Creato da: ltedesco1 il 02/02/2009
blog a carattere storico

Area personale

 

Tag

 

Archivio messaggi

 
 << Agosto 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
      1 2 3 4
5 6 7 8 9 10 11
12 13 14 15 16 17 18
19 20 21 22 23 24 25
26 27 28 29 30 31  
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 2
 

Ultime visite al Blog

cristiandgl14fabianofrancesco1949francesca632senzanomedgl14christie_malrycall.me.IshmaelBe_RebornMilkybellylost4mostofitallyeahmarlow17tobias_shufflekekko282ltedesco1SoloDaisylacey_munro
 

Ultimi commenti

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

 

Lettera aperta al Presidente del Consiglio: Lsu, occupazione delle scuole e uno Stato vile

Post n°66 pubblicato il 24 Febbraio 2014 da ltedesco1
 



Caro Presidente del Consiglio, «la scuola è tutto per chi fa politica», scrivi nella tua pagina Facebook. Bene. Senti qui. «Capisco il disagio di chi perde il lavoro, rispetto il problema di queste famiglie, ma la soluzione non è l’interruzione di pubblico servizio, non è quella di danneggiare gli studenti e la scuola». Così si è espressa Angela Palomba, dirigente scolastica della Guglielmo Marconi di Puozzoli in riferimento all’occupazione di decine e decine di scuole tra Napoli, Salerno e Caserta da parte degli addetti alle pulizie che rischiano di vedersi decurtati pesantemente gli stipendi se non addirittura di essere licenziati. Dopo essersi opposta all’occupazione della sua scuola, la dott.ssa Palomba ha aggiunto:«mi piacerebbe che tutti i colleghi dirigenti adottassero un’iniziativa congiunta, una denuncia comune contro questa forma di illegalità».
Uno Stato consapevole del proprio ruolo non può permettere che singoli individui o gruppi facciano scempio delle leggi e dei diritti altrui adducendo come giustificazione le loro, pur assai critiche, condizioni economiche.
In Campania è in corso un'aggressione plateale, perché sotto gli occhi di tutti, e vigliacca perché perpetrata nei confronti dei più deboli, che non sono i lavoratori socialmente utili, ma dei minorenni, vale a dire gli alunni che non possono entrare nelle proprie classi.
In Campania non è in gioco solo il diritto allo studio di qualche scolaro, ma l'autorevolezza dello Stato. Più il tempo passa senza che la legalità sia ripristinata, maggiore è il rischio che altri segmenti sociali approfittino di poteri pubblici pusillanimi per compiere ulteriori sfregi allo Stato di diritto.
Nell’assoluto silenzio delle forze politiche e di fronte alla violenza perpetrata nei confronti degli alunni delle scuole campane occupate, batti allora un colpo...

Luca Tedesco

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

CasaPound e i guardiani della rivoluzione. Se l’intellettuale ha da essere organico e suonatore di piffero…

Post n°65 pubblicato il 16 Febbraio 2014 da ltedesco1
 

L’eventualità che nella sede di CasaPound, a Roma, si potesse tenere un incontro dal titolo Ciò che è vivo e ciò che è in morto in Marx ha scatenato reazioni veementi. Una di queste la riproduciamo qui di seguito (http://www.contropiano.org/articoli/item/22042):

Il mondo è pieno di imbecilli, è vero. Ma non è proprio necessario diventarlo anche noi. Ci sono molte cose - fatti, non parole - che permettono di capire cos'è giusto e cosa sbagliato, cos'è rivoluzionario e cosa il contrario.

Diciamo che i rapporti con i fascisti sono una discriminante senza ritorno. Come dicevano i partigiani, "con i fascisti non si parla, li si combatte". Poi ci sono le considerazioni di opportunità, per cui il "combattimento" è più sul piano ideale che non militare (anche se qualche cazzotto, ogni tanto, può far bene alla salute). Ma, appunto, sul piano culturale non ci possono essere mai mediazioni, perché "è gratis".

La notizia del giorno è la solita banalità: un convegno organizzato da Casapound per discutere di "ciò che è vivo e ciò che è morto in Marx". Merda secca, per definizione. Come se un circolo comunista chiamasse la gente a discutere si [sic] "ciò che è vivo e ciò che è morto in Mussolini e dintorni".

Lasciamo stare Marx (chi ne vuol discutere seriamente sa come trovarci, è noto). Parliamo dell'"ospite illustre" di questa serata che s'annuncia come apoteosi dell'inciucio rosso-bruno. Chi è che stavolta ha accettato di "parlare con i fascisti" nientepopodimeno che di Marx? Morto Costanzo Preve, l'unico nome dotato di risonanza mediatica era quello di Diego Fusaro...

Tana! Proprio lui... 'Un ci si crede, direbbero in Toscana...

Diciamo che tracciamo a questo punto un fossato invalicabile, a futura memoria e per tutti gli anni che ci capiterà di vivere: chi accetta d'ora in poi di "parlare" con Diego Fusaro non parlerà mai più con noi, né nel movimento di classe, né col sindacalismo conflittuale.

Non è più tempo di giocare  à la Bertinotti o à la Vendola....

Questo documento esemplifica ottimamente la posizione di coloro che ritengono che la ricerca scientifica non possa trovare in se stessa il proprio fine, non possa manifestarsi in pura curiosità intellettuale, in libero esercizio conoscitivo ma sia invece dotata di senso solo se si mette al servizio del Principe di turno (comunista per gli estensori del documento ma avanziamo l’ipotesi che se veramente un circolo comunista dovesse organizzare un domani una conferenza sull’“attualità” del pensiero di Mussolini, l’intellettuale neo o postfascista che dir si voglia che fosse intenzionato a parteciparvi riceverebbe dalla destra estrema la stessa reprimenda oggi riservata a Diego Fusaro dalla sinistra radicale).

La figura dell’intellettuale organico ha una lunga tradizione nella storia politico-culturale italiana e non può certamente essere banalizzata.

Ma, per quel che ci riguarda, ai ritrovi dove i reduci dello stesso colore si riuniscono per recitare il rosario delle solite parole d’ordine e per reiterare i medesimi riti consolatori e corroboranti le antiche certezze ed esorcizzanti timori e dubbi, preferiamo colui che con Vittorini si rifiuta di suonare il piffero alla rivoluzione, di qualunque segno essa sia, e di partecipare all’omologazione narcotizzante dei cervelli all'ammasso.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

L’ex comunista Fassino si converte (involontariamente?) allo Stato “minimo” .

Post n°64 pubblicato il 04 Dicembre 2013 da ltedesco1
 

 

«In genere, dagli oppositori aprioristici delle municipalizzazioni, si afferma che la soluzione dei problemi sta nel fare sapienti contratti con le società capitalistiche, con provvide concessioni, in modo da aver i vantaggi riuniti della libera iniziativa privata e del pubblico controllo. Questi sistemi ibridi, che sembrano tanto facili in teoria, trovano nella pratica tanti attriti, tante difficoltà che riescono in ultima analisi inadatti a raggiungere il vantaggio collettivo. In queste proposte sembra che si parta sempre dal concetto che sia facile trovare un tipo ideale di capitalista, pronto ad investire i suoi risparmi senza curare il proprio interesse ma tutto rivolto a favorire la collettività […]. La realtà dimostra che il capitale per essere invogliato ad investire, pretende i patti migliori, le più ampie garanzie che gli rendano possibili prezzi, ammortamenti e dividendi, pari almeno a quelli che si riscontrano in un determinato mercato per industrie non controllate. Ancora, nella pratica si riscontra che, ammettendo pure di riuscire a concludere sapienti contratti, questi contratti non saranno mai completamente applicati durante il periodo delle concessioni. Per quei patti che comportano oneri ai concessionari, si troverà sempre modo di sottilizzare sull’interpretazione dei contratti, di ritardarne i miglioramenti, di ostruzionarne la corretta applicazione […]. Se il municipio è cattivo produttore, si deve concludere che il municipio è cattivissimo controllore».

Così si esprimeva Giovanni Montemartini, economista, socialista e tra i maggiori studiosi in Italia del fenomeno delle municipalizzazioni, sul Giornale degli economisti nell’ottobre del 1909.

Da allora il dibattito sulla capacità del soggetto proprietario pubblico di costringere il concessionario privato a rispettare quanto previsto nella concessione non farà che crescere.

Piero Fassino, nell’intervista di pochi giorni fa sulla Repubblica a firma di Valentina Conte, sembra archiviare la questione come un residuo ideologico novecentesco, da cui liberarsi definitivamente.

“I dipendenti” – sostiene Fassino – “si tutelano evitando il fallimento delle aziende. Un’azienda che accumula debiti mette a rischio il lavoro. E poi basta mettere una clausola sociale nei contratti di servizio per mantenere i livelli occupazionali. E per garantire la qualità alle tariffe fissate dal Comune. La bontà di quanto si offre ai torinesi, ai genovesi, ai romani non dipende dalla proprietà, pubblica o privata, ma dal contratto di servizio. Se vogliamo servizi efficienti, a costi per i Comuni e tariffe per i cittadini sostenibili, occorre superare il tabù del pubblico e aprire questi settori ai privati, che possono assicurare investimenti nuovi”.

A voler applicare appieno lo schema di Fassino, il superamento del “tabù del pubblico” dovrebbe portare alla sostituzione dello Stato gestore con lo Stato controllore in ogni ambito della vita associata, sia a livello locale che nazionale. Se la bontà non dipende dalla proprietà, cosa osterebbe mai dall’appaltare ai privati, previa stipula di pignolo contratto di servizio, istruzione, sanità e via dicendo?

Da qui alla realizzazione dello Stato “minimo” (che, portando alle estreme conseguenze la visione fassiniana solo, forse, la forza militare dovrebbe rimanere appannaggio del potere pubblico) il passo è breve. Saprà l’ex comunista sindaco di Torino compierlo o, travolto dalle vertigini, tornerà sui suoi passi per volgere lo sguardo al più rassicurante secolo scorso?

Luca Tedesco

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

If it bleeds, it leads. La violenza (fisica) diminuisce nel corso dei millenni ma mente e mass media non ce lo dicono

Post n°63 pubblicato il 23 Agosto 2013 da ltedesco1
 

 

Uomini e donne portati alla forca, altri legati ai ceppi, cadaveri straziati dai corvi, villaggi in fiamme, bestiame razziato; questa la quotidianità dell'Europa medievale che ci restituiscono le pagine de Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l'epoca più pacifica della storia (2013, ed. or. 2011) dello psicologo evoluzionista canadese Steven Pinker (ma la cupezza con cui l'autore ha rappresentato l'Età di mezzo è stato oggetto di strali da parte dell'antropologo britannico Stephen Corry in http://truth-out.org/opinion/item/16880-the-case-of-the-brutal-savage-poirot-or-clouseau-or-why-steven-pinker-like-jared-diamond-is-wrong).

Nei secoli successivi, rivoluzione industriale, urbanizzazione e ampliamento dei flussi commerciali, aggiunge Pinker, avrebbero modificato quel paesaggio sanguinolento e reso il vecchio continente un posto assai più sicuro dove vivere.

Tesi di Pinker è che dalla preistoria umana ad oggi la violenza sia andata diminuendo in tutte le sue manifestazioni, dai contesti familiari ai rapporti tra Stati. I principali momenti di transizione di questo trend storico sono individuati dall'autore nel passaggio, circa 5000 anni fa, dalle società semianarchiche dedite alla caccia a quelle più strutturate agricole e stanziali; nel consolidamento, a partire dal tardo Medioevo, «di un mosaico di territori feudali in grandi regni, con un'autorità centralizzata e un'infrastruttura commerciale»; nel progressivo processo di monopolizzazione statale della forza; nella fioritura, nell'Età dei Lumi, di movimenti volti all'abolizione della schiavitù e della tortura giudiziaria; nel graduale superamento, dal secondo conflitto mondiale in poi, della guerra come strumento per la risoluzione dei contrasti internazionali tra gli Stati industrializzati, come anche delle violenze nei confronti delle minoranze etniche, delle donne, dei bambini, degli omosessuali. La fine del mondo bipolare, infine, avrebbe registrato un calo delle guerre civili, dei genocidi e delle azioni terroristiche.

Alla convinzione circa il declino plurisecolare delle pratiche di violenza e aggressione era già pervenuto, a dire il vero, alcuni anni fa Pino Arlacchi nel suo L'inganno e la paura. Il mito del caos globale (Milano, il Saggiatore, 2009).

Lo spettro della violenza cui fa riferimento Pinker, peraltro, è ampio, non risolvendosi solo in quella fisica ma anche in quella che si traduce in atteggiamenti, istituzionalizzati o meno, discriminatori; non così ampio, però, da comprendere quelle forme di violenza che, ad esempio, i critici del «capitalismo realizzato» ritengono non meno gravi e foriere di sofferenza di quelle tradizionalmente rilevate dalle serie statistiche nazionali.

Se i sistemi coloniali europei si dissolvono definitivamente nei decenni immediatamente seguenti la seconda guerra mondiale, con il loro penoso carico di sofferenze umane, gli imperialismi “informali” che li avrebbero sostituiti con il loro corredo di scambi ineguali non sono infatti, obiettano i critici di cui sopra, forme di violenza altrettanto dolorose di quelle fisiche e discriminatorie?

E i censori del pensiero “neoliberista” non considerano forse il rigore di bilancio, quale riposta alla crisi economica, causa di disoccupazione, di insicurezza materiale e quindi di perdita di dignità umana? Non sarebbe, allora, anche questa ricetta di politica economica intimamente violenta?

Rimanendo all'interno del perimetro della sopraffazione disegnato da Pinker e Arlacchi, varie sono le spiegazioni che gli autori danno della circostanza per cui la flessione della violenza è accompagnata nell'opinione pubblica dalla percezione di un suo incremento.

Se, per Arlacchi, «il grande inganno viene prodotto dai media, dai governi, dagli apparati militari e della sicurezza, prevalentemente americani», Pinker richiama l'attenzione del lettore sulle responsabilità delle nostre facoltà cognitive;«la mente umana - infatti - tende a valutare la probabilità di un evento dalla facilità con cui può ricordarne degli esempi, ed è più facile che entrino nelle nostre case e s'imprimano a fuoco nella nostra mente scene di massacri piuttosto che di persone che muoiono di vecchiaia. Non importa quanto la percentuale di morte violente possa essere bassa: in termini assoluti ce ne saranno sempre abbastanza da riempire i telegiornali, con il risultato che le impressioni della gente sulla violenza non hanno alcun rapporto con le sue proporzioni reali». If it bleeds, it leads, «se c'è sangue, fa notizia», insomma. Ma è anche la «nostra psicologia morale» ad alimentare rappresentazioni distorte della realtà. «Nessuno - spiega Pinker - ha mai reclutato militanti in favore di una causa annunciando che la situazione sta migliorando, e i portatori di buone notizie sono spesso invitati a tenere la bocca chiusa per paura che possano indurre la gente a restarsene a casa soddisfatta».

 

Luca Tedesco

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963