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La pubblicità: luci e ombre nel sistema dei media (Parte sesta)

Post n°168 pubblicato il 30 Marzo 2012 da ninolutec
 

3.1. “Etica nella pubblicità

Il documento “Etica nella pubblicità”, che ho già ricordato (e che si richiama all’Istruzione

pastorale “Communio et progressio”, emanata il 23 maggio 1971, anch’essa già ricordata) sottolinea più volte l’influenza che la pubblicità esercita sul modo di pensare, sui valori, sui criteri di giudizio e di comportamento, ne rileva quindi l’importanza crescente nel mondo odierno, ed enuncia il dissenso da coloro che affermano che la pubblicità rispecchia semplicemente gli atteggiamenti e i valori della cultura circostante.

E’ poi netto il giudizio sui rapporti della pubblicità coi media che abbiamo considerato nella

seconda parte: «La pubblicità ha inoltre un impatto indiretto ma potente sulla società attraverso l’influenza che esercita sui media. […] Questa dipendenza economica dei media e il potere che essa conferisce ai pubblicitari comporta gravi responsabilità per entrambi». Nel suo insieme, tuttavia, il documento risente della preoccupazione di non demonizzare la pubblicità, arrampicandosi talvolta sugli specchi dell’ottimismo, come quando delinea i “benefici” della pubblicità, specialmente a favore della cultura. Ma è assai più convincente quando delinea i principali danni prodotti dalla pubblicità sul piano economico, politico, culturale, religioso. Di fronte a tali pericoli vengono enunciati «alcuni principi etici e morali che si applicano specificamente alla pubblicità», e precisamente la veridicità, la dignità della persona umana e la responsabilità sociale.

Nelle conclusioni, infine, si possono cogliere due indicazioni essenziali:

a) la necessità di codici volontari di deontologia rigorosamente osservati e della formazione etica dei professionisti, nonché di adeguati interventi pubblici (nn. 18, 19, 20);

b) la necessità di formazione ai media estesa al ruolo della pubblicità nel mondo

contemporaneo. Quanto ai codici volontari, si può dire che la loro esistenza costituisce un atto di responsabilità da parte delle categorie interessate. Nel caso della pubblicità, fin dal 1966 esiste in Italia un codice di autodisciplina, in origine chiamato “Codice di lealtà Pubblicitaria” e successivamente denominato, dal 1975, “Codice dell’Autodisicplina Pubblicitaria” (CAP). Nella sua attuale versione, questo Codice stabilisce, tra l’altro: il divieto della pubblicità ingannevole e non trasparente; della violenza, volgarità, indecenza; dell’offesa delle convinzioni morali, civili e religiose e della dignità della persona; della pubblicità che può danneggiare psichicamente, moralmente o materialmente i bambini e gli adolescenti. Obbliga, inoltre, ad evidenziare i pericoli per la salute e la sicurezza derivanti da taluni prodotti. Si tratta di una serie di regole particolarmente apprezzabili, la cui applicazione è affidata ad un Giurì e ad un Comitato di Controllo. Se non che le sanzioni sono, sostanzialmente, modeste e, spesso, esse vengono stabilite quando ormai la pubblicità è terminata. E poiché la sanzione principale consiste nell’invito a desistere dalla pubblicità giudicata contraria al CAP, se ne deduce

che il suo effetto è trascurabile. Non mancano, poi, decisioni discutibili nel merito. Il fatto è che i codici volontari o deontologici funzionano solo quando la loro accettazione è diffusa

e convinta tra coloro che vi aderiscono, i quali, di conseguenza, ne osservano spontaneamente le regole. In mancanza di un profondo senso morale, solo l’intervento coattivo dello Stato può ottenere risultati seri. In Italia il legislatore è intervenuto solo nel 1992 con una norma di carattere generale sulla pubblicità ingannevole, sotto la spinta di una Direttiva europea. Lo Stato era rimasto a lungo ancorato alla concezione della pubblicità come “dolus bonus”, cioè dell’inganno connaturato alla comunicazione commerciale reso però inefficace dalla consapevolezza dei consumatori che chi

vende tende ad essere sleale. Ma l’inganno, oltre a impedire scelte libere e coerenti da parte dei consumatori, danneggia anche i concorrenti, snaturando la trasparenza del mercato. Quanto alla pubblicità che può “offendere” esistono solo delle norme in ambito radiotelevisivo, prevalentemente destinatela tutelare bambini e adolescenti da messaggi che possono risultare per loro dannosi fisicamente, psicologicamente, moralmente.

Ma l’autodisciplina e le leggi dello Stato si sono rivelate, sinora, estremamente deboli. Da una fonte insospettabile come il quotidiano della Confindustria si è appreso recentemente che «tra le aziende è ancora molto diffuso il ricorso alla pubblicità ingannevole, nonostante nell’arsenale dell’Antitrust siano entrati nuovi poteri sanzionatori». Nessuna regola, naturalmente, riguarda l’effetto cumulativo della pubblicità, per il quale può valere

la seconda indicazione del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali: l’educazione ai media, con particolare riferimento alla pubblicità, in ragione della sua dimensione quantitativa, della sua influenza sui media, della sua spinta a consolidare la mentalità consumistica, dei suoi contenuti a vario titolo negativi. In questa direzione spinge, in particolare, un importante contributo proveniente dall’ambito professionale: l’ormai classico saggio di Richard W. Pollay “The Distorted Mirror: Reflections on the Unintended Consequences of Advertising”.

 

3.2. “Lo specchio distorto”

Nel suo celebre saggio, Richard W.Pollay ha raccolto una serie di valutazioni sugli “effetti

indesiderati” della pubblicità espresse da studiosi di varie discipline, quasi tutti nordamericani. Una sorta di antologia che, per quanto datata (1986) si presenta ancora estremamente attuale. La sintesi che ne deriva pone in luce che la pubblicità:

- promuove il materialismo come mezzo per raggiungere la felicità

- sollecita la ricerca di status e trasmette stereotipi sociali

- provoca egoismo

- diffonde idee fisse sulla sessualità

- causa conformismo, irrazionalità, ansia

- corrompe i valori religiosi

Esiste, come si vede, un’area estremamente vasta di effetti negativi che la pubblicità può produrre, sia con i singoli messaggi, sia nel suo insieme. Basterebbe ricordare tra i tanti, la degradante visione della figura femminile che viene data in molta pubblicità televisiva e affissionistica e nelle pagine dei periodici. Pollay rivolge un invito ai suoi ”colleghi” studiosi del marketing non solo per un’assunzione adeguata di responsabilità, ma anche per un approfondimento della ricerca, necessaria per conoscere più a fondo gli effetti esercitati “involontariamente” dalla pubblicità. Manca tuttavia, nel saggio di Pollay, l’approfondimento di due temi: 1) il rapporto tra pubblicità e media, che abbiamo considerato nella seconda parte; 2) il rapporto tra pubblicità e minori, che comunque lo studioso canadese richiama ripetutamente, ricordando l’elenco delle conseguenze indesiderate della pubblicità contenute nell’importante rassegna riguardante gli effetti della pubblicità sui bambini promossa dalla National Science Foundation del 1978. Quest’ultimo tema rappresenta la questione più ineludibile della questione pubblicitaria in termini educativi, culturali, sociali. Infatti, anche coloro che chiamano in causa la possibilità e la capacità di valutazione dei singoli messaggi e della influenza complessiva della pubblicità da parte di chi la riceve non possono negare che questa possibilità si acquisisce – se si acquisisce – con una progressiva maturazione che chiama in causa l’esperienza e il bagaglio cognitivo e critico. Del resto, è sempre in discussione l’esistenza di differenti capacità di ricezione anche da parte dei

consumatori adulti, cui si riferisce la questione se le norme che devono disciplinare la pubblicità, deontologiche o pubbliche, vadano riferite a un improbabile “consumatore medio” (o cittadino medio”) oppure alle persone più sprovvedute e, quindi, più bisognose e meritevoli di tutela. Che non sono solamente i minori. Tornando a questi ultimi (cioè ai bambini, ai ragazzi, ai giovani), appare evidente che si tratta di un pubblico del tutto speciale, caratterizzato da un ridotto controllo conoscitivo, da vulnerabilità

emotiva, da maggiore instabilità valoriale, da incapacità di gerarchizzare i bisogni, da più o meno forti tendenze imitative: tutti fattori in via di evoluzione e che si presentano diversamente articolati nelle varie fasce d’età. Su alcune fasce d’età l’appeal esercitato dalla pubblicità televisiva è particolarmente forte, a causa della sua brevità spazio-temporale, della semplicità delle situazioni e della semplicità verbo-iconica,

della presentazione di modelli attraenti, del carattere fortemente ludico, delle forme attraenti. Per i più piccoli la ripetitività risponde, addirittura, alla ricerca di un piacere rassicurativo. Il marketing imprenditoriale considera i minori come acquirenti-consumatori attuali, come soggetti influenti sulle scelte degli adulti, come acquirenti-consumatori futuri. Sulle insidie del marketing e della pubblicità a danno dei minori mi limito a segnalare due libri fondamentali, entrambi provenienti dagli Stati Uniti d’America:

- Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità, di Juliet B. Schor

[Apogeo, Milano 2004]. L’autrice, economista di formazione, è docente di sociologia al

Boston College;

- Il marketing all’assalto dell’infanzia. Come media, pubblicità e consumi stanno

trasformando per sempre il mondo dei bambini, di Susan Linn [Orme Editori, Milano 2004].

L’autrice è docente di psichiatria infantile all’Harvard Medical School.

I titoli dei due volumi e la qualifica delle loro autrici presentano una sintesi molto grave e

attendibile dei pericoli che incombono sui piccoli, diventati autentici ostaggi del mercato.

Prima di concludere vorrei accennare ad un ultimo aspetto della pubblicità, alla sua cosiddetta “creatività”, che spesso porta i pubblicitari a cavalcare temi, a maneggiare parole e immagini che presentano particolari aspetti di delicatezza sotto vari profili: educativo, sociale, culturale, politico, religioso. Per brevità mi limiterò a porre una domanda: si può consentire alla pubblicità di fare riferimento a tematiche “sensibili” – come la sessualità, i rapporti genitori e figli, la religione e i religiosi e via dicendo – per promuovere beni di consumo e, spesso, proponendo “soluzioni” discutibili di problemi controversi, del tutto estranee ai prodotti? Si tratta, in altri termini, della strumentalizzazione di valori particolari, etici o sociali, per finalità di

profitto commerciale, dell’uso dell’enorme potenza degli investimenti pubblicitari per sollecitare acquisti e consumi cavalcando ideali di altra natura, magari discutibili: così che le imprese diventano portatrici di messaggi, anche del tutto estranei ai prodotti e al loro uso, che influenzano idee, opinioni, modi di pensare, operando, in definitiva, non sul piano economico-commerciale, come sarebbe legittimo, ma su quello dei valori, dell’educazione, della cultura. Si invoca il diritto di parola non solo per segnalare e per esaltare prodotti, ma per cavalcare idee, temi, problemi, più o meno condivisibili, estranei all’attività d’impresa, e ci si arroga, in tal modo, un compito che non compete alla comunicazione commerciale e che spesso è addirittura conflittuale con gli interessi individuali e collettivi.

Non si deve dimenticare, in proposito, l’aspetto intrusivo e impositivo della pubblicità: basti qui accennare alla difficoltà dei genitori di fronte alla pubblicità televisiva (ma anche a quella radiofonica e a quella affissionistica) che “intervengono” su materie delicate - come la sessualità – imponendo non solo tematiche delicate in tempi inadatti ad un intervento educativo, ma anche risposte non conformi ai principi educativi seguiti dai genitori. Ciò comporta disagi e contrasti che mal si conciliano con la natura meramente commerciale della pubblicità e, è bene ripeterlo, con la sua tendenza a “imporsi non desiderata” secondo l’affermazione già citata di un autorevole pubblicitario.

 

 

 
 
 
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