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CRIALESE, LA SICILIA E UN SOGNO CHIAMATO "NUOVO MONDO" 

Post n°39 pubblicato il 11 Ottobre 2006 da savin_s
 
Foto di savin_s

Migliaia di chilometri per sognare, un oceano vasto da attraversare, la terra sempre più lontana, la malinconia e la nostalgia per il mondo che bisogna abbandonare; le certezze che svaniscono e lo slancio verso quel paese di Bengodi, verso la cuccagna, verso quegli ortaggi giganti, le carote enormi, i soldi che piovono dal cielo così, per incanto, senza un perché. L’America, un posto stranissimo e la possibilità di diventare “signori” coi cappelli, con gli abiti lucenti. Una gran voglia di cambiare, una corsa verso l’ignoto.

Sono loro, quei siciliani dell’entroterra, che a fine ottocento non conoscevano nient’altro se non gli animali, le pecore, le capre, la terra e il lavoro, che non avevano mai visto il mare, i veri protagonisti di Nuovo Mondo di Emanuele Crialese.

Un regista rivelazione del nostro cinema. Un talento straordinario il suo e una straordinaria capacità di intrecciare piani narrativi diversi, di incrociare realismo e oniricità. Ha stupito tutti a Venezia. A tal punto che i giurati hanno dovuto inventare un premio. Tutto per lui. E un legame molto forte con una terra, la Sicilia, in cui tutto racconta. Anni fa aveva scelto Lampedusa, con i suoi pescatori, le reti e i faraglioni per raccontare la storia di Grazia e della sua famiglia. Respiro: il titolo del film con cui il regista romano aveva  trionfato, allora, sulla Croisette, a Cannes. Applausi e un premio meritato.

Ha voluto affidarsi ancora una volta alla forza narrativa dei gesti dei suoi personaggi, quei volti siciliani, scuri, arsi dal sole, che non parlano assolutamente l’italiano, che ignorano del tutto l’esistenza di una nazione chiamata Italia, con una lingua nazionale.

Sono tutti siciliani i protagonisti del suo nuovo film. La sala in cui proiettano la pellicola stasera è affollata. Che sia Milano, Torino o Venezia, poco importa. Anche chi non capisce il siciliano e storce il naso di fronte ad un dialetto incomprensibile, tanto da richiedere i sottotitoli non può fare a meno di rimanere incollato allo schermo sedici noni per seguire le vicende di Salvatore Mancuso e della sua famiglia. Poveri pastori di Petralia. “ A Suttana- iu sugnu ra Suttana- puntualizzerà in seguito Salvatore sul piroscafo in procinto di salpare per l’America.

Eh si! Perché per lui e per la sua famiglia il mondo è tutto lì, a Petralia Sottana, tra quelle distese e vallate che si alternano a dirupi scosesi, una natura arida e brulla con un fascino straordinario, quello dell’isola del sole e del mare. E poi c’è l’America, “l’autru munnu”, come lo definisce la vecchia saggia madre di Salvatore. Il Nuovo Mondo loro lo hanno conosciuto attraverso le cartoline, i fotomontaggi. E fantasticano. Credono davvero, con l’ingenuità dei bambini, che in Canada ci sia un fiume di latte. E che ci si possa bagnare e nuotare. Che tutto sia enorme, gigante. Un’allucinazione. O forse un sogno. O la disperazione e la voglia di dire   “Proviamoci anche noi! Vediamo se è vero!”

E cosi, Salvatore decide. Partiranno anche loro. Come aveva già fatto il suo gemello. Con la benedizione del cielo. In cima ad una montagna, due pietre in bocca, affaticati e sanguinanti, lui e il figlio chiedono alla Madonna un segno. Solo un segno. Che puntuale arriva.

Lasciano la Sicilia. In cerca di fortuna. Vendono tutto. “L’armali, u mulu, i scecchi…tuttu chidru ch’avimu”. Anzi, barattono tutto con scarpe nuove, vestiti, mantelli. Perché in America non possono andarci da “strazzati”. Li stringono tra le mani come feticci quei vestiti. Loro, che erano abituati a camminare scalzi. E si puliscono più volte i piedi. Se li sfregano con forza.

C’è da convincere Fortunata, la mamma. La più restia a partire. La vera custode di una saggezza popolare. I siciliani la chiamerebbero “mammana”. Una donna che parla per proverbi, preghiere. Ci ricorda un po’ Padron ‘Ntoni dei Malavoglia di Giovanni Verga. Stessa tempra, stessa caparbietà. Ostinata e tenace. Legata all’antico e a quei precetti che sembra aver risucchiato con il latte materno. Un po’ come  le nostre bisnonne. Che cura con le orazioni. E non ne vuole sapere di lasciare la sua casa, i suoi “santuzzi”. Poi, però, per amore del figlio, si accoda agli altri. E prima di allontanarsi volge l’ultimo sguardo alla porta di casa, che si richiude alle spalle. Uno sguardo triste, pieno di malinconia. In cuor suo sa cosa l’aspetta. “L’autru munnu”, l’altro mondo. E continua a ripetere: “Ma picchi ama a ghiri nta stautru munnu. Chistu viecchiu un ‘e bbuonu?”(Perché dobbiamo andare nel Nuovo mondo? Questo vecchio non è buono?)

Inizia il viaggio. Prima al porto di Catania con le ispezioni. E una gran confusione in cui il microcosmo familiare, la piccola famiglia Mancuso prende coscienza per la prima volta di cosa voglia dire “mondo altro”. Un vociare di gente in cui le parole si confondono. E ancora: il piroscafo, quell’enorme nave in cui tutti si ammassano. Un campionario di varia umanità. Donne, uomini, bambini, ragazzi, anziani. Tutti con lo sguardo spaesato, perso nel vuoto. E una linea divisoria. Quella del porto, che separa chi va e chi resta. E sui volti la stessa tristezza, mista ad una vaga speranza.

Seguiamo Salvatore e la sua famiglia. Ognuno affronta il viaggio in maniera diversa. La storia dei Mancuso si intreccia con quelle di altri immigrati. Nelle stive, tutti cercano un posto per dormire. E il viaggio interminabile. Una terra sempre più lontana. Quasi un miraggio. Solo distese d’acqua. Eccolo, “Il Grande Luciano”, come lo chiama Salvatore. L’oceano immenso.

Succede, però, che tra le tante presenze c’è una signorina inglese. Capelli rossicci e viso biancastro. Lucy.  “ ‘A signorina Luce” per i Mancuso”. E tra il giovane pastore siciliano e la ragazza inizia un gioco di sguardi intenso.

Amore? No. Non è possibile. Lucy è chiara. A lei serve solo un uomo che la sposi per favorirne l’ingresso in America. E anche Salvatore con una semplicità infantile le risponde “Ca certu. Po resseri ca cci amiamo se mancu nni canuscemu. Poi nni canuscemu…e viremu” ( ndr Certo. No possiamo essere innamorati se neanche  ci conosciamo. Conosciamoci e poi vedremo!) E con un gesto scaramantico le taglia una ciocca di capelli. Come gli hanno insegnato in Sicilia. Così crede di legarla a sé per sempre.

Il piroscafo arriva ad Ellis Island. L’isola delle lacrime. Un nome che è un presagio. Le lacrime dei tanti italiani immigrati. Il ricordo di tante umiliazioni subite. Quelle visite mediche di ogni tipo per accertare la sana e robusta costituzione. Per controllare il quoziente di intelligenza. Se gli italiani fossero o meno idonei ad entrare nel nuovo mondo. E quando a Salvatore dicono che suo figlio Pietro e la madre dovranno ritornare in Italia perché inidonei, lui risponde alzando le braccia davanti ai giudici, chiedendo una spiegazione: “Ma voscenza perdoni. Vui ‘cca aviti tanta terra. Chi fastidiu vi runanu me figghiu  e me matri?  Iddu è mutu ma travagghia comu un mulu. Un parra…meghiu accussi. Un da fastidiu a nuddru. Me matri è nicareda. Pari na carusa.”

E tutto finisce così. Una splendida inquadratura con un mare di latte, dal quale riaffiorano i protagonisti. E nuotano. Una sensazione strana per gli spettatori. Per un attimo ci viene quasi il dubbio che tutto sia stato solo un sogno. E forse sta in questo la bravura straordinaria di Crialese, la sua capacità di coniugare il crudo realismo ad un onirico visionario. Il mare di latte, una sospensione tra sogno e realtà.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
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