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Le accuse a Marco Bonassi, il libraio che non predilige le autrici. Facciamo un po’ di ordine?

Post n°77 pubblicato il 23 Dicembre 2015 da ltedesco1

 

Non è esercizio facile ‘tipizzare’ le accuse mosse a Marco Bonassi, direttore della storica libreria Feltrinelli di piazza Ravegnana a Bologna, in un momento in cui le polemiche non accennano a placarsi. Vogliamo comunque tentare, rivolgendo la nostra attenzione a quelle a nostro avviso meno concludenti. Perché? Perché, facendo un giro per il web, abbiamo avuto l’impressione che il Bonassi sia solo a fronteggiare il plotone d’esecuzione. In verità c’ha provato Inge Feltrinelli a difenderlo.  - Ma quella è l’editrice - qualcuno potrebbe malignamente far rilevare -, non vale! -. Un ulteriore straccio di difesa va dunque assicurato al tapino. Proviamo dunque, anche se come avvocati siamo probabilmente scarsi.

A nostro avviso le accuse di cui sopra possono rientrare in una delle seguenti categorie:

 

1)     1) quelle non motivate affatto.

Trattasi delle accuse più brutali, più stizzite, più prive di equilibrio. Massima espressione di questa categoria è forse il j’accuse lanciato da Maurizio De Giovanni che si è così pronunciato: «prendo solennemente l’impegno personale di non presentare mai più nella mia vita un libro alla Feltrinelli di Bologna, finché il direttore sarà questo mentecatto» (http://goo.gl/F8KdMw). Tale affermazione non necessita per De Giovanni di spiegazione alcuna. Che il direttore della Feltrinelli bolognese sia un mentecatto è per il giallista napoletano una verità autoevidente (chissà se il suo, da me amatissimo, commissario Ricciardi, splendida incarnazione di compassione e pietas, avrebbe usato le stesse parole).

La posizione di De Giovanni è stata fatta propria da Emanuela Giampaoli che ha scritto come le dichiarazioni del malcapitato Bonassi abbiano «fatto indignare scrittrici e per fortuna anche qualche scrittore» (http://goo.gl/F8KdMw), con riferimento proprio a De Giovanni. La Giampaoli, per soprammercato, qualifica Bonassi come «direttore inquisito», ingenerando nel lettore il dubbio se questo termine, dal neanche troppo vago sapore giudiziario, sia da addebitare a fretta o da intendersi come un auspicio;

 

2)        2) quelle caratterizzate da una dubbia coerenza logica.

Grazia Verasani ha scritto: «sconvolgente. La giornalista di Repubblica ha fatto la domanda giusta, rivelando questa sorta di snobismo nei confronti della letteratura scritta da donne. E il peggio è che una volta colto in fallo, il direttore della Feltrinelli è apparso fiero della propria lacuna, ribadendo la sua scelta. È come dire: ‘Leggo poco gli scrittori con gli occhi blu’» (http://goo.gl/F8KdMw). Un chiaro esempio di «maschilismo inorgoglito» (http://goo.gl/6tvBKv), insomma.

Ma quale era stata la domanda della giornalista? La seguente: «nella sua playlist personale, Bonassi, di autrici nemmeno una?» (http://goo.gl/ohSUkL). E Bonassi, ingenuo, aveva risposto:«lo confesso, non ne leggo molte. E non volevo barare, né fare il politicamente corretto».

Tale risposta per la Verasani è da censurare, parrebbe di capire, perché la qualità di un’opera d’arte non dipenderebbe dal sesso dell’autore. Ma se così è, la Verasani non avrebbe dovuto considerare «giusta» la domanda della giornalista perché quella domanda ha senso solo per chi pensa che l’identità sessuale dell’autore o dell’autrice abbia un qualche nesso con la qualità della sua creazione artistica. Ma per la Verasani così non è. Domandare se si leggono libri di donne avrebbe allora lo stesso senso che domandare se si leggono libri di autori o autrici dagli occhi blu. Nessuno, per l’appunto;

 

3)       3) quelle basate sulla liceità, di più sulla doverosità morale dell’ipocrisia, imposta dalla funzione pedagogica dell’arte.

«Forse con una piccola bugia - suggerisce infatti Marilù Oliva in una lettera aperta a Bonassi (https://goo.gl/ejSaIY) -  avrebbe fatto più bella figura e sarebbe stata una bella pacca sulla spalla alle battaglie per l’uguaglianza di genere che portiamo avanti quotidianamente».

Per coloro che credono che l’arte possa avere in se stessa il proprio fine, che possa essere puro godimento intellettuale e che possa quindi rifiutarsi di farsi strumento di obiettivi etico-politici la debolezza di tale motivazione appare patente.

 

 

 
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