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CONFERENZA DELLA MAESTRA ELENA SIBIRIU

Post n°158 pubblicato il 22 Marzo 2012 da ninolutec
 

STORIA DELL'OPERA LIRICA
ITALIANA
Editoria e critica
musicale - Puccini

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Oggi, giovedì 22 marzo, si è svolta, applauditissima alla presenza di un folto pubblico, la conferenza della maestra Elena Sibiriu, sul tema "Editoria e critica musicale-Puccini ".

Ne riporterò una breve e assolutamente libera sintesi perchè, per motivi tecnici, non mi è stato possibile utilizzare il materiale di Elena, memorizzato in una pen drive, che lei mi aveva gentilmente messo a disposizione.

 

Anni d'apprendistato

Ultimo rappresentante di cinque generazioni di musicisti in due secoli (XVIII-XIX) che s'estinsero con lui, raggiungendo i vertici dell'arte e la fama mondiale, Puccini intraprese gli studi musicali, dopo quelli classici, nel 1874 all'istituto musicale «Pacini» di Lucca, sotto la guida dello zio, Fortunato Magi, ma fu con Carlo Angeloni, già maestro anche dell'altro grande lucchese, Catalani, che poté studiare i primi spartiti, fra cui molte opere di Verdi. Dopo un precoce esperimento nel genere sinfonico (Preludio a orchestra in Mi minore-maggiore, 1876) ottenne presto il primo successo col mottetto Plaudite populi (1877) e un Credo, eseguiti nella ricorrenza di San Paolino, patrono di Lucca, il 12 luglio 1878, tanto che in occasione del saggio di diploma, due anni dopo, incorporò il Credo nella Messa a quattro voci con orchestra.

Viste le doti non comuni sin qui dimostrate, Puccini fu mandato a perfezionarsi al Conservatorio di Milano, capitale dello spettacolo nell'Italia d'allora, grazie ad una piccola borsa cui s'aggiunse una modesta rendita concessagli dallo zio, Nicolao Cerù. Lì ritrovò Alfredo Catalani, che aveva colto i primi successi, e per suo tramite entrò in contatto con l'ambiente della Scapigliatura milanese, fra cui spiccavano Boito, Faccio, Marco Praga e molti altri intellettuali di primo piano del tempo.

Nei primi tre anni milanesi (1880-1883) Puccini raccolse tutti gli elementi in grado d'assicurargli un futuro: nell'insegnamento dell'affermato operista Ponchielli, subentrato dopo un mese al suo primo maestro Bazzini (apprezzato in campo sinfonico e violinista rinomato), cercò soprattutto d'imparare il coup de théâtre, dote di cui avrebbe fatto sfoggio in numerose circostanze; da Amintore Galli, docente di storia e filosofia della musica, apprese i principi fondamentali dell'estetica wagneriana in rapporto alla tecnica armonica; infine, tramite gli spettacoli cui assistette alla Scala e nei teatri minori - quasi tutte le opere maggiori di Bizet, Gounod, Thomas - stabilì subito quel filo diretto col mondo francese che sarebbe divenuto uno dei tratti distintivi della sua sensibilità.

Da studente compose un Preludio sinfonico in La maggiore nel 1882, e l'anno successivo il Capriccio sinfonico, come saggio di diploma, che Franco Faccio, il più celebre direttore italiano, eseguì, alla guida dell'orchestra del Conservatorio, il 14 luglio 1883, e propose altre due volte a Torino nell'anno successivo. Il lavoro di Puccini ebbe un successo notevole, e piacque molto al critico Filippo Filippi, in prima fila fra i sostenitori in Italia della musica sinfonica e lirica del romanticismo tedesco.

Il Capriccio è un brano di rispettabili proporzioni per grande orchestra vicino alla forma del poema sinfonico e dimostra che Puccini era capace d'ingegnosità formali e di un'inventiva timbrica sconosciute agli operisti che trattarono il genere descrittivo. Ma è più interessante il Preludio, basato su un'estrema concentrazione del materiale, in cui è palese, nella sonorità incorporea dell'inizio, il richiamo al preludio del Lohengrin. Peraltro la migliore composizione di Puccini, al di fuori della produzione operistica, è senza dubbio la Messa a quattro voci con orchestra. I brani dell'ordinario liturgico hanno sempre acceso la fantasia degli operisti, i quali vi hanno individuato un evidente principio rappresentativo (e si pensi alla Messa da requiem di Verdi). In questa prospettiva vanno valutati l'attacco marziale del Gloria com'anche il tema iniziale del Credo, tuttavia non mancano alcune caratteristiche specifiche dello stile sacro, come all'inizio del Kyrie, caratterizzato da un elegante contrappunto corale a quattro parti in stile osservato. L'opera è piena di spunti rilevanti, in un arco di situazioni che passa dall'intensa drammaticità del Credo alla fatua eleganza dell'Agnus Dei, ed è sempre sorretta dall'orchestra, che qui ha un'autonomia più marcata rispetto gli usi del tempo. Nella Messa si rivela tutta la fantasia di un giovane di talento che, traendo partito da una grande e vitale tradizione familiare, seppe superarne i condizionamenti provinciali, creando i presupposti utili a sviluppare il naturale istinto per l'opera. La tecnica ragguardevole che dimostrò in quest'occasione è davvero la premessa di un futuro in cui il lavoro sull'affinamento del linguaggio avrebbe giocato un ruolo fondamentale per la realizzazione dell'effetto teatrale.


La conquista di uno stile

L'intricato nodo del libretto di Manon Lescaut, cui dal 1889 lavorarono dapprima il compositore-letterato Leoncavallo, poi Marco Praga e Domenico Oliva, e in cui ebbero parte sia Giuseppe Giacosa sia Giulio Ricordi, si sbrogliò grazie a Luigi Illica nel 1891, che raddrizzò i punti che Puccini sentiva deboli, senza intaccare l'equilibrio fra le parti già composte. Egli introdusse alcuni personaggi secondari, rese più lirico l'inizio del III atto e suggerì per la sua conclusione una «perorazione a tempo di marinaresca». Ma soprattutto risolse il problema del concertato con l'appello declamato dei nomi delle prostitute, indicando al compositore una precisa strategia formale: Puccini riuscì così a trasformare uno statico concertato in un brano d'azione, un obiettivo che lo stesso Verdi s'era posto nel terzo atto di Otello senza venirne a capo. In Manon Lescautil genio di Puccini esplose: l'invenzione è a getto continuo, l'ispirazione vi domina, né risulta percepibile all'ascolto l'accurato calcolo formale che solo lo studio della partitura può rendere palese. Un calcolo che giunge sino al dettaglio e garantisce all'opera il suo enorme impatto emotivo. Dopo il mezzo fallimento di EdgarPuccini affrontò concretamente il problema dell'opera in musica posto da Wagner, e riuscì a conciliare la propria tradizione con la realizzazione di un equilibrio diverso fra tutte le componenti dello spettacolo, puntando ad un amalgama indissolubile, sorretto da strutture formali tese e coerenti. «L'opera è l'opera: la sinfonia è la sinfonia», aveva scritto Verdi al conte Arrivabene nel 1884 criticando gli Intermezzi delle Villi. Il suo appunto era peraltro indirizzato solo all'inserimento di brani orchestrali di carattere descrittivo. Ma nel primo atto di Manon LescautPuccini passò i confini di quel genere, adattando con abilità strutture di tipo sinfonico alle esigenze dell'azione.

Il contatto con Wagner si sostanzia soprattutto nel rigore e nella coerenza con cui Puccini s'impossessò della tecnica leitmotivica, fondendola alla concezione italiana del dramma in musica, il cui pilastro rimaneva la melodia. Il materiale tematico impiegato nell'opera determina un articolato sistema di relazioni, che lega i personaggi alle situazioni vissute e agli stati d'animo relativi, in rapporti dove sovente la musica assume un peso decisivo, svincolandosi da pure e semplici necessità narrative per creare sofisticate associazioni simboliche. Si pensi al tema del nome («Manon Lescaut mi chiamo»), anticipato all'arrivo della carrozza ad Amiens: da questa sequenza Puccini trasse lo spunto, variandolo come un Leitmotiv, per numerosi momenti chiave della vicenda, quasi che nella musica della protagonista fosse contenuto in potenza il suo futuro e quello del suo amante.

Anche il piano tonale fu strutturato a fini di rendere coerente l'intreccio. Il primo atto tende un arco da La a Mi maggiore, la scena ‘settecentesca' (II atto) gravita nelle tonalità di Re e La maggiore e si collega all'Intermezzo mediante il Si minore, mentre il tema della protagonista attraversa varie tonalità (Si bemolle, Sol maggiore e altre) per essere assorbito nell'ultimo atto dal Fa diesis minore, relativo della tonalità iniziale. Spesso nella critica d'oggi tali rapporti vengono sopravalutati, oppure cercati dove non sono in nome della coerenza compositiva, ma la precisione con cui Puccini collega in Manon Lescaut le tonalità in quanto espressione di temi e melodie ricorrenti rivela precisi intenti drammatici.

Nella trattazione dei soggetti Puccini s'attenne sempre ad un saldo principio operativo: delineare sin dalle prime battute di un'opera l'atmosfera in cui si sarebbe svolta l'azione. In Manon Lescautegli si prefisse di tratteggiare la couleur locale storica del XVIII secolo, particolarmente nei suoi tratti ipocriti e leziosi. Per imitare musicalmente il Settecento Puccini utilizzò alcuni lavori precedenti, fra cui i Tre minuetti per quartetto d'archi, composti nel 1884 da cui trasse il tema dell'inizio dell'opera e la musica per il ballo. Nella prima parte del secondo atto va in scena la vita d'alcova. La rappresentazione della galanteria dei cortigiani, si oppone col massimo contrasto al clima del successivo duetto d'amore, dominato dalla più sincera delle passioni, ma al tempo stesso contaminato moralmente dalla solare corruttibilità della protagonista. Il madrigale, i minuetti, la canzone pastorale risuonano nel salotto di Geronte per far vivere agli spettatori il tempo interiore della mantenuta, motivandone le reazioni. A partire dal finale del second'atto, quando rientra Geronte sorprendendola fra le braccia dell'amante, la situazione precipita e inizia il cammino di Manon verso la morte, di cui Des Grieux diviene impotente spettatore. L'intermezzo ci introduce all'atmosfera desolata del terzo atto: da qui fino alla fine l'applicazione della tecnica della reminiscenza, incrociata con quella leitmotivica, si fa assai estesa.

Il compositore ribadì nell'estenuante conclusione nel deserto della Louisiana il tema centrale dell'opera: l'amore inteso come «maledizione» e passione disperata, dando il suo primo esempio di «musica della memoria», come farà in modo altrettanto indimenticabile in occasione della morte di Mimì, Butterfly e Angelica. I temi già uditi si susseguono, facendo interagire il passato col presente, e quel poco d'invenzione realizza un'unità poetica saldissima col materiale di tutta l'opera. La musica non deve descrivere nulla, perché nulla accade che non sia il logico effetto di ciò cui abbiamo assistito. La fine di Manon è l'inevitabile conseguenza del suo modo di vivere e assurge ad evento metaforico perché a morire non è soltanto un personaggio, ma un imbarazzante simbolo d'amore, come la disperazione non è solo quella di Des Grieux, ma di tutto il pubblico partecipe di quella morte.

Capolavoro del tardo romanticismo musicale, il quarto atto di Manon Lescautfa tornare in mente le conclusioni di Don Carlo e Aida. E ci rende palese l'enorme distanza col melodramma di Verdi, là dove la morte era l'unica possibilità per gli individui, oppressi dal potere, di realizzare le loro legittime aspirazioni terrene. «Non voglio morir!» urla solitaria, Manon. Gli amanti pucciniani continuano ad avanzare nella sabbia del deserto, fino all'ultimo cercando un'impossibile salvezza, perché l'unica certezza è la vita. Sono questi i valori disperati e sensuali dell'inquieta fin de siècle: la sensibilità moderna comincia qui dove il cielo scompare.

 Tra realismo e poesia

La Bohème nacque in clima di aperta concorrenza artistica fra Puccini e Leoncavallo, ognuno dei quali rivendicava per sé la priorità sul soggetto. Probabilmente aveva ragione il compositore napoletano, ma ciò ha poca importanza, poiché egli portò a termine il suo lavoro con notevole ritardo, oltre un anno dopo il suo rivale e oggi la sua Bohème è soltanto un documento del gusto d'epoca, mentre l'altra domina fin dal suo debutto il repertorio internazionale.

Illica e Giacosa riuscirono nell'arduo compito di ricavare una coerente azione operistica dal romanzo Scènes de la Bohème, in cui Henri Murger aveva rifuso propri raccontini brevi nel genere della narrazione d'appendice. I versi e le peculiarità drammatiche del libretto che fornirono a Puccini postulavano una musica che aderisse con la massima naturalezza a un'azione prevalentemente priva di episodi statici, del resto trovare un nuovo rapporto fra un'articolazione serrata del dramma e le tradizionali necessità liriche era un problema che tutti i colleghi di Puccini si erano posti, poiché alla fine del secolo in Italia non esistevano più confini rigidi fra generi. Riusciti esempi di commistione si potevano ritrovare in alcune opere di Verdi, e grazie alla Traviata Puccini aveva già potuto comprendere come si potesse stilizzare senza forzature l'elemento quotidiano all'interno del codice melodrammatico. Fu però dal Falstaff, praticamente costruito su una mobile successione di recitativo e arioso, che Puccini ebbe la definitiva conferma di quale fosse il modo migliore di evadere dalle costrizioni dell'opera divisa in arie, duetti e concertati, per creare un organismo unitario e coerente. Nella Bohème egli doveva trattare un'azione dove ogni gesto rispecchiasse la vita di tutti i giorni, al tempo stesso doveva conquistare un livello narrativo più alto, comunicando per metafora l'idea di un mondo in cui il tempo fugge, e di cui la giovinezza è protagonista: un ironico disincanto è sempre immanente anche nei momenti più intensamente poetici e il lato sentimentale sorge senza soluzione di continuità da un meccanismo che ha necessità di natura concreta, e ad esso ritorna trasformato in emblema.

Nei primi due quadri dell'opera l'elemento comico ha larga parte e convive con quello sentimentale, ne è prova il temino puntato e timbricamente sfaccettato dell'inizio - che torna sovente per ricordare come l'amore sia solo uno fra i tanti momenti dell'esistenza -, trattato con una concezione simile a quello esposto nelle tre battute iniziali del Falstaff. Per fissare un ritratto individuale e collettivo del gruppo di artisti squattrinati Puccini coordinò in scioltezza diversi parametri creando un continuum sonoro: estese melodie liriche, agili cellule motiviche, tonalità in funzione semantica, colori lucenti e vari in orchestra. Il telaio dell'azione poggia su temi che animano i diversi episodi in cui i protagonisti rivelano il proprio carattere, e anche l'incontro amoroso di Mimì e Rodolfo, pure improntato all'espansione lirica e dunque alla dilatazione psicologica del tempo, presenta un'articolazione narrativa da ‘canto di conversazione'.

Il frequente ricorso ad elementi che possano denotare e connotare la vita di tutti i giorni nella Bohème deve invece essere inquadrato nell'ambito generale di una maggiore attenzione rivolta nella seconda metà del secolo dagli artisti di tutta Europa alla rappresentazione della realtà nei propri lavori. Tale ‘realtà' permea particolarmente il colorito affresco del secondo quadro, dove Puccini riuscì a coordinare una elevata quantità di eventi, affidandoli a piccoli gruppi corali e ai solisti, e lo fece assicurando al contempo le opportune sincronie e una fulminea rapidità, con un taglio quasi cinematografico. Non c'è un solo episodio che perda di rilievo all'interno di un unico blocco concertato con piccoli episodi solistici, dove l'ambiente prende parte attiva nel dramma, e non si limita ad essere color locale, come in Mascagni o Leoncavallo.

Se nei primi due quadri della Bohème l'allegria regna sovrana, tutto nei secondi due parla di nostalgia, dolore e morte. La simmetria dell'intera struttura è stabilita dall'ultimo quadro, specchio del primo (siamo nella stessa fredda soffitta), più concentrato nelle dimensioni ma analogamente diviso in due metà dal carattere contrastante, gaia la prima, drammatica la seconda. Il tempo dell'azione non è specificato, si sarebbe quasi tentati di affermare che non ne sia passato dall'inizio dell'opera, oppure che si viva già nell'eterna primavera del ricordo. La netta impressione del déja vu è confermata dalla ripresa del tema con cui l'opera iniziava, ma in orchestra non c'è più la frammentazione dell'avvio, bensì il timbro impastato degli strumenti, che introduce concretamente un discorso già iniziato. Questo accorgimento si può leggere in chiave formale, come momento di amplificato riepilogo in una forma ciclica, ma è del pari evidente che l'esasperata dinamica produce una sensazione di enfasi quasi a voler nascondere la nostalgia, sentimento dominante della scena in cui Marcello e Rodolfo ricordano le rispettive amanti.

Tutte le emozioni che la fine di un essere amato può procurare sono sistemate secondo una scaletta che porta infallibilmente alla commozione il pubblico di ogni razza e d'ogni età. Tanta efficace universalità non è dovuta al solo potere evocativo della musica, ma anche alla sapiente strategia formale che governa la partitura: il ritorno nei momenti più opportuni dei temi che descrivono il carattere e le emozioni di Mimì l'hanno resa familiare e indimenticabile al tempo stesso. Inoltre la musica, riepilogando il già trascorso, va incontro al tempo assoluto, raccogliendo ogni sfumatura semantica del testo e ricostituendo una nuova entità, la memoria collettiva, sulla base dell'ordine in cui i temi sono riproposti.

«Sei il mio amor e tutta la mia vita». Qui si chiude il circolo vitale di Mimì, ormai divenuto sineddoche dell'amore romantico, perduto ma eternamente rimpianto. L'ultimo ad accettare la sua morte è Rodolfo: la sua invocazione disperata, vista come un cedimento di Puccini alla pratica del verismo, risponde invece a una logica che sarà applicata anche nel finale di Tosca: a un tema significativo è affidato il gesto che esprime il compimento della tragedia. L'opera si conclude con la stessa cadenza della commovente «Vecchia zimarra» di Colline, ed è un modo per scrivere con la musica la parola addio, ricordando il saluto commosso che il filosofo aveva rivolto al pastrano. La cadenza è il congedo più suggestivo da un mondo fatto di persone e di cose, un mondo di cui la morte di Mimì ha decretato la fine traumatica.

Liberati dai vincoli di una narrazione convenzionale, possiamo avvertire il peso metaforico di un evento tragico che interrompe bruscamente il flusso del tempo. A Rodolfo, e a tutti quelli che dividono le sue emozioni, non rimane il tempo di riflettere: la tragedia ferma l'azione e fissa quel dolore nell'eternità dell'arte, permettendo così alla Bohème di vivere per sempre.

 

 
 
 
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