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La pubblicità: luci e ombre nel sistema dei media (Parte terza)

Post n°166 pubblicato il 30 Marzo 2012 da ninolutec
 

2.3. Dal finanziamento al condizionamento

L’affermarsi dei media come industrie vere e proprie ha progressivamente ingigantito il ruolo del finanziamento pubblicitario. Molti media sono nati esclusivamente come procacciatori di profitto grazie alle entrate pubblicitarie, accentuando un fenomeno ormai irreversibile, che riguarda, in pratica, l’intero mondo mediatico: la pubblicità è diventata non solo fonte di finanziamento (parziale o totale), ma anche fonte di condizionamento.

Già più di 20 anni fa il Rapporto McBride sui problemi della comunicazione del mondo, redatto per iniziativa dell’UNESCO, definiva chiaramente il rapporto instauratosi tra pubblicità e media: le modalità di finanziamento influenzano i media fino a condizionarne gli stessi contenuti editoriali (quelli che io ho chiamato “primari”), soprattutto l’informazione e l’intrattenimento. Effettivamente la storia dei media, e in particolare della televisione, è la storia di un peso crescente della pubblicità nelle scelte editoriali. Nulla può frenare gli “ordini” del marketing. Un grande giornalista come Indro Montanelli ammetteva, parecchi anni fa, che il vero direttore di in giornale è il direttore del marketing. Anche la Chiesa, nell’Istruzione pastorale “Communio et Progressio”, ha rilevato il pericolo che gli ingenti capitali impiegati nella pubblicità rappresentano per i fondamentali scopi degli strumenti della comunicazione sociale, la cui libertà «può essere messa in serio pericolo dalle forti spinte degli interessi economici. Poiché è chiaro che tali strumenti non possono esistere senza una solida base finanziaria, ne risulta che hanno possibilità di sopravvivere soltanto quelli che riescono a trarre un maggior utile dalla pubblicità. Si apre così [anche: n.d.a.] la strada a concentrazioni monopolistiche, che sono un ostacolo all’esercizio del diritto di dare e ricevere informazioni e alla libera circolazione di idee nella società»”. A tale riguardo il documento sostiene la necessità di salvare ad ogni costo un equilibrato pluralismo, “se occorre anche con appropriati interventi legislativi, per impedire che le risorse provenienti dalla pubblicità vadano soltanto alle grosse concentrazioni degli strumenti di comunicazione”. Per diffondere tanta pubblicità, la Tv trasmette 24 ore su 24: ma per riempire l’intera giornata significa, inesorabilmente, mandare in onda di tutto. Anche questo ha contribuito all’avvento della trash television, che sembra costituire l’essenza della programmazione oggi prevalente, frutto della “tirannia dell’audience” che porta a privilegiare la cattura dei contatti rispetto ad ogni altro obiettivo. Da cui il ricorso a elementi di richiamo sempre più provocatori, trasgressivi, che vanno dalla spettacolarizzazione (e dalla falsificazione) dell’informazione alle speculazioni sul sesso, dalle risse in diretta nei talk show televisivi alle massicce dosi di violenza nei film, fino alla volgarità totale in gran parte della comunicazione di massa. Diventa determinante, in tale orientamento, il valore della diffusione, il numero degli individui raggiunti. Per tutti i mezzi di comunicazione che ospitano inserzioni pubblicitarie vengono realizzate ricerche di carattere quantitativo e qualitativo per accertare quanti individui essi raggiungono e le loro principali caratteristiche socioeconomiche. Sono promossi d’intesa tra gli inserzionisti pubblicitari e i mezzi stessi. Così per la stampa esiste un sistema di rilevazione della diffusione (ADS) e uno per l’accertamento della lettura (Audipress), per la radio una ricerca sull’ascolto (Audiradio) e così via, fino all’Audiweb, che misura i contatti con i siti Internet. Si tratta di sistemi che non offrono risposte precise, talvolta appaiono discutibili. Si ricorda, nel passato, un caso di corruzione che ha costretto a sostituire l’istituto di ricerca. Ma nel campo televisivo la caccia al numero è davvero impressionante, fino a condizionare la vita o la morte dei programmi.

2.4. La caccia all’audience

I dirigenti televisivi americani affermano, spesso, di non essere produttori di programmi, ma procuratori di “teste” a favore degli inserzionisti pubblicitari. Più “teste”, maggiori tariffe degli spazi, quindi maggiori guadagni per le reti Tv. Il conteggio delle “teste” televisive avviene, in Italia (come altrove) con un sistema tra i più avanzati nel rilevamento delle audience medianiche. Da noi si chiama “Auditel” ed è nato nel 1986. Si tratta di un sistema molto discusso, soprattutto per la sua trasformazione in arbitro quasi assoluto della programmazione: un uso perverso. Mentre dovrebbe servire per contare (facendolo correttamente) il numero dei telespettatori sintonizzati sui diversi canali, e quindi per svolgere una funzione utile agli inserzionisti e alle emittenti per calcolare le tariffe e valutare le opportunità di inserimento degli spot, ha finito per trasformare il dato qualitativo in misura unica del “valore” delle trasmissioni, una sorta di aberrante “indice di qualità”. Di fatto, la caccia all’ascolto ha condotto la programmazione a livelli miserevoli, perché gli ingredienti usati per condirla sono, essenzialmente, la volgarità e la violenza, l’esibizione smodata della sessualità e la rissa come modello di discussione nei talk show e nella stessa comunicazione politica.  Si deve ad uno dei più noti studiosi italiani dei media e della televisione, Gianfranco Bettetini, questo sintetico e impietoso giudizio: “La Tv delle origini era in mano a persone con un certo spessore culturale e, aggiungerei, etico; persone che si preoccupavano dell’effetto dei programmi  sul pubblico, consapevoli che la Tv doveva non solo divertire, ma anche formare. L’ingresso sulla scena di Mediaset e la conseguente corsa alla pubblicità hanno aperto i palinsesti al degrado.
L’errore della politica e dei dirigenti Rai è stato di adeguarsi subito, ovviamente per rincorrere la pubblicità” (Intervista pubblicata da “Famiglia Cristiana”, n. 20/2007). Il Presidente dell’AIART (l’Associazione degli Spettatori di ispirazione cattolica) Luca Borgomeo non ha esitato a parlare di degrado sociale, culturale e morale prodotto dalla programmazione televisiva che (sono parole dello stesso Presidente della Rai, Petruccioli) presenta «micidiali cadute sotto il livello minimo di decenza». Ciò è dovuto, afferma lo stesso Borgomeo, all’uniformazione generalizzata dei programmi della tv pubblica e privata «per effetto di un continuo processo di omologazione al basso, indotta dalla frenetica rincorsa all’audience e, quindi, alla pubblicità». E’ dunque fatale che sull’intero sistema televisivo gravi un diffuso giudizio negativo, che chiama in causa tanto le trasmissioni del settore commerciale (in particolare di Mediaset), quanto quelle del servizio pubblico (la Rai) e che indica nella “corsa alla pubblicità” il fattore degenerativo fondamentale. Anche Umberto Eco, nella stessa intervista di “Famiglia Cristiana” più sopra citata ha sostenuto che la corsa all’audience, e quindi la corsa alla pubblicità, “ha rovinato tutto”. Sul fronte dell’emittenza si afferma, peraltro, che, in definitiva, tutto dipende dalle scelte dei telespettatori. Se non che i telespettatori possono scegliere solo tra ciò che i canali programmano, condizionati dai criteri di cui si è detto: la caccia al numero, che si ottiene con una programmazione “deficiente”, squallida e volgare. Ciò che accade, in termini colossali, in Tv, avviene anche negli altri media. Il condizionamento della pubblicità sulle scelte editoriali si è fatto devastante, fino a trasformarsi, a volte, in vero e proprio ricatto. Una denuncia documentata relativa al mondo della stampa è contenuta nel libro di Giuseppe Altamore. I padroni dell’informazione. Come la pubblicità occulta uccide l’informazione (Bruno Mondatori, 2006). L’autore, vicecaporedattore di “Famiglia Cristiana”, sostiene (e dimostra) che i confini tra pubblicità e informazione si fanno sempre più confusi, la comunicazione commerciale invade e inquina l’attività giornalistica, lo strapotere economico della pubblicità è ormai la vera minaccia per la libertà di stampa: società concessionarie (che vendono gli spazi per conto dei media) e uffici marketing dettano con sempre maggiore frequenza l’agenda dei contenuti da pubblicare: investimenti pubblicitari in cambio di favori giornalistici. Altamore dimostra, inoltre, che quando un giornalista osa interrogarsi su un certo settore produttivo il suo giornale rischia di perdere le inserzioni pubblicitarie: è quello che si chiama, comunemente, ricatto. Un aspetto patologico del rapporto tra pubblicità e media è costituito anche dalla pubblicità come forma di sovvenzione. E’ l’acquisto di spazi pubblicitari determinato non già da una pianificazione tecnicamente rigorosa, ma dall’intento di sostenere economicamente media “graditi”. Il rovescio della medaglia lo si trova nel boicottaggio dei media sgraditi.

 
 
 
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