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La pubblicità: luci e ombre nel sistema dei media (Parte terza)2.3. Dal finanziamento al condizionamento L’affermarsi dei media come industrie vere e proprie ha progressivamente ingigantito il ruolo del finanziamento pubblicitario. Molti media sono nati esclusivamente come procacciatori di profitto grazie alle entrate pubblicitarie, accentuando un fenomeno ormai irreversibile, che riguarda, in pratica, l’intero mondo mediatico: la pubblicità è diventata non solo fonte di finanziamento (parziale o totale), ma anche fonte di condizionamento. Già più di 20 anni fa il Rapporto McBride sui problemi della comunicazione del mondo, redatto per iniziativa dell’UNESCO, definiva chiaramente il rapporto instauratosi tra pubblicità e media: le modalità di finanziamento influenzano i media fino a condizionarne gli stessi contenuti editoriali (quelli che io ho chiamato “primari”), soprattutto l’informazione e l’intrattenimento. Effettivamente la storia dei media, e in particolare della televisione, è la storia di un peso crescente della pubblicità nelle scelte editoriali. Nulla può frenare gli “ordini” del marketing. Un grande giornalista come Indro Montanelli ammetteva, parecchi anni fa, che il vero direttore di in giornale è il direttore del marketing. Anche la Chiesa, nell’Istruzione pastorale “Communio et Progressio”, ha rilevato il pericolo che gli ingenti capitali impiegati nella pubblicità rappresentano per i fondamentali scopi degli strumenti della comunicazione sociale, la cui libertà «può essere messa in serio pericolo dalle forti spinte degli interessi economici. Poiché è chiaro che tali strumenti non possono esistere senza una solida base finanziaria, ne risulta che hanno possibilità di sopravvivere soltanto quelli che riescono a trarre un maggior utile dalla pubblicità. Si apre così [anche: n.d.a.] la strada a concentrazioni monopolistiche, che sono un ostacolo all’esercizio del diritto di dare e ricevere informazioni e alla libera circolazione di idee nella società»”. A tale riguardo il documento sostiene la necessità di salvare ad ogni costo un equilibrato pluralismo, “se occorre anche con appropriati interventi legislativi, per impedire che le risorse provenienti dalla pubblicità vadano soltanto alle grosse concentrazioni degli strumenti di comunicazione”. Per diffondere tanta pubblicità, la Tv trasmette 24 ore su 24: ma per riempire l’intera giornata significa, inesorabilmente, mandare in onda di tutto. Anche questo ha contribuito all’avvento della trash television, che sembra costituire l’essenza della programmazione oggi prevalente, frutto della “tirannia dell’audience” che porta a privilegiare la cattura dei contatti rispetto ad ogni altro obiettivo. Da cui il ricorso a elementi di richiamo sempre più provocatori, trasgressivi, che vanno dalla spettacolarizzazione (e dalla falsificazione) dell’informazione alle speculazioni sul sesso, dalle risse in diretta nei talk show televisivi alle massicce dosi di violenza nei film, fino alla volgarità totale in gran parte della comunicazione di massa. Diventa determinante, in tale orientamento, il valore della diffusione, il numero degli individui raggiunti. Per tutti i mezzi di comunicazione che ospitano inserzioni pubblicitarie vengono realizzate ricerche di carattere quantitativo e qualitativo per accertare quanti individui essi raggiungono e le loro principali caratteristiche socioeconomiche. Sono promossi d’intesa tra gli inserzionisti pubblicitari e i mezzi stessi. Così per la stampa esiste un sistema di rilevazione della diffusione (ADS) e uno per l’accertamento della lettura (Audipress), per la radio una ricerca sull’ascolto (Audiradio) e così via, fino all’Audiweb, che misura i contatti con i siti Internet. Si tratta di sistemi che non offrono risposte precise, talvolta appaiono discutibili. Si ricorda, nel passato, un caso di corruzione che ha costretto a sostituire l’istituto di ricerca. Ma nel campo televisivo la caccia al numero è davvero impressionante, fino a condizionare la vita o la morte dei programmi. 2.4. La caccia all’audience I dirigenti televisivi americani affermano, spesso, di non essere produttori di programmi, ma procuratori di “teste” a favore degli inserzionisti pubblicitari. Più “teste”, maggiori tariffe degli spazi, quindi maggiori guadagni per le reti Tv. Il conteggio delle “teste” televisive avviene, in Italia (come altrove) con un sistema tra i più avanzati nel rilevamento delle audience medianiche. Da noi si chiama “Auditel” ed è nato nel 1986. Si tratta di un sistema molto discusso, soprattutto per la sua trasformazione in arbitro quasi assoluto della programmazione: un uso perverso. Mentre dovrebbe servire per contare (facendolo correttamente) il numero dei telespettatori sintonizzati sui diversi canali, e quindi per svolgere una funzione utile agli inserzionisti e alle emittenti per calcolare le tariffe e valutare le opportunità di inserimento degli spot, ha finito per trasformare il dato qualitativo in misura unica del “valore” delle trasmissioni, una sorta di aberrante “indice di qualità”. Di fatto, la caccia all’ascolto ha condotto la programmazione a livelli miserevoli, perché gli ingredienti usati per condirla sono, essenzialmente, la volgarità e la violenza, l’esibizione smodata della sessualità e la rissa come modello di discussione nei talk show e nella stessa comunicazione politica. Si deve ad uno dei più noti studiosi italiani dei media e della televisione, Gianfranco Bettetini, questo sintetico e impietoso giudizio: “La Tv delle origini era in mano a persone con un certo spessore culturale e, aggiungerei, etico; persone che si preoccupavano dell’effetto dei programmi sul pubblico, consapevoli che la Tv doveva non solo divertire, ma anche formare. L’ingresso sulla scena di Mediaset e la conseguente corsa alla pubblicità hanno aperto i palinsesti al degrado. |
GITA A ORROLI
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