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Conclusioni La pubblicità è una forma di comunicazione utile, se non indispensabile, alle imprese. Ma, per il suo linguaggio particolare e per la sua smisurata dimensione quantitativa, «si rivela nel mondo contemporaneo forza pervasiva e potente che influisce sulla mentalità e il comportamento» come avverte con chiarezza il documento “Etica nella pubblicità”. Considerata rispetto a tutti gli interessi che coinvolge, è stato possibile cogliere una serie di pericoli, alcuni molto gravi, che essa presenta per i singoli e per la collettività. . Tali pericoli, in parte legati dalla sua stessa natura, e quindi inevitabili, in parte connessi ad un uso non corretto delle sue tecniche, chiamano in causa sia la forte carica persuasiva dei singoli messaggi e le modalità con le quali essi vengono diffusi, sia la pubblicità nel suo insieme. Si può dire che, in larga misura, essa si traduce in una incessante spinta ai consumi, spesso superflui, su basi emotive e non razionali; in una non infrequente ingannevolezza; in una continua e sottile sedimentazione di valori estranei ai prodotti; nella proposta di sogni irrealizzabili e, quindi, di frustrazioni; nonché di modelli di comportamento e di vita discutibili e in una continua deformazione della realtà che condiziona negativamente anche la formazione dell’opinione pubblica. Ma, probabilmente, sono due gli effetti più gravi che la pubblicità può determinare o concorrere a determinare: il disorientamento dei minori e l’influenza esercitata sull’orientamento dei media, che spinge alla ricerca ossessiva della quantità, compromettendo seriamentene la qualità dell’informazione e dello spettacoloe, più in generale le loro potenzialità positive come strumenti di conoscenza, di dialogo, di intrattenimento. Nasce da queste considerazioni l’esigenza di un insieme di risposte in grado di condurre ad una nuova cultura della pubblicità, fondata essenzialmente sulla sua conoscenza come fenomeno complesso, che chiama in causa certamente il mondo professionale - le imprese, i pubblicitari, le loro organizzazioni rappresentative - e l’autorità pubblica, ma anche il mondo educativo, la Chiesa e ciascuno di noi, come consumatore, educatore, cittadino. Da solo, l’impegno educativo, per quanto fondamentale e prioritario, non può essere ritenuto da solo sufficiente. La pervasività della pubblicità, la sua capacità suggestiva, grazie anche al potere di richiamo – talvolta irresistibile - dei media che ne veicolano i messaggi e spesso li impongono, possono diventare fonti di pressione e di oppressione che l’educazione, lasciata a se stessa, non è in grado di contrastare appieno. Per questo tutte le risposte che sono state indicate non devono considerarsi alternative, bensì largamente interdipendenti. Nessuna di esse è in grado di ovviare, da sola, ai possibili effetti negativi della pubblicità. Insieme, viceversa, esse potrebbero armonizzarsi nell’intento di promuovere una vera e propria cultura della pubblicità, lontana da ogni demonizzazione e fondata invece su una conoscenza approfondita del fenomeno, in grado di coglierne i benefici, ma anche tutte le degenerazioni e di condurre alla individuazione di opportuni interventi correttivi. Una cultura capace, tra l’altro, di favorire il superamento di assurde chiusure corporative e di rafforzare la convinzione che l’interesse economico può conciliarsi con la promozione di una migliore qualità complessiva della vita. Ciò appare tanto più necessario tenendo presente l’impatto della pubblicità sui minori, soprattutto per quanto riguarda i media meno selettivi, in particolare la televisione e le affissioni. Basterà osservare, al riguardo, che la mancanza di autocontrollo del mondo pubblicitario e gli scarsi controlli dello Stato in tale ambito non possono che rendere assai più ardui e comunque meno efficaci gli interventi di natura educativa, avendo ben presenti l’inevitabilità dell’esposizione ai messaggi e la forza suggestiva delle immagini. Le stesse imprese, che oggi tendono a considerare fondamentale nella loro presenza sul mercato il concetto di “qualità totale”, non dovrebbero trascurare la “qualità etica” della pubblicità, per i suoi riflessi sui rapporti che le legano ai consumatori e all’ambiente in cui operano. E se intendono consolidare la legittimazione sociale, oltre che giuridica, della pubblicità, sono chiamate anche ad una seria autocritica che può portare non solo ad un loro migliore rapporto con i consumatori, ma anche ad una migliore armonizzazione delle imprese col loro ambiente. Nella relazione all’assemblea annuale dell’UPA del 1992, il Presidente dell’Associazione Giulio Malgara affermava chiaramente in proposito: «Dopo sei anni dal Congresso Nazionale della pubblicità organizzato a Roma dall’UPA con tutte le componenti principali della pubblicità, sento il bisogno di dire, con la stessa solennità e alle stesse componenti del mondo della comunicazione, che oggi si impone a tutti un comportamento eticamente corretto, improntato a quella trasparenza e a quel rigore per i quali ci siamo battuti per molti anni e che oggi vanno perseguiti più che mai. La legittimità politica, economica e sociale della pubblicità così potentemente affermate e largamente riconosciute in quel Congresso ormai lontano, hanno come presupposto primo quella eticità di comportamento, che è anche alla base della professionalità del nostro ruolo, della nostra pretesa di ottenere leggi idonee e giuste, della nostra forza per ottenere un’autonomia e un riconoscimento sempre più larghi». A queste parole non si può dire, a distanza di quindici anni, che siano seguiti fatti significativi. Quanto al finanziamento dei media abbiamo visto a quali effetti perversi può condurre. La pubblicità, del resto, non nasce e non viene promossa per finanziare i media: il finanziamento è una conseguenza dello scambio che avviene tra inserzionisti e gestori dei media. L’educazione non deve sminuire il valore positivo della pubblicità nell’economia moderna, ma non può ignorare le sue trappole e la grande ragnatela ideologica che i suoi messaggi costruiscono incessantemente giorno per giorno; e deve quindi aiutare i giovani a individuarne le finalità, gli artifici, i pericoli, senza che ciò suoni condanna per una forma di comunicazione che, se rettamente concepita, realizzata e diffusa, può giovare al progresso delle imprese e anche a quello della collettività. Ma è partendo dall’educazione che può nascere una cultura complessiva della pubblicità in grado di coinvolgere imprese, mondo professionale, mezzi di comunicazione, istituzioni. E’ una conclusione impegnativa, che tuttavia risponde al quadro che ho cercato di tracciare, non so con quanta efficacia. Si tratta, in definitiva, di conferire alla pubblicità un carattere meno conflittuale con gli interessi generali, di avere quindi, come riferimento ultimo, il bene comune. |
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