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La doppia verità

Post n°68 pubblicato il 29 Settembre 2010 da ilmondocheiovorrei

Il James Dean della mutua, Fabrizio Maria Corona in Belen, ha avuto una relazione con Lele Mora, il cosiddetto manager dei cosiddetti teledivi che amava farsi fotografare in pose da odalisca fra valletti nerboruti. Adesso sappiamo che uno di quei bronzi era lui, il Fabrizio Maria. Lo ha rivelato proprio Mora ai magistrati che indagano su un giro di fatture false, spiegando di aver speso per l’amante uno sproposito in auto, appartamenti e altri ammennicoli rigorosamente esentasse.

Dov’è la buona notizia in una storia così triste, per non dire squallida? Nella vendetta dell’Immagine, l’unica dea che questi eroi del luccicante nulla siano disposti a onorare. Corona ha costruito il suo mito presso i poveri di spirito sbandierando dalle copertine dei rotocalchi la sua mascolinità "maledetta" e la contabilità delle performance erotiche con la ricarica telefonica Belen: sei giorni la settimana, ovviamente, perché quelli al suo livello il settimo si riposano, sempre. Finché si scopre l'altarino. Come dice il saggio: chi ostenta la sua virilità nasconde spesso, anzi parecchio, una doppia verità.

 
 
 

Ciao Sandra, ciao Raimondo

Post n°67 pubblicato il 23 Settembre 2010 da ilmondocheiovorrei

Nessuna pila può funzionare con un polo solo. L'altro ieri Sandra e Raimondo hanno finito di morire. Avevano cominciato cinque mesi fa, quando si era esaurito il polo maschile della coppia. Hanno finito l'altro ieri, quando Sandra ha deciso di raggiungere l'altra metà del suo amore, per poter vivere ancora. I suoi cari hanno sperato fino all'ultimo che si riprendesse, ma a volte l'amore è più forte della vita stessa. A volte si ama cosi tanto che è impossibile vivere senza la propria metà, cosi come Sandra non è riuscita ad affrontare la vita senza il suo Raimondo. E ha preferito raggiungerlo, piuttosto che trascorrere altro tempo senza di lui. Sandra e Raimondo hanno recitato a beneficio di un intero popolo la storia autentica dell'amore Possibile, che non è mai un'emozione violenta e fuggevole, come nelle pubblicità, ma un sentimento lento, difficile, a tratti noioso ("che barba che noia!" come diceva Sandra). Se una coppia resiste nel tempo, specie in un tempo come questo governato dal demone della precarietà, significa che ha trovato un equilibrio sano. Ha sublimato le sue emozioni in sentimenti. Quella coppia potrà litigare, tradire. Potrà persino lasciarsi. Ma non troppo a lungo e mai fino al punto di spezzare quel filo invisibile che la tiene insieme. E nel loro piccolo, che poi tanto piccolo non è, gli sketch di Sandra & Raimondo saranno sempre lì a ricordarcelo. "Ringraziami, ti ho portato fino a questa età" Questi erano gli auguri di Sandra a Raimondo, con l'umorismo che ha contraddistinto oltre 40 anni di vita insieme. "Ma perchè, viene anche mia moglie? Mi invitate a Salsomaggiore con le cento ragazze più belle d'Italia e chiamate anche Sandra?". Scherzava così Raimondo all'annuncio che Raiuno e Enzo Mirigliani lo avevano scelto, insieme alla moglie, per presiedere la giuria della Finale di Miss Italia 2002. Se telefonavi a casa loro e rispondeva lui, non risparmiava la battuta: "Vuole parlare con Sandra? Ah, meno male". Lui doveva tornare a vedere la tv "perché - come spiegava lei - c'è sempre una partita da qualche parte, non immagina quante ne mandino in onda. Che barba". Si erano incontrati nel 1958, lei soubrette di Macario; nel 1962, davanti a una cotoletta, a cena insieme a Gino Bramieri, lui aveva fatto la più irrituale richiesta di matrimonio, al punto che lei era rimasta muta: "Non avevo capito se parlava seriamente: scherzava sempre". Quella volta il giovanotto ironico, che sembrava un lord inglese e aveva appeso al muro la laurea in Giurisprudenza per fare il comico, aveva fatto sul serio. "Sono stata gelosa, certo - spiegava lei - ce n'erano tante più belle di me, ma alla fine eccoci qua. Oggi dove vuole che vada?". Poco dopo la morte di Raimondo, Sandra gli aveva lasciato un messaggio: "Raimondo, aspettami …". Chissà se, ovunque siano adesso, i battibecchi continueranno.

 
 
 

La tragedia che non commuove

Post n°66 pubblicato il 21 Settembre 2010 da ilmondocheiovorrei
Foto di ilmondocheiovorrei

Il Pakistan è in ginocchio, sconvolto dalle peggiori alluvioni degli ultimi decenni: 1600 morti (ma il bilancio è ancora provvisorio), migliaia di dispersi, venti milioni di persone coinvolte, con 3,5 milioni di bambini a rischio di malattie infettive, numerosi casi di polmonite, diarrea e malaria già accertati, sei milioni di sfollati e un milione di case distrutte. Ma ciò che è peggio è che il mondo intero sembra essersi voltato dall’altra parte: i governi tardano a inviare i contributi, oppure non li hanno nemmeno mai promessi. Anche la raccolta fondi delle Ong non decolla. "È la peggiore tragedia umanitaria degli ultimi anni, di gran lunga peggiore dello tsunami nell’oceano Indiano o del terremoto di Haiti - spiega Marco Bertotto, direttore di Agire, il network di organizzazioni non governative italiane specializzato nella risposta alle emergenze - Eppure in una settimana abbiamo raccolto solamente un centesimo di quello che avevamo raccolto per Haiti". Quest'anno, il mondo intero si è mobilitato per il terremoto di Haiti. Miliardi di euro di aiuti da ogni paese, anche dai più poveri, star di Hollywood in passerella, protezioni civili in campo per contendersi la regia delle operazioni. Navi di soccorsi che partivano e arrivavano settimane dopo. Conti correnti attivi, televisioni in perenne diretta. Il mondo, per quel poco che le tv trasmettono, guarda invece più o meno indifferente la tragedia del Pakistan. La riserva di generosità si è esaurita nei Caraibi? Il Pakistan è un paese antipatico, la culla del terrorismo islamico? Forse a fare la differenza contribuisce anche il periodo in cui avvengono le disgrazie. Haiti è stata affossata a inizio anno, subito dopo Natale, quando siamo tutti più buoni. Lo stesso era avvenuto con lo tsunami che aveva travolto i paesi dell'Oceano Indiano il 26 dicembre del 2004: in quel caso la molla erano stati i tanti turisti stranieri coinvolti, italiani compresi. La tragedia del Pakistan si è invece manifestata in tutta la sua drammaticità ad agosto, durante le ferie, quando è più scomodo fare un versamento, organizzare i call center, i soccorsi. In spiaggia anche le disgrazie più tragiche diventano un'eco lontana. E se la televisione non mostra e rimostra i volti dei disperati e non fa sentire le loro voci, se i giornali non ne raccontano ampiamente e ripetutamente le strazianti peripezie, è difficile che qualcuno, che molti, anzi, si commuovano e si mobilitino. Per cui gli sventurati, i profughi, i senzatetto, i feriti, i malati, gli affamati restano, come ora i pachistani, soli con i loro morti. Nell'indifferenza generale. Per commuoversi c'è sempre tempo: fino al prossimo Natale.

 
 
 

L'erede infelice

Post n°65 pubblicato il 21 Settembre 2010 da ilmondocheiovorrei
Foto di ilmondocheiovorrei

Era una persona "sensibile e fragile", Edoardo Agnelli. Così lo ricorda chi lo ha conosciuto. Uno che aveva deciso di dedicare la propria vita agli altri, lontano dalle aziende di famiglia. Uno che era attratto dalla ricerca della pace, dalla tutela dell'ambiente e dalla volontà di dialogo, come raccontano i frati del Sacro convento di Assisi dove Edoardo si era recato più volte alla fine degli anni '90.

Scelse di andarsene come se ne va molta gente comune, non certo gli eredi al trono. Edoardo Agnelli, l'unico figlio maschio, il primogenito di Gianni Agnelli, il più fragile degli Agnelli, forse il più infelice, quello che aveva attraversato la vita della più grande famiglia italiana con affanno, appartato, fuori dal potere. Edoardo portava il nome del nonno, morto pure lui tragicamente in un incidente aereo nel '33, un Agnelli che probabilmente non aveva grandi doti di capitano d'industria se suo padre, il fondatore della Fiat, lo aveva già escluso dalla successione, pensando di designare il nipote Gianni, il futuro Avvocato, allora quattordicenne.

Per l'Edoardo figlio dell'Avvocato il destino familiare è stato lo stesso. Il trono della potente dinastia italiana era stato ritenuto troppo impegnativo per lui, erede naturale ma giudicato inaffidabile. Edoardo soprattutto, ha vissuto, sino a che lo ha sopportato, il dolore di una vita non all'altezza delle aspettative degli altri, sempre sbagliata rispetto a quella che sarebbe dovuta essere.

Neppure l'amore riempiva la sua vita. Lui, uno dei partiti più ambiti del mondo, aveva avuto qualche aristocratica ragazza, ma poi tutto si era incenerito, senza ragione. Non si era sposato, non aveva una compagna. Da ragazzo dicono fosse bello, così somigliante sia al padre che alla bella madre Marella Caracciolo. Bello, raffinato, malinconico, con un sorriso che col passare degli anni si era fatto sempre più incerto. Era ingrassato e aveva appena cominciato una dieta dimagrante, che secondo qualcuno potrebbe essere stata la causa scatenante della sua depressione, che aveva però origini lontane.

Negli anni della giovinezza, man mano che le porte del potere familiare che riteneva suo, si chiudevano davanti ai suoi errori, lui cercava strade sempre più infide per ritrovare il rispetto di sé e degli altri. Misticismo, francescanesimo, droga, buddismo, discorsi contro il capitale, elogio dei poveri, critiche alla conduzione Fiat, alle scelte manageriali della famiglia: errori su errori. Per uscire dall'ombra, per farsi ascoltare, forse per scuotere il padre, amato, imitato nel vestire e nel modo di parlare, eppure contrastato da un figlio che sentiva giorno dopo giorno di tradire le sue aspettative, di deluderlo. Quando la famiglia scelse il cugino Giovannino, figlio di Umberto, per assicurare una continuità dinastica agli Agnelli, per Edoardo si trattò di un personale affronto drammatico, la conferma della sua esclusione, della sua inconsistenza e inaffidabilità. Voleva bene al bel cugino intelligente, preparato, che ogni tanto gli aveva fatto compagnia, e allora non disse niente. Ma quando, dopo la tragica morte di Giovannino, la famiglia scelse come suo continuatore il ragazzino John Elkann detto Yaki, Edoardo non ci stette più e i giornali, pur sempre cauti quando si tratta di Fiat, raccolsero avidi le sue dichiarazioni che parlavano di complotto, subito smentite dal padre. Marella Agnelli, sua madre, lo amava moltissimo, ma diventava sempre più difficile proteggerlo, man mano che gli anni passavano e l'ansia del fallimento cresceva. A 46 anni, l'età matura dei bilanci, Edoardo non ha visto più futuro per sé né capacità di sopportarne il buio. E se ne è andato.

Nascere in una famiglia ricca e famosa, proprietaria della Fiat, cioè della maggiore industria privata nazionale, poteva sembrare un destino invidiabile ma per Edoardo fu un ruolo forse a tratti più temuto che desiderato, almeno a giudicare dai dati della sua biografia, cominciando dalle scelte fatte dopo il tradizionale percorso scolastico dei giovani Agnelli. Scelte poco in linea con il potenziale successore di un impero industriale e finanziario: la laurea in lettere moderne a Princeton ma soprattutto la passione per le questioni religiose e la filosofia orientale e alle religioni orientali aveva dedicato approfondimenti e un vivissimo interesse, con lunghi viaggi in India. Era un ragazzo semplice, perbene. Non amava la mondanità ma la filosofia. In una lettera alla sorella Margherita, sua unica confidente in famiglia, una volta scrisse "la mia mente vola alta sopra le megalopoli industriali e, osservando con attenzione sotto, vede poco di buono e tantissimo da trasformare".

 

 
 
 

Scioperate pure, cocchi

Post n°64 pubblicato il 13 Settembre 2010 da ilmondocheiovorrei

La questione non è se i calciatori possano scioperare. La questione è dove lo trovino, in un momento come questo, il coraggio di scioperare. Non mi vengano a dire che lo fanno per i colleghi meno tutelati, i quali stanno comunque meglio dei loro coetanei con tre lauree. No, questa è gente che vive semplicemente fuori dal mondo. Il loro portavoce, un terzino che in pochi anni ha guadagnato più di quanto prenderà in tutta la sua vita uno scienziato, si è permesso di dire che i signorini protestano "contro lo status di oggetto con cui siamo trattati". Non gli basta poter andare dove vogliono, cioè dove li pagano meglio, anche a costo di fare le riserve delle riserve. Vogliono di più. E hanno ragione, forse.

La colpa non è loro. La colpa è di quei dirigenti che continuano a corrispondere stipendi a dir poco allucinanti e poi li ricaricano sul prezzo del biglietto, determinando così la morìa di spettatori negli stadi.

La colpa è di quei giornalisti che spremono pagine di interviste dalle loro meravigliose banalità e trasformano in maître-à-penser dei ragazzetti viziati che non leggono un libro e non conoscono una lingua, spesso neanche quella italiana.

La colpa è dei tifosi, che hanno fame di idoli, come in politica di leader carismatici, e si dimenticano che i calciatori sono come gli omini del calciobalilla, perché quella che conta è solo la maglia, come in politica dovrebbero contare solo gli interessi e gli ideali.

Scioperate pure, cocchi. Purché le società abbiano il buon gusto di devolvere le vostre sontuose trattenute a un fondo per laureati disoccupati. 

 
 
 
 
 

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Un blog di: ilmondocheiovorrei
Data di creazione: 06/01/2010
 

 

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