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Lo storico deve essere anche giudice? A proposito di una recensione di Corrado Stajano

Post n°83 pubblicato il 09 Maggio 2016 da ltedesco1
 

Lo storico Carlo Greppi, nel suo ultimo lavoro, Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Milano, Feltrinelli, 2016), scrive che la «“zona grigia” non è una categoria da celebrare e deprecare, dal momento che lo storico non deve giudicare, ma provare a raccontare e raccontando a interpretare, rispondere ad alcuni interrogativi, o ammettere - quando è il caso - la sua inadeguatezza».

«È imbarazzante questo giudizio - ha replicato Corrado Stajano nella sua recensione sul Corriere della Sera di giovedì scorso (Salò, più nera che grigia) - se si pensa agli storici che proprio a Torino - Bobbio, Quazza, Venturi - non hanno fatto altro: il diritto/dovere dello storico è proprio quello di giudicare. E la sentenza su quel che fecero i repubblichini è della Storia, non soltanto della giustizia che fu manchevole» (triste protagonista, tra gli altri, del libro di Greppi è infatti la caserma La Marmora di via Asti, a Torino, sede dell’Upi, Ufficio politico investigativo della Guardia nazionale repubblicana).

Ci permettiamo allora di ricordare, a conforto della concezione del lavoro dello storico fatta propria da Greppi, il Marc Bloch dell’Apologia della storia o Mestiere di storico dove si legge che «quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è concluso»; che spesso «si dimentica che un giudizio di valore non ha ragion d’essere se non come preparazione a un’azione» (e allo storico, quindi, che in quanto tale studia ma non agisce la formulazione di giudizi di valore non compete); che «un motto, in sintesi, domina e illumina i nostri studi: “comprendere”. Non diciamo che il bravo storico è estraneo alle passioni; ha per lo meno quella». Lo storico francese ha anche ammesso che lo stimolo alla ricerca, ancor «prima del desiderio di conoscenza», origina dal «semplice gusto»: «nessuno, credo, si azzarderebbe più a dire, oggi, con i positivisti di stretta osservanza, che il valore di una ricerca si misura, in tutto e per tutto, dalla sua capacità di servire all’azione […]. Sarebbe infliggere all’umanità una ben strana mutilazione il rifiutarle il diritto di cercare, al di fuori di ogni preoccupazione di benessere, l’appagamento dei suoi appetiti intellettuali. Dovesse anche la storia essere eternamente indifferente all’homo faber o politicus, basterebbe, a sua difesa, esser riconosciuta come necessaria al pieno dispiegarsi dell’homo sapiens».

     «Anche indipendentemente da ogni possibilità di applicazione alla condotta pratica», continua Bloch, la storia sarà conoscenza «nella misura in cui essa ci consentirà, invece di una semplice enumerazione, senza nessi e quasi senza limiti, una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità». È vero, ammette ancora Bloch, «un’antica inclinazione, cui si vorrà concedere almeno valore di istinto, ci spinge a richiederle i mezzi per guidare la nostra azione; e dunque, a indignarci contro di essa, […] se, per caso, essa sembri manifestare la sua impotenza a fornirceli». Bene, se d’istinto si tratta, dovere dello storico, in quanto studioso e quindi deontologicamente costretto ad assumere un habitus il più razionale possibile, è quello di resistergli e portare orgogliosamente sugli scudi le indicazioni del fondatore dell’acribia storica, quel Pierre Bayle, che nel suo Dizionario storico e critico del 1697 avvertiva che lo storico «insensibile a tutto il resto, deve essere attento solo agli interessi della verità e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria […]. Tutto ciò che lo storico dà all'amore di patria lo toglie agli attributi della storia, e diviene un cattivo storico a misura che si dimostri un buon suddito».

     Rivendichiamo allora la bontà e la validità della concezione della storia come assiologicamente neutra e della lezione weberiana circa l’avalutatività delle scienze storico-sociali (senza voler qui affrontare l’annosa questione se la storia sia una scienza o ‘solo’ una disciplina. A prescindere dal suo status, però, nostra ferma convinzione è che essa possa certamente, fornendo materiali alla libera discussione, contribuire a formare l’opinione pubblica; ciò che invece non può pretendere è che tali materiali possano conferire maggiore oggettività a una determinata costellazione valoriale piuttosto che a un’altra).

 
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Weber, Panebianco e gli studenti contestatori

Post n°82 pubblicato il 02 Marzo 2016 da ltedesco1
 

Ne Il significato della «avalutatività» delle scienze sociologiche e economiche, del 1917, Max Weber aderisce a quel «vecchio principio» secondo cui «gli argomenti enunciati nelle aule accademiche debbono rimanere sottratti alla discussione pubblica». Epperò, aggiunge lo studioso tedesco, proprio per questa ragione, il professore «non può abusare della situazione di costrizione esistente per lo studente – il quale deve, per progredire nella vita, far ricorso a determinate istituzioni accademiche e quindi ai rispettivi insegnanti – per istillargli insieme a ciò di cui egli ha bisogno – allo stimolo e alla disciplina della sua capacità di ragionare e del suo pensiero, e perciò a determinate conoscenze – anche, in forma protetta da ogni contraddizione, la propria cosiddetta “intuizione del mondo”». Difatti, «per la propaganda dei suoi ideali pratici il professore, al pari di ogni altro individuo, ha a disposizione altre opportunità […]. Nella stampa, nelle assemblee pubbliche, nelle riunioni, nei saggi, in ogni altra forma che sia accessibile ad ogni cittadino, egli può (e deve) fare ciò che il suo dio o il suo demone gli significa». Se invece si ritiene legittimo che un professore utilizzi la cattedra per rendere edotto il suo pubblico di studenti della sua concezione del mondo, ne consegue per Weber che le concezioni «di ogni parte debbano avere l’opportunità di farsi valere sulla cattedra».

Se Weber ha ragione, gli studenti che hanno contestato Angelo Panebianco durante una sua lezione universitaria di qualche giorno fa hanno torto. Il professore bolognese avrebbe espresso pulsioni e convincimenti militaristi e guerrafondai dalle colonne di un quotidiano? Ammesso che lo abbia fatto, avrebbe compiuto un’azione weberianamente legittima. Diverso il caso se tali pulsioni e convincimenti Panebianco li ha manifestati ex cathedra, tra le mura dell’Accademia. Ma proprio questo i contestatori non ci hanno detto, scegliendo la via più facile e meno intellettualmente impegnativa dello striscione e della gazzarra. Un’occasione, insomma, sprecata.

 
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Per fortuna per lesbiche e gay c’è Verdini, che è più a sinistra di Bersani

Post n°81 pubblicato il 29 Febbraio 2016 da ltedesco1

 

Le unioni civili nella formulazione del maxiemendamento al disegno di legge Cirinnà, recentemente approvato al Senato, possono essere considerate una enormità. Ogni opinione, si sa, è legittima.

Meno legittime, meno intellettualmente oneste, ci sono sembrate le levate di scudi, i brividi di sdegno che hanno attraverso le falangi, raccogliticce e male assortite, dell’izquierda democratica nostrana.

Era infatti tutta la sinistra, ma proprio tutta, compresi Rifondazione comunista e Comunisti italiani, per non parlare ovviamente dei Democratici di Sinistra, poi Pd, impegnata a sostenere quel secondo governo Prodi che avrebbe partorito il disegno di legge contemplante i (ve li ricordate?) Dico, vale a dire i Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, disegno di legge che ovviamente naufragò assieme a quel governo.

E quel disegno di legge non data mica a decenni fa ma a meno di dieci anni fa. Eravamo infatti nel febbraio del 2007. E cosa prevedeva, quel disegno di legge, cara la nostra armata dei Speranza e dei Bersani, già ministro di quel governo, novelli Brancaleone da Norcia e Abacuc? Forse la stepchild adoption? Macché. Perlomeno la pensione di reversibilità? Manco per idea. E di diritti di successione? Sì, dopo nove anni di convivenza. E allora? Allora meno male che esiste l'ex macellaio della Lunigiana, il monicelliano monaco Zenone, alias Denis Verdini, l’unico capace di traghettare quell’armata parolaia e inconcludente in Terra Santa.

 

 
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Busi ci umilia. Non resta che confidare nel tempo e nella sua precaria salute

Post n°80 pubblicato il 03 Febbraio 2016 da ltedesco1
 

Se da domani mia moglie guadagnasse più di me, domani stesso stapperei una bottiglia di spumante per festeggiare l’evento, pregustando gli sfizi futuri che potrei togliermi. Non nutro, infatti, invidia sociale nei confronti di nessuno, uomo o donna che sia; o meglio non conosco invidia nei confronti della pecunia altrui (forse per questo antiberlusconiano non sono mai stato, che, in fondo e al netto degli alti lai contro la volgarità politica del parvenu padano, quel che a questo non si è mai perdonato sono la ricchezza e soprattutto la sua ostentazione), che invece l’invidia per l’intelligenza altrui, per l’eccellenza del pensiero altrui la provo, la provo eccome tanto da schiumare di rabbia (e forse per questo comunista non sono, che per me la disuguaglianza nelle capacità intellettuali è ben più bruciante di quella economica; ma alla prima non c’è rimedio, che a forza di studiare e con qualche santo in paradiso, o meglio in famiglia, puoi aprire il tuo bello studio notarile ma il fuoco sacro che fa uno scrittore o pittore e non imbrattacarte o imbrattatele, quello ce l’hai o non ce l’hai. Si potrebbe allora, non potendo tutti innalzare, atterrare i pochi che svettano sugli altri ma si avrebbe allora la pacificazione, l’eguaglianza dei cervelli all’ammasso e la mia invidia, per quanto canagliesca, non arriva a chiedere tanto).

Ecco perché delle 463 pagine dell’ultima fatica di Busi (L’altra mammella delle vacche amiche, Venezia, Marsilio 2015) sono arrivato solo a pagina 100, poi, sfinito, ho alzato bandiera bianca; troppa, per l’appunto, l’invidia nei confronti della busiana padronanza della parola, della sua capacità di ammaestrarla, addomesticarla come un domatore di leone e condurla dove vuole per poi farla esplodere in fantasmagorici fuochi pirotecnici. Capacità che io non  avrò mai.

Poi, quando penso di avere perso ogni speranza, una luce squarcia le nubi. Rivado allora alla pagina 21 dove Busi parla di una ricorrente «pressione soffocante al torace» che però non gli impedisce di «andare alla porta e, facendo forza sulla ciabatta nella cunetta dell’alluce, sollevare lo scrocco giù nel pavimento che la blocca dall’interno» (p. 22), sdraiarsi  e poi aspettare; che se lo spasmo «questa volta non passa non dovranno sfondare niente per entrare  e fare la constatazione» (ibidem).

E allora confido, meschino, vigliacco, pusillanime, nella fortuna e nel tempo che non daranno forse a Busi un’altra possibilità per farsi beffe della mediocrità mia e della maggior parte di noi altri.

 
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Che il fascista si comporti secondo natura!

Post n°79 pubblicato il 28 Gennaio 2016 da ltedesco1
 

Per gli antifascisti, i fascisti non costituiscono un problema quando si comportano da bravi fascisti, cioè quando esibiscono manganello e olio di ricino. Anzi, il fascista picchiatore è per loro un balsamo, un elisir di lunga vita.

Senza questo tipo umano, infatti, il presepe ideologico antifascista in cui ogni personaggio deve conservarsi immutabile nel corso del tempo si dissolverebbe e gli antifascisti perderebbero la loro ragion d’essere.

Ciò che li terrorizza, allora, è proprio il fascista che per un giorno depone le armi preferendo a queste la parola, perché questo fascista che non fa il suo dovere fino in fondo, vale a dire che non spacca quotidianamente crani, è pericoloso per l’antifascista in servizio permanente effettivo, perché rischia di mostrare all’opinione pubblica la sua inutilità.

A questo ho pensato leggendo la levata di scudi con cui è stata accolta l’accettazione da parte del senatore Mario Mauro dell’invito a partecipare al convegno Siria: la guerra al terrore, promosso da movimenti italiani e del resto d’Europa d’ultradestra e tenutosi a Milano il 24 gennaio scorso (http://goo.gl/M39AdB).

Grazie a questo appuntamento, infatti, il Comitato Permanente Antifascista contro il terrorismo per la difesa dell’ordine repubblicano ha potuto dare manifestazione tangibile della propria esistenza chiamando, metaforicamente, alle armi a difesa della Costituzione e del Giorno della Memoria, difesa che avrebbe dovuto indurre le istituzioni a impedire «questo ulteriore gravissimo oltraggio a Milano, città Medaglia d’Oro della Resistenza» (http://goo.gl/hqxKgK).

 
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