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Terremoto ad Haiti
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Haiti al tempo del colera, andare oltre la paura per capire le possibili soluzioni
Post n°1667 pubblicato il 25 Ottobre 2010 da kudablog
In Repubblica Dominicana è scattata l'emergenza a causa dell'epidemia di colera riscontrata ad Haiti in una zona non colpita dal terremoto ma densamente abitata da profughi provenienti da Port-au-Prince. A Dajabon è stata chiusa la frontiera ed impedito il mercato binazionale che ogni lunedì e venerdì accoglie i commercianti dominicani ed haitiani. Non si conosce la durata del provvedimento che blocca il principale punto di commercio tra i due paesi. La Commissione Europea sta preparando un rinforzo dell'aiuto umanitario ad Haiti, che serà però inviato solo se le autorità locali chiederanno più assistenza. Forse però, come spesso accade, sarebbe stato il caso di pensarci un po' prima... L'agenzia haitiana Fas a Fas racconta, infatti una storia che ha dell'incredibile. Si tratta dell'ospedale privato di Port-au-Prince CDTI du Sacre Coeur. Dopo il terremoto è stato l'unica struttura sanitaria della capitale a non cedere alla forza distruttiva della terra, ha accolto, gratuitamente, oltre 12.000 pazienti e varie equipe di medici statunitensi e fracesi. Oggi l'ospedale è vuoto, chiuso e le sue ambulanze nuove sono parcheggiate sotto due teloni, il motivo? Nessun governo, ne' quello haitiano, ne' quello statunitense, ne' le nazioni unite ha trovato un accordo per il suo finanziamento. Quei corridoi vuoti per i quali l'Organizzazione mondiale della Sanità non era disposta a dare soldi per stipendi ma solo per coperte e medicinali, sono il monumento al fallimento dell'intervento internazionale ad Haiti. L'assistenza sanitaria che era in vigore prima del terremoto è stata paralizzata dai soccorsi. Le farmacie hanno chiuso per tutti i farmaci gratis, e i medici hanno perso tutti i loro pazienti. Le organizzazioni internazionali non sono state capaci di gestire una transizione dell'intervento d'assistenza verso il settore privato haitiano. Il dubbio che rimane è che le agenzie abbiano preferito finanziare il mercato interno dei paesi donatori acquistando in occidente farmaci e beni di prima necessità, pagare stipendiati occidentali, piuttosto che rafforzare l'economia haitiana. Edmond Mulet, il capo della missione delle Nazioni Unite ad Haiti, ha detto che la comunità internazionale è stata in parte responsabile della debolezza dello stato haitiano, perché non ha fiducia - e quindi costantemente bypassata - il governo stesso. Se a questo aggiungiamo il divieto da parte USA di finanziare le aziende potenzialmente concorrenti alle multinazionali americane e l'altissimo impatto di riso (Haiti è il terzo mercato per l'economia USA) e pollame straniero, si capisce che non c'è grande interesse nell'aiutare la rinascita economica. Il colera si sviluppa in situazioni insalubri, nel caso di Haiti, nei campi profughi. Per evitare il ripetersi di queste situazioni bisogna chiedersi se esiste un piano per lo smantellamento dei campi stessi. Prova a dare una risposta l'ONG haitiana Ayiti kale je che ha cercato di mettere in fila le frammentarie notizie che giungono dal governo e dai vari uffici. Il piano presentato dal Cluster dell'ONU al governo haitiano prevede tre passaggi, in ordine di fattibilità: 1 - rientro al territorio originale; I campi dovrebbero chiudere progressivamente e si dovrebbe registrare un "effetto chiamata" da parte di chi sarà tra i primi a tornare nelle case. Non esite però, ancora, una definizione dei tempi. Esiste però un "paquete de retorno" cioè un contributo di 150 $ a chi torna in case in buono stato e di 1.000 $ per chi torna in case danneggiate. Quello che sembra certo è che, prima di iniziare a costruire nuove abitazioni, si costruiranno 135.000 T-Shelter, piccole strutture (12 metri quadri) in cui ospitare le famiglie senza tetto. Queste strutture in plastica e legno costano circa 2.500 $ l'una, provengono dall'estero, e non saranno completate fino alla fine di settembre 2011, ad un anno e mezzo di distanza dal terremoto. Infine, secondo alcune agenzie internazionali, solo il 3% delle macerie è stato rimosso in nove mesi, creando così un'impossibilità di fatto all'avvio dei processi di ricostruzione e di smantellamento dei campi. Se si vuole aiutare davvero bisogna partire da qui, anche da qui.
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