla relazione.

PRESCRIVERE: in questo stile di leadership, suggerito con collaboratori dal basso livello di maturità (i collaboratori non possono o non vogliono assumere il compito senza una precisa supervisione) il leader prescrive in maniera dettagliata i modi e i tempi di realizzazione del lavoro. Prevale, quindi, l’orientamento al compito e non è previsto un livello di partecipazione del follower al processo decisionale.

Lo stile di comunicazione utilizzabile è quello direttivo. La prescrizione è monodirezionale discendente (la comunicazione parte da una posizione più elevata e viaggia solo in una unica direzione, dal leader verso il follower).

In questo caso è utile che il verbale (la linguistica utilizzata) sia preciso e circostanziato, il non verbale (mimica, gestualità, postura) ed il paraverbale (tono di voce, ritmo, volume) siano decisi, anche se gioviali, e congruenti con il messaggio trasferito.

PERSUADERE (VENDERE): in presenza di un livello di maturità dei collaboratori medio basso, lo stile suggerito dal modello Hersey e Blanchard prevede un maggiore orientamento alla persuasione e un maggior sostegno. In questo caso la relazione prevale sul compito. Questo stile, implicitamente, sancisce la possibilità per il follower di “sposare” a livelli differenti il compito richiesto. Lo stile di comunicazione consigliabile è quello persuasivo, monodirezionale ascendente (il leader si pone in una posizione paritaria o più bassa rispetto al follower e la comunicazione è tendente ad argomentare e sostenere, pertanto è prevalentemente in una unica direzione, dal leader verso il follower).

In questo caso è utile che il verbale sia ricco di argomentazioni e di esempi, il non verbale e il paraverbale siano carichi di slancio, dinamismo e ardore e, più in generale, congruenti con il messaggio trasferito.

COINVOLGERE: trasferire un compito ad un follower con un livello di maturità medio alto prevede anche un suo maggior coinvolgimento nell’analisi dei vantaggi. C’è un maggior coinvolgimento nel processo decisionale ed il leader è orientato alla motivazione e all’incoraggiamento del collaboratore. Lo stile di comunicazione corrispondente è quello coinvolgente, bidirezionale ascendente (il leader si pone in una posizione paritaria rispetto al follower e tende a stimolarne le riflessioni sul valore della missione. La comunicazione pertanto è prevalentemente in due direzioni, dal leader verso il follower e viceversa).

In questo caso è utile che il verbale contempli l’uso appropriato di domande aperte per stimolare le riflessioni e di domande chiuse per sintetizzare quanto emerso, e che sia completato da una buona capacità di ascolto attivo, di ascolto profondo e di lettura dei segnali del corpo. Il non verbale e il paraverbale sono orientati all’ascolto e all’accoglimento e contengono segni di approvazione e incoraggiamento.

DELEGARE: quando il livello di maturità del collaboratore è alto lo stile suggerito è quello della delega. In questo caso il follower ha ampia autonomia nella scelta delle modalità di svolgimento del compito. Anche in questo caso prevale l’orientamento al compito ma è previsto un elevato livello di partecipazione del follower al processo decisionale.

Lo stile di comunicazione utilizzabile è quello delegante, bidirezionale discendente. La comunicazione parte da una posizione più elevata (è implicita l’accettazione del compito) e viaggia però in due direzioni, dal leader verso il follower e viceversa.

In questo caso è utile che il verbale contenga domande dirette a stimolare riflessioni sulle modalità più opportune per lo svolgimento del compito. Il non verbale e il paraverbale trasferiscono fiducia e governo.

Il modello proposto da Hersey e Blanchard è ancora oggi considerato un riferimento per gli studi sulla leadership situazionale, studi che negli anni tenderanno a distinguere stili di leadership e stili di gestione (management).

La nostra esperienza in tema di stili di leadership e di comunicazione ci porta a interpretare il modello situazionale in questo modo:

Stile di leadership

preferibile

Livello di motivazione del follower

Competenze del

follower

Direttivo

Alto

Basse

Persuasivo

Basso

Basse

Coinvolgente

Basso

Alte

Delegante

Alto

Alte

Questo nostro schema interpretativo, che ha il vantaggio di una semplice applicazione, scaturisce da una considerazione di carattere generale: la definizione del livello di maturità del follower combina “competenze” e “impegno”, che hanno, a nostro avviso, origini differenti e che necessitano approcci specifici.

Nell’individuare le motivazioni del collaboratore si possono quindi aggregare, in quanto omogenei e assimilabili, tutti quegli elementi che determinano il suo livello di impegno: il senso di appartenenza, l’identificazione nella vision aziendale, l’allineamento ai valori della missione, la stima e la relazione con il leader, la leadership di posizione, etc….

Per competenze si intendono le capacità specifiche richieste dal compito (di cui si valuta la complessità strutturale), la convinzione di autoefficacia del follower, il contesto ambientale nel quale deve operare, etc….

Oltre a ciò risulta fondamentale valutare alcuni metaprogrammi decisionali del follower (orientamento al risultato, all’affiliazione o al potere – via da, verso – indice referenziale interno o esterno, etc….) che consentono di calibrare argomentazioni ed approcci in maniera estremamente profilata ed efficace.

Si aggiunga anche che, proprio perché ciascuno stile di leadership risulta maggiormente efficace quando è sostenuto da una comunicazione adeguata e congruente, l’adozione di uno stile “ottimale” deve contemplare anche la maggiore o minore predisposizione del leader a quella precisa modalità.

Infatti già 1967 Fred E. Fielder aveva elaborato un modello di leadership situazionale dove le variabili di circostanza si combinavano allo stile e ai tratti di leadrship dominanti.

In questo modello le variabili fondamentali sono tre:

  • la relazione tra leader e follower (cooperazione, fiducia, rispetto, stima, condivisione di visione e valori, assenza di tensioni);

  • la struttura del compito (complessità e numero di variabili in gioco);

  • potere di posizione (possibilità per il leader di favorire o penalizzare il collaboratore).

Queste tre variabili, combinate tra loro, determinano situazioni che suggeriscono al leader se adottare comportamenti più o meno orientati al compito o alla relazione.

TEORIA DELLA CONTINGENZA (FIELDER)


matrice di Fielder


Nel modello di Fielder una leadership efficace è il risultato della combinazione tra lo stile di leadership prevalente e la situazione ambientale. Anche per Filelder quando lo stile di leadership dominante è diverso da quello richiesto dalla situazione è preferibile che il Leader cambi la situazione piuttosto che tentare di interpretare in maniera non ottimale uno stile di leadership non rispondente alle sue inclinazioni personali.

 

 
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CENTRALITà E MOTIVAZIONE

Post n°17 pubblicato il 23 Marzo 2011 da carpedieam

La centralità della motivazione nel comportamento organizzativo è universalmente riconosciuta. Sul tema, sempre attuale, converge uno dei dibattiti più delicati della gestione di impresa. Nella motivazione risiedono le ragioni delle scelte e delle azioni compiute dagli individui; possiamo, infatti, definirla “l’insieme delle energie che attivano, dirigono e sostengono il comportamento di ciascun individuo”.

Le variabili utili a valutare la quantità e la qualità della motivazione sono la sua intensità e la sua persistenza, vale a dire l’entità dell’impegno che la persona è disposta a profondere e la sua durevolezza nel tempo.

Gli obiettivi verso cui la motivazione si esprime ci aiutano, invece, a riconoscere la sua direzione.

Tra le teorie motivazionali quella delle “Gerarchie dei Bisogni” di Maslow, è ancora oggi considerata alla base delle analisi contenutistiche.

Per Maslow esiste una precisa gerarchia dei bisogni. In pratica solo con la soddisfazione di un bisogno di livello inferiore (bisogni primari – fisiologici, sicurezza) l’individuo percepisce il bisogno di livello superiore (bisogni secondari – affetto, stima, autorealizzazione).


I bisogni fisiologici (cibo, riparo, salute, riproduzione) e i bisogni di sicurezza (protezione, appartenenza, dipendenza, stabilità) sono definiti primari perché maggiormente legati a necessità di tipo biologico e sono pertanto comuni ad ogni individuo, mentre i bisogni secondari presentano una maggiore variabilità interpersonale.


Per bisogni di affetto Maslow intende quelli connessi all’universo relazionale dell’individuo (amore, amicizia, condivisione, approvazione, ascolto).


I bisogni di stima possono dividersi in due precise tipologie: l’autostima (forza, adeguatezza, padronanza, successo) e la stima degli altri (riconoscimento dello status sociale, dominio, importanza, potere).


I bisogni di autorealizzazione si collocano al vertice della piramide di Maslow e sono la capacità di valorizzare il proprio talento e le proprie inclinazioni, l’accettazione di sé, la spontaneità, la capacità di vivere esperienze profonde e rapporti umani positivi, la creatività e la trascendenza.


Il bisogno di conoscenza è trasversale a tutti è cinque i livelli di bisogno ed è parte integrante della personalità dell’individuo.


Uno sviluppo interessante degli studi di Maslow è la teoria di Alderfer, il modello ERG (Existence, Relatedness, Growth). Alderfer individua tre principali categorie di bisogni:

  • bisogni di Esistenza (bisogni fisiologici e di sicurezza);

  • bisogni di Relazione (bisogni di affetto e di riconoscimento sociale);

  • bisogni di Crescita (bisogni di autostima e di autorealizzazione).


Questo modello, sviluppato nel 1972, supera la rigidità delle gerarchie dei bisogni di Maslow e risulta anche più coerente con quanto osservato in ambito di organizzazioni aziendali. Alderfer codifica le relazioni tra i bisogni in questo modo:

  • meno i bisogni di esistenza saranno soddisfatti, più saranno desiderati;

  • più i bisogni di esistenza saranno soddisfatti, più i bisogni di relazione saranno desiderati;

  • meno i bisogni di relazione saranno soddisfatti, più saranno desiderati;

  • più i bisogni di relazione saranno soddisfatti, più i bisogni di crescita saranno desiderati;

  • più i bisogni di crescita saranno soddisfatti, più saranno desiderati.


Possiamo quindi concludere che i bisogni elevati (autostima e autorealizzazione) producono una motivazione persistente e incrementale, mentre i bisogni di esistenza e di relazione producono motivazioni meno persistenti ma intense e ciclicamente ricorrenti.



VINCENTI E VINCITORI


Un atleta formidabile come Pino Maddaloni, vincitore anche di due campionati europei e di una medaglia d’oro olimpica, durante una conversazione mi disse:

Molti giovani vengono in palestra da me perchè vogliono vincere dei titoli, essere dei vincitori. In realtà io posso insegnargli qualcosa di diverso; in questo sport la medaglia d’oro può vincerla un unico atleta ed è quindi inevitabile che tutti gli altri non possano essere anche loro dei vincitori. Io posso però insegnargli qualcosa di molto più importante, posso insegnargli ad essere dei vincenti. Posso insegnargli il valore dello sport, della competizione, dell’impegno, della capacità di apprendere e migliorare. Io stesso non sono un atleta dotato di forza esplosiva o di una capacità di apprendimento superiore agli altri. Ci sono in giro atleti molto più dotati di me, solo che se loro dopo che hanno ripetuto un esercizio 100 volte si fermano perchè sono stanchi, io non mi fermo e ripeto l’esercizio 1000 volte fino a che non sono completamente soddisfatto del risultato di apprendimento.

Posso insegnargli che una sconfitta è una opportunità per chiedere a se stessi di migliorare e che l’unico sistema per ricostruire è accettare la sconfitta. Nel mio sport questo non è facile perché quando perdi il tuo avversario ti domina fisicamente, ti sottomette. Accettare la sconfitta richiede grande maturità e controllo.


Queste parole mi colpirono molto, sia per l’autorevolezza della fonte, sia perchè conoscevo bene il valore sociale del suo impegno e della sua attività. In più c’era nel suo tono di voce la spontaneità di chi vuole condividere una conoscenza, non c’era alcuna traccia di falsa modestia e traspariva il sottile compiacimento non per i successi raggiunti ma per essere riuscito a innalzare i propri limiti fisici (e io aggiungo anche morali) oltre una soglia a dir poco sorprendente.

Per me, che sono anche un coach aziendale e sportivo e mi occupo di modeling, quelle parole furono un concentrato di insegnamento e sono felice di essere riuscito a trarne applicazioni anche a livello di organizzazione aziendale.

Le motivazioni che avevano generato il bisogni di crescita apparivano evidenti: la capacità di valorizzare il proprio talento, il miglioramento personale, il sistema di valori che incarnava e che era disposto a condividere, la voglia di trasferire ad altri atleti un insegnamento profondo. L’esaltazione di quanto codificato da Maslow e Alderfer.


Quante applicazioni aziendali era possibile ricavarne sul piano della motivazione?

La voglia di ricercare e accettare nuove sfide, la capacità di rimettersi costantemente in gioco, il raggiungimento di interessi personali attraverso gli interessi sistemici, la ricerca delle soluzioni e delle “abilità di risposta”, la voglia e la capacità di far emergere le eccellenze, l’orientamento a condividere la conoscenza e i successi, la capacità di tesorizzare la conoscenza a beneficio della collettività e dei singoli, l’orientamento ad assumere responsabilità e ad agire con onestà di intenti, il valorizzare la propria percettività ponendosi in uno stato di ascolto e comprensione, la ricerca costante del miglioramento personale e della costanza di applicazione, la ricerca di un’autorealizzazione che vada ben oltre il riconoscimento sociale, il desiderio di edificare metodologie e processi che resistano al tempo.

Gli ambiti di applicazione spaziavano dalla comunicazione interna, al coaching, alla gestione delle risorse umane in generale, alla formazione e alla vendita.


UN ESEMPIO CONCRETO:

COME ORGANIZZARE UN GARA DI INCENTIVAZIONE PER VENDITORI


Come incentivare i venditori in un determinato periodo dell’anno è un tema che frequentemente conduce all’organizzazione di un contest, di una gara di produttività.

E’ innegabile che la competizione è un ottima leva per elevare le performance, così come nello sport un atleta durante la prestazione agonistica riesce ad essere più concentrato (o egualmente concentrato, ma con minor sforzo) di quanto solitamente avviene durante un allenamento. Molte aziende, quindi, investono risorse ingenti per motivare i venditori:

  • comunicazione pre-gara;

  • presentazione gara;

  • aggiornamento classifiche;

  • premi;

  • premiazioni.

Se ciascun punto è curato il risultato è solitamente buono su una piccola percentuale di venditori. Questo è tutto sommato normale, corrisponde al principio di Pareto (anche detto legge 80/20), che è sintetizzabile nell’affermazione: la maggior parte degli effetti è dovuta ad un numero ristretto di cause.

Abbiamo però osservato alcune effetti che non consideriamo positivi:

  • solitamente, quelli che non riescono a competere per il vertice, abbandonano la competizione dichiarando “scarso interesse”, “maggiore scaltrezza di quelli che cadono in inganno”, “mancanza della necessità di dover dimostrare il loro valore in quanto già dimostrato in passato”.

  • quelli che restano in gara competono con grande accanimento e, pur di vincere, oltrepassano i confini delle regole dell’attività dimostrando di anteporre il risultato “gara” al risultato “lavoro”.

  • per tutti è poi anche riscontrabile un calo di produttività post gara e una sorta di pericolosa conservazione degli affari più importanti nei periodi pre-gara.


Interventi sul regolamento per equalizzare i risultati in base alla storicità e consentire così ai meno performanti di competere con i più bravi sono solitamente vissuti come iniqui e finiscono per demotivare proprio i più bravi e generare uno sbilanciamento costi/benefici notevole.


Un utilizzo esasperato dell’incentive è osservabile nelle strutture commerciali verticali, con elevato turn over, come ad esempio le reti di multilevel marketing.

Le presentazioni sono in grande stile, così come le premiazioni, e questa dinamica riflette tutta l’organizzazione aziendale. Si fa leva sui bisogni intensi e poco persistenti esasperando il valore dei premi e del riconoscimento sociale (bisogni di esistenza e bisogno di relazioni).


Abbiamo anche osservato che queste dinamiche riportate (direi inopportunamente) in strutture orizzontali e con basso turn over comportano spesso effetti negativi superiori ai vantaggi di produttività.

In che modo allora organizzare una gara di incentivazione ottimale per una organizzazione di vendita tradizionale (che rappresenta la quasi totalità del mercato)?


Il primo principio da osservare è la trasparenza. Gli obiettivi vanno dichiarati. Una gara di incentivazione è funzionale al proprio lavoro (e non il contrario) ed è quindi uno strumento messo a disposizione della struttura per ricercare una overperformance.

La cosa ha un valore che va molto oltre i premi e il momento di gloria dei vincitori (che comunque vanno previsti): si tratta di acquisire la consapevolezza di esser capaci di esprimere un maggior potenziale.

In questa ottica ci saranno vincitori e vincenti. I vincenti sono quelli che trovano nella sfida della gara solo un supporto per una sfida più grande che è il proprio lavoro, sono quelli disposti a mettersi in gioco ogni volta, quelli che fanno del miglioramento personale una costante senza limiti di obiettivi o di età, quelli che accettano la sconfitta ma che lottano per la vittoria dando il massimo fino in fondo, sono quelli che, terminata la gara, continueranno a produrre e a incrementare i loro risultati condividendo e scambiando esperienze e metodologie con i colleghi, sono quelli che sapranno vivere con impegno, concentrazione e leggerezza i momenti di testa a testa, sono quelli che sapranno costruire un edificio solido e che sapranno ripetersi e migliorarsi progressivamente, sono quelli che penseranno che se ha vinto qualcun altro lo ha meritato e che questo è uno stimolo per dare di più da subito, quelli che avranno la capacità di estrarre e decodificare dalla loro overperformance una metodologia replicabile, quelli che avranno il coraggio di esprimere il massimo delle energie e la consapevolezza di poterle rigenerare a proprio piacimento.


E chiaro che il regolamento di gara può solo premiare i vincitori, anche perchè il meccanismo competitivo è alla base della motivazione.

E’ opportuno, inoltre, far decorrere la gara nel giorno esatto della sua presentazione o anche retrodatarla (le scuse tipo io non sapevo di essere in gara cadono da sole quando il messaggio è “la gara è uno strumento, non un obiettivo” e questo accorgimento attenua il fenomeno della “conservazione” degli affari più ghiotti).


Il secondo principio da osservare è restare coerenti con i valori esplicitati e portare il focus sulle motivazioni persistenti e incrementali. Occorrerà, quindi, generare dinamiche costruttive di apprendimento intorno alla gara, momenti di condivisione e di scambio. Il messaggio deve essere: vinciamo tutti se otteniamo più risultati rispetto a ieri, indipendentemente da chi si aggiudicherà il premio finale. In questa ottica, e se il regolamento lo contempla è addirittura meglio, trovano una ottima collocazione le attività di team building e di team working.

E’ fondamentale cogliere ogni buona occasione per valorizzare una metodologia e porre sempre l’accento sulla crescita professionale. Quello che solitamente accade è che per comodità si evidenziano le performance degli altri sperando così di accentuare la competizione. L’effetto di questo comportamento non è positivo in quanto o le persone si allontanano dalla competizione perché ritengono di non poter più vincere o raccolgono la sfida ed esasperano i comportamenti anteponendo l’obiettivo gara all’obiettivo lavoro (effetti di leve motivazionali molto intense e poco persistenti e profonde).

In realtà quel tipo di intervento è del tutto inutile. La dinamica della competizione è attiva indipendentemente dal fatto di porvi sopra il focus. Tutti i partecipanti, anche quelli che sembrano più distratti e meno interessati fanno molto più auditing sugli altrui risultati di quanto si possa immaginare. Porvi l’accento in maniera poco elegante sovraespone lo strumento e provoca effetti contrari o eccessivi.

Spesso bisogna confrontarsi con i “sospetti” di attività oltre le regole svolte da chi ottiene più risultati. Anche in questa circostanza è fondamentale conservare una linea coerente: “Non so se sarai vincitore, questo lo scopriremo durante la gara. Hai però l’opportunità di essere vincente se ce la farai a concentrarti sul tuo lavoro e sui tuoi risultati. Gli altri raccoglieranno quello che hanno seminato, nel bene e nel male”.


Il terzo principio è presidiare i risultati dopo il termine della gara. Verificare chi continua a produrre e gratificarlo in qualche modo, anche durante la premiazione. Occorre valorizzare il metodo e la continuità di risultati. Se non è possibile erogare un premio “a sorpresa” a chi ottiene i migliori risultati nel periodo immediatamente successivo al termine della gara l’alternativa è un riconoscimento personale, una enfasi particolare durante la celebrazione dei risultati.


Il quarto principio è attribuire alla premiazione un valore personale. Non sono gli squilli di trombe a dare un riconoscimento profondo, piuttosto la capacità di chi premia di riconoscere il premiato citando pubblicamente aspetti del suo lavoro, delle cose che ha fatto, di alcune sue abilità o iniziative, di difficoltà che ha dovuto superare. Questo tipo di celebrazione produce sorpresa e un profondo compiacimento nel premiato, soprattutto se questi non pensava di incontrare un tale livello di attenzione alla sua opera e alla sua persona. Il tutto va a beneficio del senso di appartenenza e dell’autostima.

Occorre dare visibilità alla persona e al suo operato, coinvolgendolo oltre il “ritira il premio” e chiedendogli di preparare un piccolo intervento.


Il quinto principio è dare continuità alle attività della gara organizzando gruppi di lavoro, estrazione e condivisione delle best practices, sistemi di comunicazione interna (newsletter, blog), pubblicando articoli tecnici e/o divertenti, attivando dinamiche di community costruttive e attinenti e coinvolgendo il numero più elevato possibile di persone in tutte le fasi della realizzazione. Si genereranno aspettativa e desiderio di partecipazione e la gara sarà, nelle edizioni successive, vissuta con elevati livelli di competitività ma con leggerezza e compiacimento.


Abbiamo applicato questi cinque principi a gruppi di venditori appartenenti a contesti non omogenei. Quelli che operavano in sistemi di valori non allineati riuscivano ad essere performanti in un anno per poi sparire definitivamente negli anni successivi. Quelli invece che operavano in ambienti con sistemi di valori così costruiti miglioravano progressivamente e riuscivano a dare stabilità e consistenza ai loro risultati, primeggiando e risultando sia vincitori che vincenti.


 
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empowerment

Post n°16 pubblicato il 23 Marzo 2011 da carpedieam

L’EMPOWERMENT – Dal controllo alla responsabilizzazione
L’empowerment è un processo graduale di rilascio di competenze, autonomie e responsabilità alla propria organizzazione che per definizione avviene con flussi bottom-up.
In quali contesti è fondamentale la sua attivazione ?
Molte imprese dispongono di una organizzazione top-down. Le decisioni sulle strategie e sui processi operativi sono prese dai vertici aziendali e sono poi ribaltate all’intera struttura attraverso i quadri intermedi. Questo tipo di impostazione è ottimale in un contesto con dinamiche competitive non esasperate e attività periferiche che non richiedono particolari abilità o competenze (con un basso numero di variabili) o in aziende con un brand forte e consolidato in un mercato prevalentemente distributivo (con bisogni già emersi).
Negli ultimi anni abbiamo osservato in molti comparti improvvise e sempre più progressive accelerazioni di cambiamenti di scenari. Modifiche legislative, con l’introduzione di nuove norme e la necessità di presidiarne la “compliance”, innovazioni tecnologiche – con nuove potenzialità che incidono direttamente sui prodotti e sui processi rendendoli sempre più ricchi di variabili e personalizzazioni – nuovi competitors nati con vantaggi competitivi impliciti, servizi o prodotti sostitutivi e complementari.
Una tale nuova complessità aumenta la “distanza” tra il vertice e la periferia. I processi incontrano difficoltà a tenere il passo dei cambiamenti, spesso procedure e supporti informatici “nuovi” e non ancora del tutto testati costringono chi si occupa di gestire il quotidiano a mettere in pratica adattamenti fondati sul buon senso e sulla buona volontà. Contestualmente anche le dinamiche competitive risultano essere più accelerate e l’approccio top-down genera ulteriore pressione sulla periferia.
L’Empowerment interviene in questa dinamica invertendo il processo e riattiva i collegamenti interni producendo risultati sorprendenti:

  • estrazione e produzione di competenze;
  • condivisione di know how all’origine;
  • motivazione e gratificazione professionale;
  • atteggiamento di ricerca di nuove soluzioni e di nuove metodologie;
  • comprensione delle dinamiche aziendali più ampie;
  • comprensione e utilizzo degli strumenti aziendali a disposizione;
  • sviluppo di senso di appartenenza e responsabilità;
  • identificazione nella vision aziendale e nella mission individuale.



Per individuare le eccellenze ai più piccoli livelli di dettaglio, occorre attivare dinamiche che coinvolgono direttamente la base esecutiva. Solitamente, coinvolgere chi opera ogni giorno comporta dover ascoltare e raccogliere una grande quantità di suggerimenti e di informazioni. Molti di questi suggerimenti sono il risultato di visioni parziali, strettamente attinenti alla mansione e difficilmente collegati al resto del contesto. Altre volte, si tratta di lamentele dettate da una personale insoddisfazione; spesso si tratta anche dell’occasione per raccontare quanto si è bravi a rimediare a tutta una serie di disfunzioni organizzative. Queste discussioni, apparentemente poco produttive, opportunamente coordinate producono effetti positivi:

  • le persone si sentono ascoltate e sollevate da quella sensazione di isolamento che l’incremento della distanza con il vertice aveva prodotto;
  • ascoltano e comprendono punti di vista differenti dei colleghi, condividendone difficoltà e obiettivi;
  • vengono a conoscenza di soluzioni e strumenti adottati dagli altri che risultano efficaci;
  • sono più orientate a raccontare le loro soluzioni e le loro esperienze.


Il processo guidato, costituito da un percorso di domande organizzate in modalità team coaching, guida poi la discussione verso dinamiche costruttive e stimola le riflessioni del team, valorizzando comunque il contributo di tutti, indirizzandole verso valutazioni di fattibilità, adeguatezza e compatibilità con i valori e processi aziendali. Il gruppo estrae le best practices e procede alla loro sistematizzazione e condivisione, definendo il valore strategico e sociale di alcune attività e posizionandole nei contesti più ampi “azienda e mercato”. Ciascun partecipante traccia, inoltre, i confini della mission individuale entrando nel merito delle responsabilità personali e dei collegamenti con le altre funzioni aziendali. Il gruppo definisce poi i propri impegni o obiettivi e, se funzionale, procede ad una eventuale pianificazione delle attività.

IL COACHING – Da desideri a obiettivi e da obiettivi a risultati
Definire l’obiettivo è la prima fase del processo di coaching. Un obiettivo ben formulato è “concreto, misurabile, raggiungibile, sfidante, definito sul piano sensoriale, ecologico (in linea con l’identità, il sistema di valori e convinzioni), ed è descritto in termini di risultato”. Il coaching consiste poi nello stimolare riflessioni approfondite, attraverso domande appropriate, dirette a individuare “in che modo” raggiungere il risultato. In taluni casi le domande sono poste per approfondire i concetti, per specificarne i contorni o per analizzarli da altri angolazioni. In altri casi le domande tendono a estendere la disamina a possibili alternative; in altri casi, ancora, a valutare preventivamente le difficoltà che bisogna superare e le modalità con cui è più opportuno farlo. Gli ambiti delle domande possono riguardare l’acquisizione delle risorse necessarie e il loro corretto impiego, gli aspetti legati alla motivazione e all’impegno personale, la fiducia in se stessi e nei propri mezzi, la pianificazione e il monitoraggio delle attività, lo sviluppo delle competenze utili a raggiungere il risultato, il livello di concentrazione e di attenzione necessario, la programmazione degli obiettivi intermedi, la gestione delle interazioni con gli altri soggetti coinvolti. Raggiungere un risultato richiede un mix organizzato di motivazioni, competenze, convinzioni, programmazione e azione. Porre domande e stimolare riflessioni in queste direzioni consente di esplorare in maniera puntuale e dettagliata ogni aspetto sia razionale sia emotivo. Durante questo processo il coach si pone, infatti, in una posizione di ascolto e percettività con l’obiettivo di facilitare l’esplorazione e la disamina completa di tutti gli aspetti utili a conseguire il risultato: definire un obiettivo, verificarne l’effettiva compatibilità con il sistema di credenze, valori e convinzioni personali e aziendali, procedere ad un graduale allineamento, ricercare le risorse interiori e potenziarle, sviluppare determinazione e convinzione di autoefficacia, stimolare e favorire le giuste rappresentazioni interne, facilitare l’apprendimento e l’acquisizione di nuove competenze, pianificare le attività e i sistemi di verifica dei risultati, valutare le alternative, individuare i pericoli, rinnovare le motivazioni e renderle persistenti e durature…..
Trovare le risposte giuste è semplice quando ci si pone le domande giuste!
Il Coaching si è diffuso dagli anni ottanta in ambito sportivo e aziendale. In realtà i suoi ambiti di applicazione possono essere i più disparati; così come più recentemente accade nel “life coach”, infatti, anche gli obiettivi personali possono avvalersi di tale supporto. Si tratta di percorsi diretti a potenziare le proprie risorse interne, la propria determinazione, ad acquisire maggiore consapevolezza e padronanza dei propri mezzi e del proprio talento, a definire ciò che si merita insieme all’impegno e alle azioni necessarie per raggiungerlo. Il coaching in azienda viene svolto a livello individuale per l’alta dirigenza e l’imprenditore, mentre solitamente per i quadri intermedi preferiamo intervenire in modalità team coaching con specifiche progettazioni successive ad interviste ed analisi dei contesti e degli scenari. I risultati che il team coaching produce sono sintetizzabili nello sviluppo di obiettivi condivisi e nel superamento delle logiche di competizione interna. L’effetto sorprendente è, infatti, proprio l’attivazione di dinamiche e logiche cooperative che si ottengono mediante l’esplorazione e la disamina granulare delle aree di interesse reciproco e delle aree di generazione di valore sistemico.
Un’applicazione specialistica del coaching è il modeling. Attraverso l’attività di coaching o di team coaching è possibile individuare alcuni comportamenti eccellenti ed estrarre il sistema di valori, convinzioni, credenze e competenze che li hanno prodotti. Modellare l’eccellenza (modeling) significa sviluppare un know how che, condiviso internamente con i tempi e le modalità giuste, attiva dinamiche esponenziali di generazione di valore e favorisce, inoltre, l’acquisizione da parte del “modello di riferimento” di un livello di consapevolezza e di fiducia nei propri mezzi molto più elevato. L’applicazione del modeling ha prodotto risultati entusiasmanti nell’ambito della vendita e del “trasferimento generazionale delle imprese”.

 
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