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CHE FORTUNA, ERA ANCORA VIVA! di Alga Madìa

Post n°158 pubblicato il 25 Novembre 2010 da chevipera29
Foto di chevipera29

E‘ vero, era stata fortunata

Di Alga Madìa

La foresta non conosce zone protette, lo sapeva … cominciò a pregare in silenzio perché qualcuno la aiutasse. Non aveva altro con se. Non poteva altro. Fu allora che forse qualcuno la ascoltò, forse le accarezzò dolcemente i capelli più volte e quella mano forte sulla sua testa la rilassò fino a farle chiudere gli occhi, che nonostante il buio fitto, continuavano a restare sbarrati per il terrore. Forse Qualcuno provò finalmente pena, forse svenne, forse cadde in un sonno profondo. Ora un raggio di luce, flebile e delicato, filtrava attraverso gli alberi fitti, fitti. Si posò sulle sue gambe nude e sporche di terra, di fango, di sangue. Sentiva come un calore insieme ad un dolore sulla gamba.  Un calore ed una sensazione di liquido. Non riusciva ad aprire gli occhi, era caduta come in trance, in un sonno profondo. Trasalì mentre contemporaneamente ritrasse la gamba, come a raggomitolarsi per occupare meno spazio possibile. Un grido di dolore le uscì istintivo, ma per la paura di attrarre qualcuno, si portò una mano sulla bocca quasi a voler zittire se stessa. Un cane le era venuto vicino e si era sdraiato accanto alle sue gambe e le aveva leccato le ferite, fino a svegliarla. Ora la guardava, mansueto e incredulo per essere stato causa del suo urlo, come se l’avesse capito. Era rimasto fermo, immobile nella stessa posizione, praticamente parallelo alle sue gambe e muoveva solo la coda, in segno di offerta di amicizia. Il sole pallido le rendeva tutto più chiaro e quel cane sembrava un miracolo, lo avrebbe scoperto più tardi, qualche ora dopo. Non sapeva cosa fare, era grande ed aveva il pelo lucido, pulito, come se non fosse un abitante di quel luogo. Intorno a lei solo alberi di tutte le specie. Lei non sapeva riconoscerle, le decine di specie, ma si rendeva conto che i tronchi erano diversi fra loro. E pure le foglie. Impietrita sotto un gigantesco tronco non aveva più avuto il coraggio di muoversi. Era immobile, ma non aveva più paura: quel cane non le sembrava nemico. “Ehi!” gli disse. E lui capì, perché il movimento della sua coda si fece più rapido. Si alzò e le andò più vicino, verso il viso e cominciò a leccarla dappertutto. Lei si riparò un po’ con le mani, ma una le faceva male e la parte interna era graffiata dai tentativi di proteggersi in quelle lunghe ore. Quanti uomini quella notte l‘avevano immobilizzata, avevano abusato di le, l’avevano violentata selvaggiamente? Animali, bestie. Non riusciva a pensare molto: nel freddo delle prime ore del mattino nella foresta, l’unico calore che sentiva era quello delle lacrime che scendevano sul viso. Non riusciva ad alzarsi, ma doveva farlo. Era attonita, senza forza né fisica né morale che l’aiutasse a reagire, non aveva neanche più paura di quel posto. Pensava. – perché non sono morta?- Il cane al contrario sembrava sollecitarla ad andare via di là. Riuscì a trovare la posizione verticale, provò, con quel minimo di pudore che l’umiliazione aveva annientato, a tirar giù quella che era stata la sua gonna. Una gonna di seta beige, quasi color bronzo chiaro, fluida e larga al fondo e aderente al punto vita, sui fianchi.  Brandelli di stoffa ormai, macchiati di sangue e fango.  La guardava quel cane, non perdeva un solo attimo dei suoi movimenti, che erano incerti e goffi. Zoppicava un po’ , trascinava leggermente il piede sinistro. Si affidò all’unico essere che le sembrava umano in quella foresta. L’avrebbe riportata dove la notte prima la sua auto era rimasta in panne? Non aveva alternative. Mentre camminava sentiva colarle sulle gambe tutta la brutalità che quelle bestie erano riusciti a riversarle dentro. Una sensazione di schifo. Ancora lacrime e accanto a se il cane. Nient’altro. Pensava a quante offese aveva ricevuto nella sua vita. Ma le offese danno la possibilità di reagire, di combattere, di rivalersi. L’umiliazione, questa umiliazione, sarebbe rimasta nella sua mente e nella sua psicologia, impressa come il marchio agli ebrei quando entravano nei campi di concentramento: indelebile.  Si cominciava a sentire in lontananza il rumore di qualche automobile. Avrebbe voluto accelerare il passo ma al contrario qualcosa glielo rallentava. Aveva vergogna, pudore di mostrare a quel mondo pulito e ordinato, che aveva riposato e magari fatto l’amore, la faccia di una donna violentata, una donna resa un nulla. “Ma lei è ferita, oddio, ma che le hanno fatto? La porto subito in ospedale, vedrà, tra un poco starà meglio!” Emma non parlava, la bocca piena di lividi le faceva un male atroce. “Signorina, mia, ma perché ve ne andate in giro di notte? Io lo dico sempre a mia figlia …. Beh, comunque, le posso dire una cosa? Lei è stata fortunata. Si, perché questi balordi a volte, quando fanno quello che devono fare, alla fine le ammazzano pure, quelle povere ragazze. Ha visto quante volte succede?” Le lacrime sembrava avessero raccolto quanto di liquido avesse in tutto il corpo per uscire dai suoi gonfi occhi verdi ed arrivare giù, copiose, fino al collo. Con un fil di voce riuscì solo a dire “E’ vero, sono stata fortunata”.

 

 
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