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Carniti: Promemoria da Massa Martana - 3

Post n°168 pubblicato il 02 Settembre 2015 da greppjo
 
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PROMEMORIA SU ALCUNI PROBLEMI PRIORITARI PER IL SINDACATO

(3- seguito)

di Pierre Carniti

( segue da 2) - Stando così le cose, non servono a nulla gli auspici affinché  il pluralismo sindacale riesca comunque trovare, di tanto in tanto, punti di approdo unitario. Bisogna anche dire chiaramente che la situazione in atto non può scoprire un alibi nel fatto che l’esperienza unitaria è fallita persino in momenti che parevano essere più propizi. Quanto meno in relazione all’orientamento prevalente tra i lavoratori. Tuttavia, il richiamo a precedenti insuccessi appare essenzialmente strumentale. E quindi privo di senso. Intanto perché esso prescinde da un elemento decisivo. Vale a dire il peso che nelle vicende pregresse ha avuto il comunismo, come movimento politico organizzato. Sia per la sua  pretesa di interpretare il “primato della politica” come “primato del Partito”, che per la regola del “centralismo democratico”. Regola, secondo la quale, la discussione era libera, ma la solidarietà con “il centro” al termine della discussione era obbligatoria.

Ormai però, da oltre un quarto di secolo (tanto a livello internazionale che nazionale) il comunismo è scomparso. Quanto meno come movimento politico organizzato. Rimane certamente qualche nostalgico, qualche solitario devoto, ma ovviamente  senza alcuna effettiva capacità di influenza sulla dinamiche dei movimenti collettivi. Cos’è allora che può ancora giustificare il persistere del pluralismo di organizzazioni sindacali confederali. La risposta degli “addetti ai lavori” (in particolare del ceto sindacale, sempre più chiuso nell’ermetismo dei suoi dogmi) è che la spiegazione deve essere ricercata nell’esistenza di “differenze sulle politiche”. Si tratta  tuttavia di un punto di vista del tutto evasivo e perciò privo di persuasività. Infatti le differenze sulle politiche sono sempre esistite. Esisteranno sempre. Esistono anche all’interno di ogni organizzazione. E quando non si manifestano è un brutto segno. Perché vuol dire che si discute troppo poco. Vuol dire che prevale il conformismo, che non è mai il miglior coadiuvante della democrazia interna.

Il problema vero, dunque, non solo le differenze. Del resto il progresso umano è avvenuto perché le diversità tra una cultura ed un’altra, tra un paese ed un altro, sono sempre state assunte come una ricchezza individuale e collettiva insieme. Ovviamente non tutte le diversità sono uguali, non tutte le diversità sono fruttuose, non tutte le diversità sono interessanti. Dobbiamo quindi concepire le diversità non solo come indubbio pregio dell’esistenza degli esseri umani, ma funzionali ad un progetto, ad una idea, ad uno scopo ad un interesse. E’ questo il motivo che rende la diversità di opinioni in un sistema democratico cosa fondamentale. Se si esclude qualche eccentrico e settario noi siamo oggi pienamente consapevoli che la ragione non sia tutta da una parte e dall’altra il torto. Anche se a volte sembra difficile crederlo. Specialmente in Italia. Ma allo stesso tempo siamo sicuri che dal punto di vista cognitivo, della consapevolezza, è un bene che ci sia questa differenza. Perché nelle disparità dei pareri, nelle discussioni, la diversità delle opinioni fruttifica, è generativa. Ovviamente se ciò avviane in un contesto di democrazia. Lo strumento della democrazia diventa infatti il ponte tra individuale e collettivo. Questo e non altro distingue una diversità futile, superflua, inutile o qualche volta addirittura dannosa, da una diversità funzionale al sistema in quanto tale. Perciò la cosa che conta non è la presa d’atto della disparità di opinioni, ma dove si può o si vuole arrivare. Quindi l’esistenza di snodi costruttivi per affrontare le difficoltà che si riscontrano nei percorsi che intraprendiamo. In quanto allora la democrazia è in grado di porre le differenze di opinioni a frutto di una maggiore consapevolezza collettiva.

Per il sindacalismo confederale il problema dunque non è dato dall’esistenza di diversità, di differenti opinioni, deducendone un alibi per l’inazione, è semmai quello di predisporre un meccanismo (nel nostro caso modalità democratiche condivise) che le metta insieme e le faccia diventare una volontà collettiva unica, più alta e più coesa rispetto alla incapacità delle singole organizzazioni di affrontare i problemi pubblici. Stando così le cose la questione che sta di fronte al sindacalismo confederale non è ovviamente quella di ripiegarsi su sé stesso per recriminare sull’esistenza di disparità di opinioni, autocondannandosi all’impotenza ed alla paralisi, quanto piuttosto di stabilire di stabilire con quali mezzi e metodi, quando le differenze si manifestano, possono essere ricondotte a sintesi unitaria. Il nodo essenziale, allora, è semplicemente quello di stabilire se le organizzazioni sindacali hanno la volontà e la capacità di darsi norme che le mettano in grado di decidere assieme. Soprattutto in presenza di posizioni contrastanti.

A questo fine le regole canoniche della democrazia (cinquanta più uno delle teste) possono risultare inadeguate a stabilizzare una pratica di unità d’azione. Perché venendo da una lunga stagione di divisioni è difficile che una maggioranza di voti sia sufficiente a garantire l’accettazione di un risultato cooperativo, o conflittuale, sostenuto da chi vince il confronto. Decisioni a maggioranza qualificata potrebbero risultare più rassicuranti ed appropriate. Almeno per accompagnare la fase di transizione verso approdi unitari più strutturati e definitivi.

Particolare circospezione e cautela andrebbe anche utilizzata circa l’impiego di strumenti referendari. Soprattutto quando escono dal perimetro dell’azienda per coinvolgere l’insieme dei lavoratori. Sia per l’impossibilità di attivare controlli effettivi sul loro esito reale. Sia soprattutto per impedire che, in assenza di garanzie effettive in ordine al loro svolgimento, la sopraffazione finisca per conculcare la ragione. A nulla infine, se non a pasticciare le cose, servono le stranezze di formule oscure come la “democrazia di mandato”. Sostitutiva della “democrazia rappresentativa”. A maggior ragione quando per la così detta “democrazia di mandato”, viene invocato il presidio di una legislazione regolatrice. Che finirebbe soltanto per aggiungere problema a problema. In quanto il sindacato finirebbe per essere subordinato ad un regime di autorizzazione e di controllo statale ed ai suoi mutevoli equilibri politici. Con inevitabile affievolimento della sua autonomia, della sualibertà, della sua efficacia.

In estrema sintesi, tutto induce a riconoscere che il proposito di ridurre il deficit di incidenza del sindacalismo confederale in una società sviluppata come l’Italia comporti la necessità di agire: tanto sulle difficoltà ad includere i marginali ed i flessibili per evitare una inevitabile contrazione della sfera sociale in cui l’azione collettiva riesce a contare; quanto sulla capacità di dotarsi di regole condivise (autonome, non eteronome) per decidere assieme. 

Chi intende accingersi a questo compito dovrebbe tenere presente un istruttivo dialogo contenuto in “Alice nel paese delle meraviglie”. Precisamente là dove Alice chiede al gatto Cheshire: “Vorresti per favore dirmi quale strada devo percorrere da qui?” Ed il gatto le risponde: “Dipende da dove vuoi andare”. Perché proprio, come per Alice, anche per il sindacato la cosa essenziale è quella di decidere, innanzi tutto, dove vuole andare. Sia chiaro: in gioco non c’è la sua sopravvivenza, ma il suo ruolo. Infatti, come tutte le istituzioni, anche il sindacato può sopravvivere benissimo a sé stesso. Può benissimo sopravvivere all’abbandono  di compiti che pure ha assolto in altre fasi storiche. Ma se tra i suoi scopi decide di mantenere anche il proposito di  incidere direttamente sullo sviluppo economico e sociale, per assicurare una più equa distribuzione sia del reddito che delle opportunità di lavoro, allora deve compiere scelte conseguenti. La prima delle quali è che l’unità non può ridursi ad una invocazione, ad un mito, ma deve diventare il terreno di una conquista quotidiana.

E’ probabile che gran parte della letteratura sul “declino sindacale” esprima più un auspicio che la narrazione di un fatto. Tuttavia sembra difficile negare che il sindacalismo confederale stia attraversando un periodo di “nuvole basse” e si trovi alle prese con un problema di identità. Che è sempre un problema di strategia. Naturalmente si può pensare che esistano molti modi per cercare di risolverlo. Difficile però anche soltanto provarci, se non si dovesse almeno incominciare ad investirvi unitariamente più risorse e più pensiero. ( segue)

Pierre Carniti

 

 
 
 
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