Creato da Fratus il 08/08/2006
Commentiamo la società
 

 

La decrescita è donna (madre natura)

Post n°433 pubblicato il 25 Luglio 2011 da Fratus

di Maurizio Pallante e Andrea Bertaglio

È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.

Le definizioni di maschilità che la nostra cultura ha sviluppato non sono solo basate sul potere di alcuni uomini su altri uomini (magari di diversa etnia o credo religioso), ma anche e soprattutto sulle donne; oltre al fatto che, come afferma il sociologo Michael Kimmel, gli uomini americani (e occidentali in generale) sono ormai “espressione di una definizione di maschilità che trae identità dalla partecipazione alle logiche del mercato”, ossia a “un modello di maschilità che si basa sulla competizione omosociale”.

“È proprio questa idea di maschilità”, scrive Kimmel, “radicata nella sfera della produzione, della vita pubblica, che non si identifica più con il possesso della terra o con la virtù artigiana, bensì con la partecipazione e il successo nella competizione di mercato”. Per il sociologo americano la maschilità deve dunque essere dimostrata e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta: un processo senza fine che finisce per perdere di significato, diventando “un gioco nel quale vince chi, alla fine della vita, possiede più giocattoli”. In altre parole, per Kimmel il concetto di maschilità di mercato descrive “la definizione normativa della maschilità americana, con le sue caratteristiche di aggressività, competitività ed ansia”.

Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi. Crescita economica e quindi crescita di profitti, potere, status. Una corsa infinita verso l’alto, in attesa di essere colti dalla vertigine. Perché, quindi, si può dire che la decrescita è donna? Perché, al contrario delle ansie e della competitività fine a se stessa evocate dalla maschilità di mercato, si propone di dare un freno a questo non-senso, a queste dimostrazioni di insicurezza tipiche delle nostre società “machiste” dominate da bulli di ogni risma (risaputamente tali perché caratterizzati da grandi insicurezze e mancanze che hanno continuamente bisogno di essere compensate).

Perché la decrescita, soprattutto se felice, propone la lentezza, il rispetto, la collaborazione… la durata. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, così come una donna, in quanto tale, non ha bisogno di dimostrare o di ostentare la propria femminilità. A meno che, sempre assoggettandosi ai voleri dei “maschi di mercato”, non sia disposta a diventare un modello della bellezza preconfezionata decisa a tavolino dal marketing e dalla pubblicità, se non addirittura un oggetto.

La decrescita è quanto di più femminile si possa immaginare, un antidoto alle tensioni competitive, alle eterne frustrazioni di un ideale di superman impossibile da raggiungere, alle ansie da prestazione (in qualunque campo le si vogliano intendere o temere), ancora una volta tipiche dell’uomo occidentale moderno.

Cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria intera esistenza come una gara di corsa veloce? Cosa c’è di più sensato dello smettere di sfruttare risorse in rapido esaurimento, magari solo per finire la propria esistenza dimostrando a tutti che si sono accumulati “più giocattoli” di quanto abbiano potuto o saputo fare i bambinoni attorno a noi?

Nulla, per chi ha capito che accumulare giocattoli non è necessariamente il fine ultimo dell’esistenza umana. Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che, invece, non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante. In una società, però, in cui egli è tutto tranne che dominante, in quanto schiavo di se stesso e delle sue ambizioni. O deliri, che da un paio di secoli a questa parte, sono arrivati addirittura a volere sfidare e dominare la natura. Anzi, Madre Natura.


È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.

Le definizioni di maschilità che la nostra cultura ha sviluppato non sono solo basate sul potere di alcuni uomini su altri uomini (magari di diversa etnia o credo religioso), ma anche e soprattutto sulle donne; oltre al fatto che, come afferma il sociologo Michael Kimmel, gli uomini americani (e occidentali in generale) sono ormai “espressione di una definizione di maschilità che trae identità dalla partecipazione alle logiche del mercato”, ossia a “un modello di maschilità che si basa sulla competizione omosociale”.

“È proprio questa idea di maschilità”, scrive Kimmel, “radicata nella sfera della produzione, della vita pubblica, che non si identifica più con il possesso della terra o con la virtù artigiana, bensì con la partecipazione e il successo nella competizione di mercato”. Per il sociologo americano la maschilità deve dunque essere dimostrata e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta: un processo senza fine che finisce per perdere di significato, diventando “un gioco nel quale vince chi, alla fine della vita, possiede più giocattoli”. In altre parole, per Kimmel il concetto di maschilità di mercato descrive “la definizione normativa della maschilità americana, con le sue caratteristiche di aggressività, competitività ed ansia”.

Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi. Crescita economica e quindi crescita di profitti, potere, status. Una corsa infinita verso l’alto, in attesa di essere colti dalla vertigine. Perché, quindi, si può dire che la decrescita è donna? Perché, al contrario delle ansie e della competitività fine a se stessa evocate dalla maschilità di mercato, si propone di dare un freno a questo non-senso, a queste dimostrazioni di insicurezza tipiche delle nostre società “machiste” dominate da bulli di ogni risma (risaputamente tali perché caratterizzati da grandi insicurezze e mancanze che hanno continuamente bisogno di essere compensate).

Perché la decrescita, soprattutto se felice, propone la lentezza, il rispetto, la collaborazione… la durata. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, così come una donna, in quanto tale, non ha bisogno di dimostrare o di ostentare la propria femminilità. A meno che, sempre assoggettandosi ai voleri dei “maschi di mercato”, non sia disposta a diventare un modello della bellezza preconfezionata decisa a tavolino dal marketing e dalla pubblicità, se non addirittura un oggetto.

La decrescita è quanto di più femminile si possa immaginare, un antidoto alle tensioni competitive, alle eterne frustrazioni di un ideale di superman impossibile da raggiungere, alle ansie da prestazione (in qualunque campo le si vogliano intendere o temere), ancora una volta tipiche dell’uomo occidentale moderno.

Cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria intera esistenza come una gara di corsa veloce? Cosa c’è di più sensato dello smettere di sfruttare risorse in rapido esaurimento, magari solo per finire la propria esistenza dimostrando a tutti che si sono accumulati “più giocattoli” di quanto abbiano potuto o saputo fare i bambinoni attorno a noi?

Nulla, per chi ha capito che accumulare giocattoli non è necessariamente il fine ultimo dell’esistenza umana. Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che, invece, non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante. In una società, però, in cui egli è tutto tranne che dominante, in quanto schiavo di se stesso e delle sue ambizioni. O deliri, che da un paio di secoli a questa parte, sono arrivati addirittura a volere sfidare e dominare la natura. Anzi, Madre Natura.


È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.

Le definizioni di maschilità che la nostra cultura ha sviluppato non sono solo basate sul potere di alcuni uomini su altri uomini (magari di diversa etnia o credo religioso), ma anche e soprattutto sulle donne; oltre al fatto che, come afferma il sociologo Michael Kimmel, gli uomini americani (e occidentali in generale) sono ormai “espressione di una definizione di maschilità che trae identità dalla partecipazione alle logiche del mercato”, ossia a “un modello di maschilità che si basa sulla competizione omosociale”.

“È proprio questa idea di maschilità”, scrive Kimmel, “radicata nella sfera della produzione, della vita pubblica, che non si identifica più con il possesso della terra o con la virtù artigiana, bensì con la partecipazione e il successo nella competizione di mercato”. Per il sociologo americano la maschilità deve dunque essere dimostrata e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta: un processo senza fine che finisce per perdere di significato, diventando “un gioco nel quale vince chi, alla fine della vita, possiede più giocattoli”. In altre parole, per Kimmel il concetto di maschilità di mercato descrive “la definizione normativa della maschilità americana, con le sue caratteristiche di aggressività, competitività ed ansia”.

Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi. Crescita economica e quindi crescita di profitti, potere, status. Una corsa infinita verso l’alto, in attesa di essere colti dalla vertigine. Perché, quindi, si può dire che la decrescita è donna? Perché, al contrario delle ansie e della competitività fine a se stessa evocate dalla maschilità di mercato, si propone di dare un freno a questo non-senso, a queste dimostrazioni di insicurezza tipiche delle nostre società “machiste” dominate da bulli di ogni risma (risaputamente tali perché caratterizzati da grandi insicurezze e mancanze che hanno continuamente bisogno di essere compensate).

Perché la decrescita, soprattutto se felice, propone la lentezza, il rispetto, la collaborazione… la durata. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, così come una donna, in quanto tale, non ha bisogno di dimostrare o di ostentare la propria femminilità. A meno che, sempre assoggettandosi ai voleri dei “maschi di mercato”, non sia disposta a diventare un modello della bellezza preconfezionata decisa a tavolino dal marketing e dalla pubblicità, se non addirittura un oggetto.

La decrescita è quanto di più femminile si possa immaginare, un antidoto alle tensioni competitive, alle eterne frustrazioni di un ideale di superman impossibile da raggiungere, alle ansie da prestazione (in qualunque campo le si vogliano intendere o temere), ancora una volta tipiche dell’uomo occidentale moderno.

Cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria intera esistenza come una gara di corsa veloce? Cosa c’è di più sensato dello smettere di sfruttare risorse in rapido esaurimento, magari solo per finire la propria esistenza dimostrando a tutti che si sono accumulati “più giocattoli” di quanto abbiano potuto o saputo fare i bambinoni attorno a noi?

Nulla, per chi ha capito che accumulare giocattoli non è necessariamente il fine ultimo dell’esistenza umana. Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che, invece, non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante. In una società, però, in cui egli è tutto tranne che dominante, in quanto schiavo di se stesso e delle sue ambizioni. O deliri, che da un paio di secoli a questa parte, sono arrivati addirittura a volere sfidare e dominare la natura. Anzi, Madre Natura.

È difficile non vedere la superiore sensibilità e delicatezza delle caratteristiche femminili, o negare che questo tipo di società, basata sulla competizione in ogni singolo aspetto della vita, sia generata da smanie di stampo tipicamente maschile. Lo conferma anche un concetto chiamato “maschilità di mercato”. In cosa consiste? Nel fatto che essere virili significa essere forti, avere successo, essere capaci, affidabili, dominanti: tutte caratteristiche di quegli avidi bottegai che, nel corso degli ultimi due secoli, hanno preso il sopravvento (diventando ai giorni nostri importanti politici e uomini d’affari) sia sugli aristocratici dallo stile e dai gusti femminei, sia su quegli artigiani che, soddisfatti del loro operato ma non bisognosi di accumulare ricchezze all’infinito, si accontentavano di fare le cose bene e con cura.

Le definizioni di maschilità che la nostra cultura ha sviluppato non sono solo basate sul potere di alcuni uomini su altri uomini (magari di diversa etnia o credo religioso), ma anche e soprattutto sulle donne; oltre al fatto che, come afferma il sociologo Michael Kimmel, gli uomini americani (e occidentali in generale) sono ormai “espressione di una definizione di maschilità che trae identità dalla partecipazione alle logiche del mercato”, ossia a “un modello di maschilità che si basa sulla competizione omosociale”.

“È proprio questa idea di maschilità”, scrive Kimmel, “radicata nella sfera della produzione, della vita pubblica, che non si identifica più con il possesso della terra o con la virtù artigiana, bensì con la partecipazione e il successo nella competizione di mercato”. Per il sociologo americano la maschilità deve dunque essere dimostrata e, appena dimostrata, è nuovamente messa in discussione e va difesa un’altra volta: un processo senza fine che finisce per perdere di significato, diventando “un gioco nel quale vince chi, alla fine della vita, possiede più giocattoli”. In altre parole, per Kimmel il concetto di maschilità di mercato descrive “la definizione normativa della maschilità americana, con le sue caratteristiche di aggressività, competitività ed ansia”.

Aggressività, competitività, ansia: tutte caratteristiche della società della crescita a tutti i costi. Crescita economica e quindi crescita di profitti, potere, status. Una corsa infinita verso l’alto, in attesa di essere colti dalla vertigine. Perché, quindi, si può dire che la decrescita è donna? Perché, al contrario delle ansie e della competitività fine a se stessa evocate dalla maschilità di mercato, si propone di dare un freno a questo non-senso, a queste dimostrazioni di insicurezza tipiche delle nostre società “machiste” dominate da bulli di ogni risma (risaputamente tali perché caratterizzati da grandi insicurezze e mancanze che hanno continuamente bisogno di essere compensate).

Perché la decrescita, soprattutto se felice, propone la lentezza, il rispetto, la collaborazione… la durata. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno, così come una donna, in quanto tale, non ha bisogno di dimostrare o di ostentare la propria femminilità. A meno che, sempre assoggettandosi ai voleri dei “maschi di mercato”, non sia disposta a diventare un modello della bellezza preconfezionata decisa a tavolino dal marketing e dalla pubblicità, se non addirittura un oggetto.

La decrescita è quanto di più femminile si possa immaginare, un antidoto alle tensioni competitive, alle eterne frustrazioni di un ideale di superman impossibile da raggiungere, alle ansie da prestazione (in qualunque campo le si vogliano intendere o temere), ancora una volta tipiche dell’uomo occidentale moderno.

Cosa c’è di più bello dell’essere accolti, abbracciati con calore, rassicurati, invece che vivere la propria intera esistenza come una gara di corsa veloce? Cosa c’è di più sensato dello smettere di sfruttare risorse in rapido esaurimento, magari solo per finire la propria esistenza dimostrando a tutti che si sono accumulati “più giocattoli” di quanto abbiano potuto o saputo fare i bambinoni attorno a noi?

Nulla, per chi ha capito che accumulare giocattoli non è necessariamente il fine ultimo dell’esistenza umana. Una vita di corse, ansie e frustrazioni per tutti coloro che, invece, non hanno ancora avuto modo di tenere a freno l’aggressività del maschio dominante. In una società, però, in cui egli è tutto tranne che dominante, in quanto schiavo di se stesso e delle sue ambizioni. O deliri, che da un paio di secoli a questa parte, sono arrivati addirittura a volere sfidare e dominare la natura. Anzi, Madre Natura.



Tratto da:  www.ariannaeditrice.it

 
 
 

DANIELE FORMENTI CI ILLUMINA: GRAZIE!

Post n°432 pubblicato il 11 Luglio 2011 da Fratus

Davvero illuminante, se non geniale, una frase pubblicata oggi su un giornale on line (La Voce) diretto da un evoluzionista che partecipa a dibattiti con creazionisti e antievoluzionisti.
Probabilmente l’autrice dell’articolo ha partecipato e magari collabora a queste iniziative, per cui l’osservazione ingenua che non si dovrebbe confondere creazionismo con antievoluzionismo (“Non si ripeterà mai abbastanza che l’antievoluzionismo non ha nulla a che vedere con il creazionismo. Lo si potrà ripetere ancora miliardi di volte, ma non cambierà mai nulla: l’evoluzionismo sarà scienza, l’antievoluzionismo un sinonimo di apparizione magica”) deriva semplicemente da una visione parziale e limitata al panorama italiano.
Se avesse studiato e capito cos’è avvenuto negli USA dal 1989 al 2000 (e lo spiega bene il
processo di Harrisburg, sempre che non venga studiato sugli articoli del Foglio) saprebbe che oggi è sufficiente saper distinguere fra quel che è scienza da quello che non lo è, comunque sia denominato.
Avrebbe potuto così evitare l’imbarazzante “finale” dell’accusa che rivolge sbrigativamente al suo giovane amico, filosofo della scienza, che invece ben sa riconoscere quali siano le differenze importanti da verificare: “Ma se non ti sei interessato, non hai letto, come fai a dare un giudizio?”.
Questa semplice ma logica (e ottima) osservazione dovrebbe portare lei (e gli altri che apprezzano le sue riflessioni…) molto lontano da dove sono attualmente … Se è vero che si devono valutare e utilizzare le conoscenze e le competenze, si potrebbe far notare che non tutte quelle che
apprezzano sono coerenti con le problematiche che difendono e sostengono. E’ importante anche verificare che le competenze siano complete: abbiamo imparato che sarebbe meglio non affidare un aereo a chi non ha pensato fosse utile imparare anche come si atterra.

Mio commento:

Sono illuminanti i ragionamenti di Daniele Formenti; tira fuori gli Stati Uniti d’America e il processo di Harrisburg quando gli conviene e senza che il fatto c’entri con i commento della giornalista… Ripetiamo al professore che l’antievoluzionismo dimostra l’inconsistenza scientifica del neodarwinsimo, ne spiega l’incapacità nell’interpretazione dei fatti senza sostenere un’alternativa in quanto si ritiene che la teoria di Darwin non rientri nel campo della scienza ma in quello della filosofia o ancora meglio della religione. Infatti credere che il nulla, il caos e il tempo abbiano creato l’esistente cosa è se non un atto di fede?

Le competenze sono complete solo a chi fa comodo alla “nomenclatura evoluzionista”, una cricca che opera come lobby nel mondo della scienza in Italia. Ci chiediamo se il Formenti sta minacciando il direttore de la Voce che, da uomo libero e di cultura, è disponibile a confronti e a dibattiti nella vana speranza di trovare una verità oggettiva ovunque essa porti.

 

 
 
 

Daniele Formenti, non partecipa ma... commenta!

Post n°431 pubblicato il 08 Luglio 2011 da Fratus

Davvero deprimente un articolo (Il crepuscolo degli evoluzionisti?) che racconta di un’iniziativa organizzata da AN in cui persone spinte da fedi religiose davvero diverse (avventisti, musulmani, testimoni di Geova) si sono ritrovate nella sala del consiglio comunale di Viterbo per cercare di riportarci ai “bei” tempi in cui anche in Italia la chiesa cattolica non si sentiva in imbarazzo a difendere pubblicamente, con convinzione e senza vergogna, i miti della creazione.

Certo è evidente che un sostegno diretto alla teoria dell’evoluzione è e sarà da escludere ancora per anni e forse decenni, come conferma anche in questi giorni un cattolico autorevole in un imbarazzante articolo sull’Avvenire del 28/6 ("Il vero ' puro amore'").

Qualche possibilità che si tenti di modificare qualcosa comunque la si intravede; soprattutto dopo la nomina di Werner Arber, un Nobel neodarwinista, a presidente dell’Accademia Pontificia delle Scienze. Forse l’Accademia Pontificia non è molto importante, avendo solo un ruolo di consulenza, e con certo su questioni di fede, ma certo non sembra corretto sottovalutare che il papa abbia nominato come presidente, dopo un “quasi Nobel” come il fisico evoluzionista N.Cabibbo, un vero Nobel, un biologo evoluzionista che difende con orgoglio (sull’Avvenire del 10/2) il suo ruolo nel dimostrare la teoria dell’evoluzione.

Come è evidente dalle sciocchezze raccontate nell’articolo, invece a Viterbo non hanno ricevuto un contributo positivo i pochissimi (per fortuna) giovani presenti, a cui non sono stati forniti strumenti utili per capire come distinguere i dogmi di fede (diversi da una religione all’altra) dai risultati utili che si ottengono grazie all’applicazione del metodo scientifico.

Tratto da L'Antievoluzionismo in Italia, il blog di Daniele Formenti

Povero Daniele Formenti che continua a commentare (ed inventare) convegni ed iniziative a cui non partecipa, è il solito metodo falsificatore della “nomenclatura evoluzionista” che, non in grado di fornire oggettive prove a favore di una ipotesi falsa e pure inutile, cerca riparo presentando gli incontri come attività di tipo religioso o politico… E' risaputo che i neodarwinisti scrivono pagine e pagine su testi, convegni e dibattiti di cui non sanno nulla; il caso De Mattei ne è testimonianza. Telmo Pievani riuscì a commentare e stroncare il saggio senza che il libro fosse ancora in libreria e ammettendo nel suo articolo pubblicato da Micromega (ecco dove è la politica, non a Viterbo) di non avere letto il lavoro curato dal professore.

Purtroppo per Formenti durante l’incontro si è parlato di scienza e dati oggettivi.

Aspettiamo Daniele Formenti per un confronto in cui, parlando di scienza e “fatti”, lo inviteremo ad  illuminarci su quesiti a noi (e ai più) sconosciuti:

  • come è nata la vita
  • come si è sviluppata la prima cellula
  • da dove arrivano le nuove informazioni per le nuove specie sempre più complesse
  • perché non esistono anelli di congiunzione tra le specie

e molte altre domande a cui nessun neodarwinista è in grado di dare risposte verificabili.

In Primavera a Milano, lo aspettiamo volentieri.

 
 
 

Il crepuscolo degli evoluzionisti?

Un momento del convegno A.I.S.O.

Si è svolto ieri il convegno dal tema “Evoluzionismo: un’ipotesi al tramonto?”.

Per leggere l'articolo:

Da: http://www.tusciamedia.com/viterbo/eventi/6924-il-crepuscolo-degli-evoluzionisti.html

 
 
 

Darwin aveva ragione?

La risposta al quesito verrà fornita, illustrata, analizzata e approfondita venerdì 24 giugno, nell’ambito del convegno in programma presso la sala consiliare di Palazzo dei Priori.

L’appuntamento, patrocinato dal Comune di Viterbo, la cui apertura e introduzione dei lavori sarà curata dal presidente del consiglio comunale Giancarlo Gabbianelli, è promosso dal consigliere comunale Maurizio Federici, sempre attento alla tematica scientifica e agli incontri dedicati a tale argomento.

Il convegno vedrà l’intervento del fisico Ferdinando Catalano, dell’ingegnere Stefano Bertolini, del sociologo Fabrizio Fratus e del medico Cihat Gundogdu, rappresentante del gruppo di Harun Yahya.

Nell’ambito del convegno antievoluzionista, Bertolini e Gundogdu presenteranno argomenti scientifici sulla selezione naturale, sull’origine della prima cellula e sulla mancanza di anello di congiunzione delle varie specie. Successivamente Fratus si soffermerà sul perchè la nota teoria venga difesa con così tanta forza dalla “nomenclatura evoluzionista”.

Termineranno la sezione scientifica il già professore all’Università di Padova e del Molise Catalano che confuterà pubblicamente le tesi di Stephen Hawking. L’incontro avrà inizio alle 17.

 
 
 

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